Pedalando verso Sarajevo: monopattino
Passando per Buccari, quella della "beffa" dannunziana sino a Senj. La quarta puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale
L’ostello di Rijeka è un cubo di cemento, con dentro la sorpresa di una saletta per lo yoga e cucina esclusivamente vegana. Lo lasciamo alle 8 e 11, dopo una colazione di pane, frutta fresca e paté di lenticchie, e dopo aver fatto sfrigolare i nostri integratori in due bicchieroni d’acqua del rubinetto. Siamo già nella parte est della cittadina e prendiamo subito la statale, calda e già trafficata, che dopo pochi chilometri scende in picchiata verso Bakar.
Oggi è un tranquillo borgo costiero, case e baretti a sinistra, barche da diporto a destra, ormeggiate o all’asciutto. Ma per i libri di storia, e per chi Rijeka preferisce chiamarla Fiume, resta la Buccari della “beffa” dannunziana, il raid del febbraio ’18 contro la base navale austroungarica che si trovava all’interno dell’ampia sacca. Pochi mesi prima, a ottobre 1917, si era combattuta la dodicesima battaglia dell’Isonzo, Caporetto, una disfatta così grave da passare al lessico oltre che alla storia. Dopo avere percorso i 10 chilometri di strada che costeggiano la baia, per metà in tortuosa salita, ci troviamo a sognare un ipotetico ponte che lasci D’Annunzio e gli incursori della Mas fuori dal nostro itinerario.
Per oggi gli assaggi di Grande Guerra finiscono qui. Continuano le salite, pedalabili ma implacabili, per tutta la tappa. Sulla destra l’Adriatico, chiuso come un lago dal profilo dell’isola di Krk, sulla sinistra montagna, e ogni tanto qualche paese di turismo: balneare d’estate, come conferma lo stillicidio di annunci “zimmer – sobe” che precede ogni centro abitato, dentale d’inverno, a giudicare dalla quantità di cartelli pubblicitari a forma di molare.
Spesso la strada non ha il guard-rail ma un muretto interrotto. Negli spazi balugina il verde azzurro dell’acqua. In salita vado così piano che vedo i ragni tessere la tela sugli arbusti, al lato della strada. L’eroe della giornata è l’unico che viaggia più lentamente di noi. Prima è solo un puntino sfuocato a metà del pendio. Avvicinandosi, si trasforma in un venticinquenne accaldato, in bermuda e monopattino, che approfitta di uno slargo per dare strada a noi e a un paio di tir.
Ci fermiamo qualche ora a Novi Vinodolski, acqua limpida e un fornitissimo supermercato Lidl a due passi dagli scogli che abbiamo scelto. Andrea dorme all’ombra dei pini marittimi, io sguazzo e osservo i vicini. Una famigliola gioca a carte, uno dei figli ha i bermuda bianchi rossi e blu con lo scudo croato a scacchi rossi. Una coppia sonnecchia sulle stuoie in compagnia di due cagnetti bianchi tipo bichon frisé. Le espressioni dei quadrupedi somigliano a quelle dei bipedi, come nella sfilata iniziale della Carica dei 101. Un pensionato senza una mano, che però gesticola come se l’avesse, si ferma accanto alla bici. È attratto dall’icona fluorescente di Santa Graziella, con una ruota piena di raggi al posto dell’aureola, e dall’adesivo della Ciclofficina popolare di Modena, che recita “One less car” in lettere nere maiuscole.
Dopo Vinodolski ci sarebbe una deviazione suggerita da Mauro, con fonte d’acqua fresca a due passi dalla spiaggia, ma ormai tiriamo dritto verso Senj, sempre nel caldo e nel traffico. Ci concediamo una sosta per riempire le borracce a pochi chilometri dall’arrivo, alla reception di un campeggio in una curva della strada. Accanto a noi un minivan francese stipato di bambini. Al bar di fronte aperitivo gratis per gli ospiti del campeggio.
Il lungomare di Senj è intitolato a Franjo Tudjman, presidente croato negli anni dell’indipendenza e delle guerre, ed è addobbato a strisce colorate per il carnevale che qui, scopriamo, si festeggia in estate. Più tardi nel centro, poco illuminato e decadente, tra statue di bronzo, archi di pietra e parchetti verdi inselvatichiti, troveremo una tensostruttura semivuota che vende birre e carne alla griglia, luogo di passeggio e slumo per ragazzotti locali e preadolescenti imbronciate in vacanza, inguainate in leggings aderenti e accompagnate da fratellini pestiferi.
Desistiamo da una visita alla fortezza per non accollarci l’ennesima salita e ci rinfreschiamo con birra e sprite. Al nostro arrivo, una famiglia piena di bambini dalle trecce bionde, in shorts e cappelli di paglia da americani in vacanza, si alza all’unisono da una panchina. Altri bambini giocano con gli ombrellini rosa dei cocktail sotto gli ombrelloni verdi del bar. Un pesce palloncino si stacca da una manina sul lungomare per allontanarsi in volo sull’Adriatico.
Ci sistemiamo all’hotel Art, torrido e dalle pareti color rosa mutanda. Alla cassiera non siamo stati simpatici, forse le è sembrata inopportuna la mia richiesta di sconto, fatta riferendomi agli appunti di Mauro e Alba nel loro viaggio di sei anni prima. Ci dà una stanza proprio sopra l’impianto di aerazione del supermercato, con il letto matrimoniale anche se li abbiamo chiesti gemelli. Nessuna voglia di tornare a discutere: a vincere l’imbarazzo basterà la stanchezza, in attesa che qualche altro giorno e chilometro ci trasformi da buoni conoscenti in ottimi compagni di viaggio e fratelli.
Rimane il tempo per un altro tuffo, sulla spiaggetta di sassi gremita di nonni, nipotini e asciugamani. Si entra in mare schivando una battaglia tra fucili ad acqua. Doccia, bucato, calzoncini appesi ad asciugare alle persiane della camera e siamo pronti per un’abbuffata di pesce, accanto a vicini di tavolo supertatuati e fumatori compulsivi. Andrea, che per lavoro si occupa di igiene orale e spazzolini elettrici, li biasima in silenzio. Poi ammonisce me sui rischi del fumo, per la salute in generale e le gengive in particolare.
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