Pedalando verso Sarajevo: Tito, Princip e Grof
Dalla grotta-bunker di titina memoria a Obljiai, villaggio natale di Gavrilo Princip. La settima puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale
Notte di vento forte, pioggia, canto dei galli e incubi. É la trota, sostiene Andrea. A Martin Brod, ieri sera, abbiamo commesso l’errore strategico di affittare la stanza dalla ristoratrice del villaggio. E quindi, secondo la regola “un po’ per uno in braccio alla nonna”, cioè diversificare il sostegno all’economia locale, non potevamo più cenare da lei. Così ci siamo trovati ai tavolini di metallo bianco di un baretto, con un decimo della scelta che ci avrebbe offerto Zora. Bistecca per Andrea, trota e incubi per me. Accanto a noi tre signore attempate, perse in chiacchiere fino a tarda sera con i loro caffè e le sigarette. Una inspira forte da un lungo bocchino.
A colazione Zora ci rimpinza di uova, kajmak, caffè e gigantesche fette di pane raffermo rifritto. Mentre scendiamo con i bagagli aspettando che smetta di piovere, torna con un sacchetto pieno di ustipci, palline di pasta appena fritte, soffici e gonfie. Sotto la pioggia visitiamo le cascate di Martin Brod, insieme a un gruppo di pescatori arrivati dalla Germania alla scoperta delle dolci acque bosniache. Siamo in sella alle 11, anche oggi c’è da arrampicarsi. Prima coi rapporti teneri, su una lunga salita di tornanti. Poi su un interminabile falsopiano deserto, punteggiato di cartelli di campi minati. Tra il verde dei cespugli spiccano alberi dalle foglie rosse e arancioni e gli immancabili cardi blu, ancora più brillanti sotto il cielo livido, grigio scuro.
Saliamo in circa 3 ore, ognuno al suo passo, avvolto nei suoi pensieri, senza incontrare anima viva. Ogni tanto vedo in lontananza il windstopper arancio di Andrea, lui ogni tanto si volta, vede baluginare la mia giacchetta rosa e ricomincia ad andare. Dalla cima si abbraccia tutto l’altopiano di Livno. Scendiamo veloci verso Drvar, triste e decadente. Titov Drvar, si chiamava tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni Novanta. Il nome viene da drvo, legno, l’aggettivo dalla grotta-bunker in cui Tito, allora capo partigiano, si asserragliò per sfuggire ai nazisti. Negli anni della Titova Jugoslavia, la grotta era meta di pellegrinaggio, poi abbandonata, oggi rispolverata da una Bosnia affamata di turismo. Andrea fatica a salire con le scarpe da bicicletta. Dietro di lui una donna formosa, mora, arranca sui tacchi alti.
Il biglietto per la grotta vale per il museo etnografico, zangole e costumi tradizionali, e per quello storico, che si apre con un Gavrilo Princip appena catturato dopo l’attentato all’arciduca. Poi, tra le divise e le armi d’epoca, immagini di Drvar com’era una volta e delle visite del compagno Tito. Il maresciallo è ovunque anche nel negozio di souvenir. Sugli accendini, sui calendari, sulle cartoline. Sui magneti che scegliamo come ricordino sta fumando il sigaro e ricorda un po’ Mastroianni.
Andrea sente un rumore nei pressi della ruota e un meccanico di auto allampanato prova invano ad aiutarci, telefonando a un amico. I passanti dispensano consigli. Una donna si indigna quando sente dove siamo diretti. Mora, sulla sessantina, ha un caschetto alla Louise Brooks non adattissimo al suo naso aquilino. Parla metà croato e metà tedesco, dice di diffidare di chiunque, di fidarsi solo di lei, e soprattutto di non andare a Bosansko Grahovo: “Nema nista”, non c’è niente laggiù. Se proprio ci ostiniamo ad andare, faremmo meglio ad aspettare qualche ora, quando partiranno anche loro in macchina, per darci aiuto, scortarci, difenderci dai pericoli. La veemenza della perorazione suscita qualche imbarazzo anche nel capannello, fatto di croato-bosniaci emigrati in Germania, più i parenti poveri che li ospitano per l’annuale ostentazione di benessere e distribuzione di vestiti delle passate stagioni. Finalmente lo sportello dell’Audi si chiude davanti al caschetto corvino.
Torniamo ad arrampicarci per i tornanti con sprezzo del pericolo, tranne quello delle mine: i cartelli rossi col teschio avvertono che se ci scappa la pipì sarà meglio non farla nel bosco. A pochi chilometri dalla ripartenza sobbalzo sulla sella all’apparire di una Zastava rossa – tipo Fiat 126 – da cui si sporge un uomo sbraitando nella mia direzione. Dopo qualche respiro profondo capisco che vuole solo rafforzare il messaggio dei cartelli teschiati: “Pazi, ima mina”, attenti alle mine.
