Tipologia: Reportage

Tag:

Categoria:

Pedalando verso Sarajevo: lucchetti e cotogne (epilogo)

Giusto il tempo di assaporare Sarajevo, poi il viaggio si chiude come un cerchio: l’ultima tappa di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario della Grande guerra

13/08/2014, Giulia Bondi -

Pedalando-verso-Sarajevo-lucchetti-e-cotogne-epilogo

Siamo fermi. I piedi che toccano terra. Normali turisti. Usciamo camminando per fare colazione, passeggiamo tra la paccottiglia made in China dei negozietti della čaršija, facciamo la coda al Sarajevo Film Festival per un film d’autore surreale, che comincia con un funerale e una promessa d’impiego, e ti lascia con la sensazione che Mostar sia molto più divisa e ferita di quanto credevi. Sorseggiamo caffè e dolcetti turchi nell’ampio chiostro che una volta era di un caravanserraglio, e con l’aiuto della piccola ma variegata comunità di italiani che passa l’estate a Sarajevo cominciamo a informarci su come si fa a ritornare in Italia, non più sulle biciclette, ma con le bici al seguito.

Ritorno a casa mediterraneo

Io voglio raggiungere la costa e imbarcarmi per Ancona dopo qualche giornata di mare. Posso farlo in treno, scivolando giù lungo la Neretva fino a Ploče, Croazia, pochi chilometri a nord di Neum, l’angusto sbocco al mare dell’Erzegovina. Andrea vuole rientrare via terra a Treviso, non è proprio di fretta ma tra qualche giorno ha un aereo per l’Armenia, per partecipare a un progetto europeo.

Scopriamo dai pendolari italo-sarajevesi che i pullman provenienti dalla Bosnia non hanno – almeno ad agosto 2013 – il permesso di fare fermate in Italia. Ci consigliano di chiamare l’agenzia che copre la tratta Sarajevo – Lugano, e cercare assieme a loro un escamotage in stile mediterraneo. “Buonasera, potete fare una fermata in Italia?” “No, ma venite in ufficio che ne parliamo”.

All’ora dell’appuntamento l’impiegata, sinceratasi con una domanda diretta che non siamo poliziotti, estrae un atlante stradale con l’elenco degli autogrill. “Treviso? Il più comodo è Calstorta Nord, tra Cassalto e San Donà di Piave”, dichiara. Per ovviare al divieto governativo, le compagnie di pullman ti scaricano di soppiatto durante una pausa pipì, fingendo di averti dimenticato all’autogrill come la moglie casalinga di “Pane e tulipani”. Condizionale d’obbligo, perché se l’autista sente odore di uomini in divisa ha ordine di evitare la sosta, anche se concordata col cliente, e sostituirla col primo autogrill disponibile.

Un ponte, o una fontana

Lasceremo Sarajevo tra un paio di giorni. Quarantott’ore per saltare in macchina con Eugenio e la sua amica Milena, esperta di problemi previdenziali per gli sfollati kosovari a Belgrado, e spingerci a nord est per un caffè da Lutvo, a Travnik, città natale di Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura e cantore della complessità balcanica, delle contraddizioni del potere, di quanto si gonfino le storie passando di bocca in bocca e di quante cose possano accadere se qualcuno, per essere ricordato, decide di costruire un ponte, oppure una fontana.

Dopo 11 tappe in cui al massimo si toccavano i 50 in discesa, oggi sfrecciamo in una quasi autostrada nella valle della Bosna, tra case rurali, negozi di mobili, acqua-park ruspanti ed enormi cementifici. Qualche ora a Travnik tra la fortezza, i ćevapi ritenuti i migliori del paese, le turiste con la testa velata e l’iPad 32 giga, le moschee affrescate e la casa natale del narratore, con le edizioni antiche del “Ponte sulla Drina” e quella illustrata dell’“Elefante del visir”, il potere che si muove come un pachiderma devastando i ninnoli della čaršija.

Per riprenderci dalle quattro ore di auto, l’indomani andiamo a zonzo per Sarajevo sui pedali. Dal cimitero ebraico sulla collina ai lucchetti stile Moccia alle ringhiere dei ponti sulla Miljacka. Dalle pareti rosse del mercato che ricordano la strage del 5 febbraio, fino a una ciclabile a nord lungo il fiume, qualche bagnante nell’acqua fresca e altri stesi con i teli sui sassi bianchi della riva.

Il lunedì al Kino Bosna

Eugenio è ripartito ma, oltre a consigliarci la dolcissima colazione da Rahatlook, ci ha prenotato un tavolo da Avlja, ristorantino-serra, stipato di piante, soprammobili, cartoline d’epoca e befane volanti appese al soffitto, a due passi dall’ambasciata italiana. “Mi raccomando – ha concluso mentre caricava le ultime cose – se potete non dimenticate il Kino Bosna, lunedì sera”.

Ci siamo già passati, al Kino Bosna. Non era molto affollato. Invece che nella ex sala proiezioni, con le poltrone marroncine, Humphrey Bogart e Marilyn che ti guardano dalle pareti, abbiamo passato la serata in una sfida di freccette nell’atrio d’ingresso, a sghignazzare e intenerirci in compagnia di Saša, rocker spilungone con una passione per le donne straniere e una filosofia nera, disincantata e autoironica che più Balcani non si può.

“Te l’ha mai detto nessuno che sei così sexy?”, mi fa Saša a pochi centimetri dal mio viso. E poi di nuovo a tirare freccette, ad accennare qualche passo di danza, a irridere vivi e morti. “Il nostro numero è 666”, bofonchia alla fine di uno slego di chitarra. “Perché ce ne fottiamo di Dio, del Diavolo e anche di noi stessi”.

