Pedalando verso Sarajevo: tombe, leggende e praterie
Nevesinje-Kalinovnik: 59 km, 750 metri di dislivello prevalentemente su sterrato. La dodicesima puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale
Le tappe cominciano la mattina. O meglio, la sera prima col briefing. Il rituale, da ripetere a tutte le svolte dubbie, consiste nell’estrarre dalla borsa anteriore della bicicletta un plico di fogli A4 fronte retro. Lo consultiamo con devozione e rispetto degni di un libro sacro. A questo punto del viaggio, è bello di fama e di sventura come Ulisse all’approssimarsi della sua Itaca.
Spiegazzato ai bordi, macchiato dall’unto dei burek, arricciato da gocce di birra e radler. E confermato, tappa dopo tappa, nella sua precisione altimetrica e chilometrica, nella sua capacità di elencare, al fortunato cicloturista che ne sia in possesso, ogni dettaglio utile al raggiungimento della meta, inclusi fontane, baretti, benzinai, monumenti, cartelli di campi minati. Mancano solo gli edifici non ancora costruiti.
Il plico lo ha scritto Alba, leggendaria veterinaria trentina che non ho mai incontrato di persona, e che dopo avere accompagnato, sette anni fa, due gruppi di ciclisti, a giugno mi ha passato questa cartella di appunti e note di viaggio.
Oggi, 15 agosto, decima e penultima tappa, Nevesinje-Kalinovik, Alba dice che ci aspettano 59 km, 750 metri di dislivello prevalentemente su sterrato, impossibilità di rifornirsi di acqua o cibo fino a circa metà ed enormi difficoltà di pernottamento all’arrivo.
Ieri sera abbiamo fatto incetta di burek e sfogliatelle. Stamattina ci siamo rifocillati con uova, wurstel e fagioli accompagnati da caffè turco e domaći čaj, tè della casa. Così lo ha definito con orgoglio il nostro ospite, brandendo un mazzetto di fiori di campo essiccati.
Riempiamo le borracce e arriva la domanda di rito di ogni partenza e ripartenza. Tre parole che alle prime tappe suonavano quasi esotiche (in lingua emiliana si userebbe il verbo “mettere”) e che nel corso del viaggio ne hanno riassunte e sostituite molte altre. “Come sei presa?”, chiede Andrea. Sono presa bene. Andiamo. I nostri ospiti ci salutano gridando “Sretan put”, buon viaggio. Andrea risponde “Cavalla” che è la sua versione di hvala, grazie.
Negli appunti di Alba, una delle indicazioni più rischiose è ATTNZ CANI!!!. I cani di sette anni fa – abbiamo scoperto – sono quasi sempre ancora vivi. Infatti al km 11 ci insegue ringhiando un meticcio da pastore taglia grande, finché non lo richiama la voce della padrona, una donna in nero seduta su una sedia accanto al muro della casa.
Poco dopo, preceduta dalla bandiera tricolore della Republika Srpska, la svolta a sinistra per il passo Morine, 1300 metri, cima Coppi del viaggio. Ci arriveremo dopo quindici chilometri, prima di tornanti e poi di falsopiano, con le ruote, i telai e gli abiti coperti di polvere, le gambe dure come marmo, le marce da cambiare sempre troppo scarse. E gli occhi pieni di alberi verdi, rocce grigie, erba dorata dal sole, e centinaia di fiordalisi di un azzurro spento, impolverati anche loro.
Una casa intonacata di giallo chiaro e crivellata di colpi, un trattorino rosso di boscaioli, in cima all’altopiano due motociclisti in nero su moto nere, con i quali scambieremo un cenno di saluto sollevando le mani destre dai rispettivi manubri.
Il resto della presenza umana sono sagome di pastori in lontananza e panni stesi ad asciugare fuori dai capanni per le greggi. L’altopiano è circondato da montagne a perdita d’occhio. Una corona di montagne, con dietro e accanto altre montagne, più lontane, preziose e scoscese. Non c’è vegetazione. Solo tombe, leggende e praterie.
