Pedalando verso Sarajevo: la bevanda del ciclista
Coppie in viaggio e salite che tolgono il fiato, sino al Parco Nazionale di Plitvice. La quinta puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale
I nomi li ho dimenticati, i completini immacolati no. Loro sono ciclisti da corsa: biciclette pulitissime, bagaglio al minimo, ogni sera in hotel. Lei ha una mini borsa sul portapacchi e veste in bianco, sulla maglietta qualche accenno di paillettes e righe azzurro chiaro. Lui traina un piccolo carrello. Trieste – Medjugorie il loro itinerario, lo faranno in sei giorni, corona grande e strade dirette.
Non come noi, che devieremo per le valli e le montagne a caccia di irredentisti e monasteri francescani, trasformando il nostro giro in un lungo serpente dal corpo pieno di anse, disteso per la Bosnia occidentale. Non come noi, che finiremo a dormire nei motel a ore, o nei letti matrimoniali di chi per i nostri 20 euro si accomoderà sul divano.
Loro proseguono per la costiera, sono già partiti da un pezzo quando finiamo di caricare le biciclette. Noi lasciamo il mare, il lungomare Franjo Tudjman di Senj, e puntiamo all’interno, verso i 700 metri del passo Vratnik, e poi la portentosa scalinata naturale su cui si allineano le acque dei laghi di Plitvice.
I primi 15 chilometri sono tornanti, boschi e fatica. Qualche camion, tanta preziosissima ombra e il sorriso sornione della donna che vende miele e formaggio nel banchetto a bordo strada, con sgabello e tavolino da campeggio. “L’altro è già passato, più avanti trovi una fontana”, dice in un misto di croato, inglese e gesti.
Negli ultimi tornanti il ristoro non è più l’ombra, ma la vista in lontananza di scorci di Adriatico, sempre a forma di lago, quasi fiume: una striscia di mare e un pezzetto di Krk, un altro po’ di mare e il profilo di Prvic. Tra sguardo e immaginazione si abbracciano anche Rab più in basso, e Kres a occidente.
Ogni sette o otto curve mi drogo di mare, sali minerali e frutta secca. In due ore abbondanti sono al passo, Andrea è arrivato già da un po’. Sognavamo una Coca-Cola tanto global quanto ghiacciata, bollicine zucchero e caffeina per brindare e ripartire di slancio, nel classico rifugetto-motel per motociclisti e camionisti. Troviamo solo ruderi, spazzatura e una gigantesca antenna per la telefonia.
E allora avanti, giù per la discesa, tra campi e paesini che rimarranno solo impressioni colorate negli angoli degli occhi, tanto effimeri quanto perpetui e immutabili erano apparsi i loro alter ego del versante in salita, mezzo metro o meno ogni pedalata, tutto il tempo per ascoltare ragni e farfalle, compiangere ricci schiacciati, ripetere poesie come mantra, considerare la potatura delle siepi, o l’allineamento delle scorte di legna tagliata nei giardini delle villette.
La stanchezza dei 700 metri di dislivello ci fa inchiodare al chiosco di un enorme benzinaio alle porte di Otocac. La commessa è così antipatica che ci fa pagare due kune un bicchiere di carta in più. Smezziamo una radler e un beverone energetico disgustoso, mentre vediamo passare altri due ciclisti simili a noi, carichi di borse. Lui ha gli shorts con le tasche e precede una lei con una lunga treccia castana.
Sarebbero bastati pochi chilometri in più per cambiare la scenografia della sosta: niente super senza piombo, ma gli edifici stinti e le strade polverose di Otocac, con il suo gusto di decadenza austriaca. Dopo la cittadina si susseguono mobilifici e segherie, e ancora salita, quella tipo rampa da garage, senza la pietosa bugia dei tornanti e il loro temporaneo ristoro. Ai lati della strada compaiono segnali di campo minato, i primi del viaggio.