Saša è malinconia, poesia, un paese che non c’è più. Lunedì si cambia musica e pubblico, giovane e abbondante. Resta il mood nostalgico, non più per una terra perduta, ma per un’amante o un’innamorata. Il lunedì al Kino Bosna, ex cinema chiuso con l’assedio e poi riaperto dalla sua storica commessa, è la serata delle sevdalinke. La parola viene dal turco, prima ancora dall’arabo o dal persiano. Ha qualcosa a che fare anche con la saudade portoghese. In sala cantano tutti, l’orchestrina di quattro persone si muove da un tavolo all’altro a dedicare i pezzi.

Le gialle cotogne di Istanbul

Per noi c’è “Žute Dunje”. Narra delle gialle cotogne di Istanbul, ultima richiesta di una donna malata al suo disperato amante. Lui partirà per cercarle ma non farà in tempo a portargliele. Conosco la storia dal romanzo-ballata che ne ha tratto Rumiz. La conoscono, e si commuovono, anche la coppia italiana che ci sedeva accanto da Avlja e ci ha raggiunto qui. Due milanesi di origine siciliana, dall’aria così distinta che Andrea scommetteva fossero “l’ambasciatore e sua moglie”.

Andrea ha il pullman all’alba. Ci salutiamo prima di addormentarci nel letto che ci ha lasciato Marzia. Partirà senza svegliarmi, e io salirò in sella poche ore dopo, tra la gente che aspetta il tram e i rom che scendono dalle mahale spingendo carriole arrugginite. La discesa a picco verso Maršala Tita, la risalita fino all’ospedale, annunciato da un monumento con una vecchia bici d’acciaio incastrata nel cemento. I cani randagi e le cornacchie al semaforo dell’Holiday Inn, e le turiste che spingono trolley dirette alla stazione. Una ragazza vestita di nero passeggia col cane tra binari e rottami. “Ti amo, ma non quanto amo Sarajevo”, dice una scritta su un muro.

Il viaggio si chiude come un cerchio

Il posto della bici è nel corridoio d’ingresso al vagone, lo scompartimento lo divido con una coppia di adolescenti fidanzatini. Lei ha capelli rossi e unghie finte laccate. Lui lotta contro gli occhi che si chiudono, per vegliare su lei appoggiata al suo petto. Ripercorro l’itinerario navigando le foto, dal lungomare di Trieste ai fili elettrici che si incrociano coi grattacieli, alzando lo sguardo e l’obiettivo dalla pensilina della stazione.

Il viaggio comincia a chiudersi come un cerchio con una mail di Federico. Sta traslocando, chiede di cosa si sono riempiti i miei occhi e “dove ti sei arrotolata la sigaretta più intensa del viaggio”. Difficile a dirsi, mi sembra anche di avere fumato poco, sempre troppo per Andrea e la sua professionale attenzione all’igiene orale. Forse a Plitvice, penso, sotto l’arcobaleno, con le mani sporche di grasso dopo la prima foratura.

Gli altri compagni di scompartimento sono un padre quarantenne, le sue figlie, una valigia rosa e due grandi sacche da tennis. Lui incita le bambine a chiacchierare in inglese: è la lingua che devono sapere se faranno carriera, come spera, fino ai prati di Wimbledon.

Al confine croato la sosta è lunga, ma il treno arriva in orario e senza inconvenienti, a parte uno sportello lasciato aperto, forse dalle guardie di frontiera. Me ne accorgo per uno strano presentimento, vado a controllare la bici e la trovo a pochi centimetri dai gradini. Sotto si vedono i binari di ferro scorrere veloci.

Il resto è Mediterraneo: vigneti, villette col pergolato affittate ai turisti, cani dalmati di guarda ai giardini. Regalo la pasta di fissan per proteggere il soprasella a una coppia di ventenni belgi, in bici tra le isole. L’acqua è limpida, il pesce gustoso. Ma non c’è traccia dell’accoglienza bosniaco-erzegovese, sulle prime sbrigativa, poi avvolgente, calorosa e calorica. “We hate tourists”, confesserà a Spalato un professore di liceo Tito-nostalgico, bevendo una birra in una loggia nascosta tra le stradine lastricate di pietra bianca.

Domani ci saranno altri treni regionali, un pomeriggio di chiacchiere con ciclisti di ritorno, sul vagone trasporto biciclette. Prima ancora, la mattina, la salita al duomo di Ancona e l’incontro al bar con Massi. Stasera c’è solo il ponte della nave, e il vino rosso corposo offerto dalle vicine di sacco a pelo, versato nella mia tazza di metallo, a scaldare la notte adriatica. Il traghetto è un “low cost”, con personale all’apparenza interamente filippino. Si chiama Regina Pacis e batte – giuro – bandiera panamense.

[Fine]

Ringraziamenti dell’autrice

Grazie al compagno di pedalata Andrea, ad Eugenio, Alba, Mauro, Maja, Ajna, alla compagnia friulana, a Sara e Marzia per l’ospitalità, alle persone incontrate nel viaggio. Grazie a Silvia, Luca e Mauro, che mi hanno iniziato ai piaceri della pedivella, e ai compagni del viaggio Dubrovnik – Sarajevo, quello ancora da raccontare: Luigi-Nonna Belarda, Glauco Il Gladiatore, Melissa Boris, Giovanni – Drugo Talijano, Marco – Goran, Simona-La Peggio e Ale.

[Prima o poi, continua]

editor's pick

latest video

news via inbox

Nulla turp dis cursus. Integer liberos  euismod pretium faucibua

Possono interessarti anche