Sull’oro delle praterie spicca da lontano la lana bianco sporco delle greggi, da vicino risalta una distesa di parallelepipedi di pietra grigia. Sono gli stećci, necropoli medievale dei bogumili, eretici cristiani che predicavano povertà e purezza, ma non sopravvissero abbastanza per beneficiare dell’editto di Blagaj e della libertà di culto voluta dal sultano.
Chilometri di praterie gialle, cardi blu, ombrelli bianchi l’achillea, palle fucsia su alti cespugli. Nemmeno un cartello rosso con il teschio e le tibie incrociate. Non ci sono mine. Vicino Kalinovik, scopriremo, nacque Ratko Mladić, il generalissimo dei serbi di Bosnia. E dispose che sui pascoli dei suoi vicini di casa non cadessero ordigni.
Dopo l’estasi dell’altopiano iniziano dieci chilometri di discesa al 12%, un’infilata di tornanti stretti uno dietro l’altro. Le mani tremano sui freni, i culi galleggiano sui sellini, gli sguardi restano incollati alla strada per evitare le buche più dure e le pietre più grosse. “Per fortuna lo abbiamo percorso da questa parte, fare i tornanti in salita era impossibile”, commenteremo alla prima sosta, al chioschetto in legno di Ulog, sull’alto corso della Neretva.
Salvo poi scoprire, una volta tornati a casa, che Fabio Masotti, autore di un diario di viaggio bosniaco pubblicato da Ediciclo, aveva fatto i tornanti in salita, aggiungendoci pure un centello di km in più. Con i ciclisti di mezza età non c’è competizione.
Tra parole e gesti, raccontiamo l’impresa agli avventori del bar. Un bel settantenne che siede sotto il portico di legno all’angolo opposto al nostro, camicia bianca stirata e cappello di paglia, il volto solcato da rughe come sorrisi, potrebbe essere il Pescatore di De André.
A spezzarci il pane e accompagnarlo con ćevapi e coca-cola è Rada. Di anni ne avrà una sessantina, ha una camicia sgargiante e ci accudisce materna, scusandosi perché il bagno è quattro assi di legno attorno a un buco. Avevamo le borse piene di burek, ma pare brutto sedere qui così a lungo e non ordinare qualcosa. “Venite da Nevesinje? Lì è makadam, sterrato – dice – d’ora in poi tutto asfalto”.
“Andate a Sarajevo? Tutta discesa!” aggiunge un altro. Siamo così orgogliosi dell’ultimo passo che al “Come sei presa?” ripartiamo subito, senza consultare il libro sacro. Esaurita l’esaltazione a quaranta all’ora del primo, brevissimo tratto, ci accorgiamo che, pur confortata dall’ombra di boschi spettacolari, quella che ci aspetta è una discesa bosniaca, una discesa per automobilisti, una parente prossima del “chilometro montanaro”, quello che poi si rivela essere lungo almeno il triplo. Altri venti chilometri di salita.
Ci sono compagne una fontana freschissima, lapidi della Seconda guerra mondiale decorate con la stella rossa, un’aquila nera che ci sorvola vicino al villaggio di Ubljaj. La strada è dissestata, c’è traccia di lavori in corso, escavatori parcheggiati, portacavi di plastica rossa, grandi tubi di cemento.
Forse per fare una strada, o forse perché, sospetteremo grazie a un cartello 6 per 3 all’ingresso di Kalinovik, si preannuncia la creazione di una diga, una serie di laghi artificiali e una centrale idroelettrica. Protagonista, un gruppo multinazionale con capitali anche cinesi.
Si inizia a scendere a un ponte bailey, ricostruito dalla cooperazione spagnola nel 2005, per ripristinare il collegamento tra Kalinovik e Konjic. Annunciano il paese da lontano una fortezza diroccata e la punta a sbuffo del campanile ortodosso. Dribbliamo l’ultimo gregge e subito siamo al paesino per la radler di fine tappa.