Il pomeriggio passa tra chilometri di boschi e altopiani, senz’anima viva, con scheletri di case da cui ormai è stato razziato tutto, e sporadici incontri con carri agricoli. Mi fotografo da sola con lo sfondo dell’altopiano, e ripenso alle email scambiate con Maja, amica erzegovese, che a più riprese aveva sconsigliato di passare di qui. “I dintorni sono spettrali – scriveva Maja – a causa di (molta) presenza di case devastate, un’atmosfera desolata e quasi totale assenza di esseri umani. Non vi consiglierei di fermarvi lì e non perché consideri il posto pericoloso (non più di qualunque altro paesino isolato dell’Italia e dei Balcani), ma perché non credo che ci siano strutture d’accoglienza dopo Drvar e prima di Livno. Ciò non significa che arrivando prima del buio e con un po’ di buona fortuna non riusciate a mettervi d’accordo con qualcuno del posto e dormire a casa sua pagando un prezzo concordato sul momento”.
Parole sante, e ce ne accorgiamo a Grahovo, dove il motel indicato dagli appunti di Alba è chiuso, all’apparenza per sempre. Al benzinaio, Andrea ribattezza i due titolari della pompa “Bepi” e “Mario”. Rispondono alle nostre domande con impercettibili movimenti della testa, che vogliono sempre dire “no”. Bepi oppone un no secco anche alla preghiera del poliziotto seduto accanto a noi: “Ma dove vanno, non potete ospitarli voi?”. Non esiste, ma tra un paio di chilometri – assicurano – troveremo un ristorante aperto, che ha anche le camere.
Il ristorante è accanto a una sala scommesse impestata di fumo. Al bancone c’è una mora insopportabile, che per il resto del viaggio ricorderò come “la succhiaca**i”. “Avete camere?” “Sono piene”. “Sicura?” Silenzio. “Avete cibo?” “La cucina è chiusa”. “Sei sicura che non possiamo dormire neanche in un angolino?” Alzata di spalle e rotazione di centottanta gradi verso la spina della birra.
In nostro soccorso vengono due avventori in divisa. La soluzione, manco a dirlo, la troveremo a Obljai. Patria di Gavrilo Princip, spingitore di guerre mondiali, ma per stasera soprattutto di Grof, ex marittimo anarchico, antinazionalista e rocchettaro, nonché occasionale affittacamere. Il villaggio è semi deserto, annunciato da pioppi e da una piccola segheria. Grof arriva chiamato da un vicino, parlando metà italiano e metà bosniaco. Il piano terra della casa ha l’aria di un centro sociale anziani della bassa padana, bancone pitturato di bianco e blu, cd sparsi sulle mensole.
“Vi piace il rock?”, chiede Grof. È alto e allampanato, capelli a spazzola con andamento diagonale, sorriso meno qualche dente, una vistosa gobba sulla schiena e un’altra sporgente all’altezza del petto. La risposta la dà direttamente Janis Joplin, dal piccolo stereo sullo scaffale: “Freedom’s just another word for nothing left to lose”.
Ed eccoci liberi di muoverci per la casa di Grof, dormire su lenzuola pulite (insomma), farci la doccia calda (sì), strofinarci con asciugamani puliti (come sopra) e restare quanto vogliamo, per il modico prezzo di 10 euro a testa. Ci prepariamo a estrarre i saccapeli per stenderli sulle lenzuola pulite, ma prima c’è il mini tour guidato da Grof tra gli highlights della casa. Foto della nipote al diciottesimo, libro fotografico sulla Jadrolinja (“ho fatto per trent’anni l’elettricista sui cargo, quel che so d’italiano l’ho imparato dai portuali di Brindisi”), foto della casa durante la guerra (“non sapete quanto ho speso per rimetterla a posto”) e dulcis in fundo una collezione di biglietti dei concerti rock passati per i Balcani negli ultimi trent’anni. “Metà dello stipendio lo spendevo in musica”, gongola, esibendo un Rolling Stones, Belgrado 2007.
Nella luce del crepuscolo risaliamo a Grahovo per cenare. Al ritorno, la notte bosniaca dimostrerà che il mio fanalino portatile serve a essere visti, ma illumina la strada poco più di quanto farebbe una lucciola. Al ristorante Mir, di Slavisa & madre, il video-jukebox sulla parete alterna sfingi e tigri, palme e ghiacciai, tettone in bikini e pagode. In breve diventiamo un’unica cumpa col tavolo accanto al nostro. Merito di Nikola, fabbro e sociologo in Baviera, che ogni estate torna per ristrutturare la casa del nonno. Quest’anno lo aiuta un amico tedesco, l’appuntamento fisso della sera è al tavolo ingombro di birre.
Il visitatore bavarese ha una camicia a quadri, conversa in inglese con un ragazzo del posto in maglia del Che e pantalone mimetico. Tema: l’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Finiamo a parlare dell’offensiva croata del 1995. Chi la chiama “guerra di liberazione”, chi “invasione”. Diciotto anni dopo, Grahovo è ridotta da circa 9mila a meno di mille abitanti. E ora, lamenta Miroslav, “tutti i posti delle imprese che erano statali sono in mano ai croati. Preferiscono far lavorare i pendolari dalla Dalmazia, e a noi non resta che fare i pastori”.
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