Pazi snajper, attenzione cecchino
La figura del cecchino, quel "mostro" che dai palazzi o dalle montagne intorno a Sarajevo uccideva civili inermi, è al centro di un lavoro teatrale. In occasione della prima triestina del 13 ottobre di "Pazi Snajper – Attenzione cecchino", abbiamo intervistato l’autrice e attrice Roberta Biagiarelli
Roberta Biagiarelli, attrice, autrice, documentarista, progettista teatrale, ha fondato nel 2002 l’associazione culturale Babelia & C.- progetti culturali per dedicarsi alla produzione, ricerca ed interpretazione di temi sociali, storici e politici. È autrice ed interprete di diversi monologhi, tra i quali “A come Srebrenica” che è stato rappresentato in centinaia di repliche. Nel 2016 ha pubblicato il volume “Dal libro dell’esodo” (Piemme edizioni) di cui è co-autrice con il fotoreporter Luigi Ottani, esperienza fatta sulla rotta balcanica dei migranti nell’agosto 2015 sul confine greco-macedone.
Nell’ambito del progetto “Shooting in Sarajevo”, avviato con Ottani nel 2015, è nato lo spettacolo “Pazi Snajper – Attenzione cecchino” co-produzione Babelia & C. – progetti culturali, Associazione Il Contato del Canavese e Bonawentura/Teatro Miela, di Roberta Biagiarelli, con Roberta Biagiarelli e Sandro Fabiani e la regia di Luca Bollero. L’abbiamo intervista a Trieste in attesa della prima al Teatro Miela di giovedì 13 ottobre nell’ambito della rassegna "S/paesati" .
Quando hai pensato, per la prima volta, di fare uno spettacolo su questo tema?
Non c’è un momento preciso, sono stati i racconti dei miei amici e delle mie amiche sarajevesi accumulati nel corso degli anni. A un certo punto ho pensato che si poteva fare uno spettacolo sui cecchini di cui tutti parlavano… era il 2015, anno in cui ho incontrato Luigi Ottani e con cui ho lavorato lungo la rotta balcanica per realizzare “Dal libro dell’Esodo”. Quando gliene ho parlato ha immediatamente raccolto l’idea, e proposto di andare a Sarajevo a fotografare i luoghi da cui i cecchini assediavano la città e i suoi abitanti.
Ho capito che potevano incrociarsi le due strade per lavorare sulla figura del cecchino o della cecchina: per me una ricerca di tipo drammaturgico, su testi che poi hanno portato alla scrittura del testo teatrale di “Pazi snajper”, e allo stesso tempo le immagini di Luigi che, potentemente, a un certo punto abbiamo inserito anche nel finale dello spettacolo.
Lo spettacolo infatti rientra nel progetto “Shooting in Sarajevo”, composto da un trittico. Cioè un libro di testi e foto pubblicato dalla casa editrice Bottega Errante , poi una mostra fotografica, che è ora allestita al Miela di Trieste ma che è stata già presentata in differenti versioni in altre città d’Italia, e questo spettacolo. Un progetto che abbiamo realizzato con tanti viaggi insieme, a Sarajevo.
Quale materiale hai usato nella tua ricerca drammaturgica?
Innanzitutto vorrei sottolineare che questo trittico non si sarebbe realizzato se in tempi remoti non avessi incontrato lo scrittore e giornalista Paolo Rumiz, che per me è stato un apripista di quei luoghi con il suo libro “Maschere per un massacro”, e Luca Rastello, scrittore giornalista prematuramente scomparso e autore di un libro fondamentale come “La guerra in casa”, che mi hanno portato per la prima volta in quel luogo recondito che è Srebrenica.
Poi, sono stati fondamentali quelli che chiamo “gli attraversamenti” delle testimonianze delle persone che hanno subìto l’assedio. È stato un distillato di tanti anni di racconti orali che ho ascoltato. Infine, sono andata a cercarmi della letteratura legata ai cecchini e, intessendo questo “tappeto” testuale, è venuto fuori in sintesi, in distillato, lo spettacolo che rappresento in quattro quadri di vita quotidiana.
Vita quotidiana di chi?
L’azione si svolge in due situazioni parallele: la postazione di un cecchino, inondata dai suoi pensieri e dal suo flusso di coscienza interiore, e l’appartamento di un uomo e di una donna che resistono in un condominio abbandonato nella Sarajevo assediata. Una coppia di cui emergono anche le stupidità quotidiane, che usano per tenere fuori dalla loro stanza ciò che sta accadendo in maniera tragica e ineluttabile fuori da quelle mura. “Non possiamo fare niente per evitare tutto questo”, è infatti una battuta dello spettacolo.