Decidiamo di informarci immediatamente per dormire, chiedendo al bar – sala scommesse dove ci siamo appena seduti. “Gangster di Kalinovik”, se non ricordo male, era il modo in cui la madre di Miljenko Jergović, in un racconto delle “Marlboro di Sarajevo”, sbraitava contro un vicino, colpevole di rubarle frutti dal melo nei mesi disperati dell’assedio.
Accanto abbiamo un vecchio dal volto deforme e butterato e il tavolo ingombro di birre. Davanti, la ex casa del popolo jugoslava con i vetri spaccati, i muri segnati dai colpi e una grande scritta in stampatello: “Ratko Mladić”. Si ripresenterà, il vicino di Jergović, portando le mele trasformate in composta.
Il venticinquenne alto e secco che ci ha servito da bere manda a chiamare Darko, coetaneo palestrato, probabile padrone del locale. Possono farci dormire – dichiara Darko – per venti marchi a testa, dieci euro. Usciamo da una porta sul retro e seguo il socio su una scala di moquette marrone consunta. In fondo al corridoio, oltre le piante emaciate del pianerottolo, si intravede una saletta piena di attrezzi e pesi. Un energumeno ne esce a torso nudo, pantaloni mimetici, un asciugamano sulle spalle.
La stanza numero tre ha tre letti, panni infeltriti, teli di cotone luridi sopra lenzuola ingrigite. Alle pareti una carta bianca e lilla, fantasia floreale anni Sessanta, tipo asciugamani di Ken Scott. Vista su palazzo Mladić.
Siamo entrambi certi che sia l’unico alloggio del paese e ci rassegniamo. La doccia – in comune – non si chiude. Andrea rimane a farmi la guardia nel corridoio, l’acqua non è poi così fredda. Le bici dormono in uno scantinato, custodite dal rotweiler di Darko. Dopo l’immancabile sonnellino, usciamo in cerca di cibo. Giriamo attorno al retro del nostro edificio, e subito appare un’enorme insegna a lettere bianche su fondo blu.
“Receptija”. Sarà una banca, dice Andrea. O un ospedale, rispondo io. Entriamo per curiosità e la “receptija” si rivela, ovviamente, di un albergo. Dal lato opposto della strada un uomo smette di cuocere ćevapi su una griglia allestita sul marciapiede per venirci ad accogliere. Cinquanta stanze tutte vuote, con bagno in camera, lenzuola candide, asciugamani di spugna su copriletti damascati rossi e poltrone beige in finta pelle.
Fantastichiamo su possibili speculazioni connesse ai lavori della futura diga. Più probabilmente è un residuo jugoslavo, chiuso per danni di guerra ai tempi del viaggio di Alba. La facciata è a pochi metri da dove ci siamo fermati noi. Per chi viene da Sarajevo, lato opposto al nostro arrivo, un cartello elenca servizi e comfort dell’hotel Moskva.
Decidiamo di mantenere il nostro nido spartano, e per restare in tema saliamo i gradini di legno di un grill tipo palafitta, che a ogni passo trema come per un terremoto. I buchi sulle tovaglie scozzesi coperte da centrini consunti fanno pendant con quelli sulle magliette e tra i denti degli avventori. Origlio i discorsi dei vicini, mi pare stiano parlando del ’97 del ’99, che fu un bellissimo capodanno. Uno ha una divisa militare sbiadita. “Maria, Maria, tzigana mia”, canta la radio.
Anche oggi i giornali parlano di Kusturica, che sta girando un film con Monica Bellucci al lago di Zelengora. Qui vicino, non fosse per i dislivelli. Fuori è quasi il tramonto. Una donna spacca la legna nel cortile. Troviamo un ristorante con le pareti rivestite di specchi e legno scuro, e un delizioso pelouche rosso sulle poltrone. Birra, carne, patate fritte e šopska salata. Per finire, una rakija nel bar accanto al nostro alloggio.
La ragazza bionda ce ne porta due per un marco e mezzo, accompagnate un opuscolo in cirillico sulle bellezze del posto, un dizionario essenziale serbo-italiano e una cartolina ricordo di Kalinovik, che Andrea nel frattempo ha ribattezzato “Kalashnikov”.
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