A Vrhovine mangiamo banane e frutta secca, la nostra sosta coincide con la pausa birra dei boscaioli ancora vestiti da lavoro. In tuta verde ci sono anche due belle ragazze, muscoli e curve, una moretta e una bionda riccia. Al bar, però, quasi soltanto uomini. Al punto che per entrare al bagno delle signore si passa per gli orinatoi, o forse sono solo io che mi sbaglio per la stanchezza.
Ancora qualche chilometro e a sinistra troviamo la scorciatoia per Plitvice indicata da Alba e Mauro, una strada bianca che scende in mezzo agli abeti. Dopo circa sei chilometri, secondo gli appunti, ci sarà un bivio, con una sbarra “da aggirare” per entrare al Parco Nazionale. Peccato che oggi, a sei anni di distanza, sopra la sbarra troneggi un vistoso cartello che vieta il transito alle biciclette.
Tornare indietro è improponibile, per la legge della fatica e dell’altimetria inversa, e poi per strada asfaltata i chilometri si moltiplicherebbero portando la tappa ben oltre i 100. Concordiamo che ci scuseremo in ginocchio con il primo tutore dell’ordine, ignoriamo il divieto con aplomb italiano e ci immergiamo nel paradiso ombroso della piccola strada di accesso al parco, ora di nuovo asfaltata.
Ci incantano le mille sfumature di blu e di verde, dell’acqua e degli alberi, ci rapisce la spuma bianca delle cascate, e l’asfalto grigio scorre senza fatica sotto le ruote. Ma ben presto ci sorprende anche il nero, l’umore del ranger del parco, che ci insegue in motocicletta per appiopparci una multa di 700 kune in contanti. La richiesta di poterla pagare in euro, o con la Mastercard in biglietteria urta il suo orgoglio di neocittadino comunitario. Si lancia in un’invettiva in un inglese esitante, contro “voi europei che venite a fare i padroni” e “non sapete quanto costa mantenere tutto questo”. Troviamo una tregua, e festeggiamo la quasi fine della tappa con due radler e mezz’oretta di polleggio, su un prato gremito di famiglie di mezza Europa.
Se la Coca-cola rappresenta il perfetto drink di metà tappa, per il ciclista temporaneamente disposto a violare le regole del consumo responsabile, la radler, miscela poco alcolica di birra e limonata o altre bevande gassose a scelta, è la ciliegina tardo pomeridiana ideale per il quasi arrivo. La leggera euforia dell’alcol, senza tagliarsi le gambe per gli ultimi chilometri.
La bevanda marrone di Atlanta Melissa me la raccomandava da anni, inascoltata, mentre mi ostinavo a ordinare succhi di frutta, locali o multinazionali, con la metà delle calorie. La birra più aranciata l’avevo scoperta a inizio millennio a Barcellona, gustata tra le morbide curve e la vista portentosa dei tetti della Pedrera.
Era diventata la bevanda della ciclista già dai primi chilometri del cammino di Santiago. In Spagna la chiamano clara, nel Nord Italia bicicletta, e dove non capivano cosa cercavamo ce la preparavamo da sole all’istante, con due lattine e due bicchieri, un cocktail improvvisato da gustare sedute accanto alle bici. Da un po’ sembra se ne siano accorte anche le multinazionali, che la producono già miscelata, e hanno sposato il nome austriaco di radler, ciclista.
Lasciamo il parco nazionale per dormire nell’ordinata quiete del paesino di Rastovaca, dove le famiglie hanno fatto cartello e pernottare costa sempre 25 euro, con lenzuola immacolate e una deliziosa colazione inclusa, marmellate confezionate e palacinke fatte in casa. L’ultima famiglia del villaggio fa anche servizio ristorante, con l’immancabile grigliata di carne e patatine fritte. Dalla finestra della cameretta mansardata spunta un arcobaleno tra le nuvole scure.
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