Allo stesso tempo, i flussi di coscienza del cecchino: sono sempre quattro, che incrociano lui e lei, su cui abbiamo dovuto lavorare con una scrittura drammatica in modo esponenziale, in un crescendo. Se all’inizio c’è un cecchino che osserva in modo distaccato, poi appare un cecchino che entra sempre più dentro al ruolo. Assieme a una sua psichedelia, causata dall’uso di droghe e alcol ma anche dall’indottrinamento patriottico a cui erano sottoposti per stare lì, e aspettare nella loro tana il passaggio del civile da uccidere.
Ci racconti una testimonianza che ha inciso in particolar modo su questo lavoro?
Uno di questi, ad esempio, è avvenuto durante un viaggio fatto più di dieci anni fa con la scrittrice americana Susan Sontag, in macchina da Milano a Ravenna. Ero a Milano a rappresentare “A come Srebrenica” mentre lei era invitata a Ravenna, e un amico comune mi aveva chiesto di darle un passaggio.
Durante il viaggio le ho fatto tante domande sullo spettacolo “Aspettando Godot” di Samuel Beckett che lei aveva messo in scena durante l’assedio di Sarajevo dall’agosto del 1993, dopo due mesi di preparazione con prove continuamente sospese per i bombardamenti. E che poi è andato in scena diverse volte su richiesta del pubblico sarajevese, nonostante le bombe e i cecchini.
Mentre lei, durante il viaggio, mi ha chiesto di raccontarle di Srebrenica, dove ho anche vissuto un certo periodo, oltre ad esserci tornata spesso e averci costruito un monologo. Un viaggio di racconti e resistenze che mi è rimasto talmente impresso da decidere, all’inizio e alla fine di “Pazi snajper”, di inserire delle battute di “Aspettando Godot”. Un po’ traslate e mutuate… “Cosa si fa? Aspettiamo”, che è esattamente ciò che fa chi sta dentro un assedio: si attende che quella situazione finisca.
A proposito della figura del cecchino, emerge che si tratta di una persona normale, non un "mostro"?
È una domanda che ci siamo fatti per tutto il tempo della scrittura. Tra l’altro, una scrittura che risale al 2019 quando prevedevamo di andare in scena da lì a poco. Il debutto doveva avvenire ad aprile del 2020, ma poi è stato cancellato e posticipato a causa della pandemia. Abbiamo dovuto attendere il 2022 per metterlo in scena, a Genova a giugno e a Firenze a settembre. Il testo che presentiamo nello spettacolo, letto oggi sembra un po’ tirato sulla guerra di queste ore in corso in Ucraina, ma invece è quello originale scritto quattro anni fa.
E poi, sì, emerge decisamente che i cecchini sono persone normali, dalla letteratura e dalle narrazioni rese pubbliche dal dopoguerra ad oggi. Su questo punto ci tengo a citare Mario Boccia, fotogiornalista che ha seguito e testimoniato tutti i conflitti di dissoluzione della Jugoslavia e che ha partecipato anche a questo progetto: “I cecchini non hanno le orecchie a punta”.
Ed è quello che viene fuori dalla mia ricerca. Il limes è proprio che tutti noi, un giorno, potenzialmente, potremmo diventare dei cecchini. Lo spettacolo vuol far ragionare su questo: ciò che vedi in scena, magari un domani e per una qualsiasi causa, ci potresti finire dentro tu. Il rischio a cui tutti noi andiamo incontro è di ritrovarci da una parte e dall’altra, cioè dell’aggressore e dell’aggredito. Una questione che in “Pazi snajper” tengo aperta.
Quindi uno spettacolo che lascia aperte delle domande?
Molte, e instilla del dubbio. Ad esempio, senza rivelare troppo a chi ancora deve vederlo, solleva un dubbio su lui e lei: “Ma questi due, fanno i cecchini?”. Al pubblico, alla fine, rimane aperta proprio questa domanda. Abbiamo seguito un uomo e una donna indifesi, nella loro quotidianità, ma allo stesso tempo ci è nato il dubbio che per difendersi si siano armati.
Questo è forse anche il dubbio dei nostri giorni, il tempo di un altro conflitto nel cuore d’Europa.
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