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Pedalando verso Sarajevo: ciclisti, mutande e hot pants

Un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, guardando al Centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale. La terza tappa

29/04/2014, Giulia Bondi -

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Trieste, quartiere San Giacomo, martedì mattina. La sagoma stilizzata di una pietra preziosa annuncia il “Compro oro” di largo Pestalozzi. La bici color argento aspetta davanti alla vetrina l’arrivo della sua gemella e compagna di viaggio. Destinazione: Sarajevo. Con le borse nere sul portapacchi, il materassino da campeggio di traverso, la videocamera agganciata al manubrio, il carico al minimo ma comunque pesante, gli sparuti passanti la guardano con un misto di tenerezza e solidarietà.

La prima pedalata è poco dopo le 8. Resta alle spalle il candore austriaco di piazza Unità. Gli aperitivi in pineta alla Barcola, le statue di Svevo e Saba, gli spritz bianchi con l’acqua minerale, gli “ovi sodi” mangiati all’usmizza accompagnati da vino terrano.

La prima e unica ciclabile del viaggio sale da Trieste per la val Rosandra, tra piccole gallerie, vista sui cantieri e poi su Muggia. Fino al 1959 ci passava un trenino, da Trieste a Erpelle, Hrpelje in sloveno. In 72 anni di storia è stato prima austroungarico, per un po’ tutto italiano tra le due guerre, poi frontaliero. Era già in pensione quando dalla Jugoslavia si è staccata la Slovenia.

La più europea delle ex repubbliche jugoslave accoglie le bici con un’ordinata alternanza di verde e giallo, boschi e campi trebbiati e rotoballe dorate, alcune ricoperte di eleganti vestitini in plastica verdastra.

Nel minuscolo villaggio di Klanec, un uomo aggiusta la cancellata della sua casa in pietra. L’ombra di un enorme platano lo ripara dal sole già caldo del mattino. Noi ci aggiriamo nei nostri pantaloncini aderenti, cercando segnali e punti di riferimento. Lui sta in piedi al bordo della strada, in ciabatte e coperto solo da un paio di mutande in cotone grigio perla. Corregge ì il primo degli errori del viaggio indicando la strada giusta, una svolta a sinistra un centinaio di metri prima, accanto al bar dalle cui finestre pendono i gerani rossi e rosa, nei portavasi di legno. Sotto il viadotto dell’autostrada, un capriolo attraversa a pochi metri dalle biciclette.

Alla chiesa tutta in pietra di Presnica, una salita che si inerpica a destra, proprio accanto al monumento ai caduti, costringe a scendere dalle biciclette. Poi di nuovo campi e rotoballe, le ultime, perché nelle campagne della Bosnia ci saranno solo alti covoni a forma di pandoro, eretti ammassando la paglia su strutture piramidali di rami.

Dal bordo del sentiero si affacciano i cardi, che invece accompagneranno tutto il viaggio, con le spine disposte a forma di stella e il colore che sfuma dall’ametista al blu petrolio. E poi gli ombrelli dell’achillea, bianchi o sporcati dalla polvere, e il fucsia sfacciato delle centauree e dei cardi mariani, anche loro una costante, dai boschi della Croazia alle montagne sopra Kalinovik, quando il pensiero già avvista la čaršija di Sarajevo.

Le bici arrancano in salita fino al confine vero, dopo che i tanti cartelli “granica” del tratto italo-sloveno li ha sorpassati l’integrazione europea. La Croazia è nella Ue da circa un mese, mancano ancora un paio d’anni perché anche a Podgorje arrivi Schengen, il trattato, a spazzare via il container in metallo, le due sbarre rigate che si alzano e si abbassano e la noia della guardia, che dopo uno sguardo distratto alle carte d’identità non vede l’ora di tornare al cruciverba rimasto aperto sul tavolino di formica.

A Jelovice pausa alla fontana del cimitero, l’acqua ghiacciata zampilla sotto al teschio con le tibie incrociate che sormonta il cancello in ferro battuto. Le borgate di Male e Velike Mune restano a sinistra della strada. Pochi metri dopo il cartello con i nomi dei villaggi, una piramide in pietra grigia ne ricorda la distruzione, il 5 maggio 1944, da parte degli occupanti italiani e tedeschi.

La strada ha quasi spianato e poco più avanti, sulla sinistra, arriva il cartello per Zejane, accompagnato dal rassicurante simbolo di coltello e forchetta. Il ristorante, però, ha chiuso da almeno un anno, confermano due operai impegnati a riparare tetto di una casa.

È rimasta la trgovina, il negozietto, ma fa siesta pomeridiana dalle 12.30 alle 18 e ha appena abbassato la saracinesca, spiega Emil, gote rosse e Lasko pivo tiepida stretta tra le mani. “Potete chiamare la padrona, vi do il numero”, insiste: “Casa sua è talmente vicina che non serve neanche il prefisso”.

Il pranzetto sognato si trasforma in una merenda di frutta fresca e secca all’ombra di un ippocastano, per rifornirsi d’acqua basta dare una voce alla coppia di mezza età che vive poco distante. Si informano sul viaggio, tra ammirazione e preoccupazione, mentre lei apre i rubinetti del bagno a piano terra, piastrelle decorate fine anni Settanta e sanitari di ceramica rosa antico.

Il resto della giornata è strada statale, bar di camionisti, polvere di lavori in corso, viali alberati con vista mare a destra, stabilimenti e acquapark che pompano musica pop. Nel centro di Rijeka, il ponticello con le ringhiere in vetro che attraversa il porticciolo turistico è dedicato ai caduti della guerra anni Novanta, termina ai piedi di un’enorme croce bianca, con i ceri funebri sempre accesi e le bandiere a scacchiera bianche rosse e blu. I bagnanti si affollano su moli in cemento, le ragazzine si scambiano gli smalti colorati e gli adolescenti fanno a gara di tuffi accanto ai cantieri, all’ombra della carena verde di un enorme cargo.

La sera, sotto gli ombrelloni dei bar nei viali lastricati, due cubiste in hot pants neri promuovono cocktail, arrampicate su tacchi altissimi. Hanno un momento di esitazione, poi basta uno sguardo alle biciclette per convincerle a concentrarsi su clienti più convenzionali.

(continua)

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