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Paura di Grozny

Il diario della nostra corrispondente da Tbilisi. 12 agosto, la situazione in città tra voci di una prossima invasione, code per i rifornimenti e paura del disastro. Il sollievo per la fine delle ostilità

13/08/2008, Maura Morandi - Tbilisi

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Medvedev ha appena dichiarato che la Russia depone le armi. Tbilisi tira un sospiro di sollievo. Questa mattina qui in città l’atmosfera era tesissima. Il rincorrersi delle informazioni contrastanti che da ieri ci arrivavano dai media georgiani, russi e internazionali hanno creato un clima di tensione – talvolta di panico – nella popolazione.

"L’esercito russo ha occupato Gori", dice la radio georgiana, "i russi sono entrati a Zugdidi", dice la televisione, "Poti e’ invasa dai soldati russi", riporta un sito internet.

Le notizie che arrivavano a Tbilisi facevano temere che l’esercito russo fosse intenzionato a penetrare nel territorio georgiano ben al di fuori delle zone di conflitto. Sembrava una vera e propria invasione. Addirittura in tarda serata è circolata la notizia che l’esercito russo stava marciando su Tbilisi e che era gia’ arrivato a Mtskheta, antica capitale della Georgia a circa 15 km da Tbilisi.

I duemila soldati che il presidente Mikhail Saakashvili aveva richiamato dall’Iraq nei giorni scorsi sono stati dislocati nella mattinata di ieri a Tkviavi, un villaggio al confine con la regione secessionista dell’Ossezia del Sud e principale zona di confronto a fuoco tra le truppe russe e georgiane. Nel pomeriggio l’aviazione russa ha bombardato l’area per colpire i militari appena arrivati.

E’ iniziata poi la ritirata da Gori dell’esercito georgiano. Secondo quanto mi hanno riferito testimoni che si trovavano a Gori, i soldati erano letteralmente in fuga, mentre i russi stavano avanzando. Non si sapeva fin dove intendessero spingersi.

Allo stesso tempo, nella Georgia occidentale, truppe di forze di peacekeeping e unità regolari dell’esercito russo sono entrate a Zugdidi e poi si sono spinte fino a Senaki, sul limite della zona del conflitto abkhazo-georgiano. A Senaki, sull’estremo limite dell’area che le forze di peace-keeping hanno il mandato di monitorare, c’è un’importante base militare georgiana.

La gente a Tbilisi ascolta attonita le notizie che vengono riportate, ma che nella maggior parte dei casi non possono essere verificate. Non c’è una voce indipendente, né tanto meno una fonte di informazione certa. I georgiani rimangono increduli di fronte alla presunta avanzata russa e si chiedono che cosa vogliano ancora i russi, dopo che la Georgia ha rinnovato e discusso il cessate il fuoco con i diplomatici europei.

Uscita in tarda serata dall’ufficio, dopo aver rassicurato in qualche modo chi mi chiama dall’Italia che a Tbilisi non sono in corso bombardamenti, che la città non e’ mai stata bersaglio degli aerei russi e che l’esercito russo non e’ alle porte di Tbilisi, ho fatto una passeggiata nei dintorni di casa. I ristoranti e i bar che frequento normalmente, e che di solito chiudono abbondantemente dopo la mezzanotte, sono gia’ tutti chiusi alle nove di sera. Continuo a camminare nelle strade semideserte e, passando davanti ai distributori di benzina, noto lunghe code di auto. Sembra che la gente si prepari alla fuga.

Questa scena mi ha fatto ricordare quando nel gennaio del 2006 Tbilisi rimase per due settimane senza gas perché le pipelines provenienti dalla Russia si erano – erano state? – danneggiate. Mi é venuto in mente lo scorso novembre, quando la protesta dell’opposizione contro il presidente Mikhail Saakashvili e il suo operato era stata repressa duramente dalle autorità governative. In pieno stato di emergenza ci si preparava a partire, nel caso la situazione fosse degenerata.

Faccio il conto, sono tre le situazioni in cui ho visto file di macchine in attesa davanti alle pompe di benzina. E tutte e tre le volte per motivi diversi, sebbene sempre nello stesso Paese. A causa di problemi energetici. A causa di gravi disordini interni. A causa di un conflitto scoppiato tra la Georgia e una delle sue repubbliche secessioniste, che si è esteso fino a diventare uno scontro armato con la Russia.

Nelle strade di Tbilisi stamattina le auto erano sporadiche, nessuno passeggiava a piedi. Strano, la via sulla quale si affaccia l’ufficio dove lavoro e’ sempre trafficatissima, tanto che dobbiamo tenere le finestre chiuse perché, pur essendo al terzo piano, nelle ore di punta non riusciamo a capirci bene con la collega che sta due metri di fronte a me.

I volti dei miei colleghi georgiani sono segnati dalla stanchezza per la notte insonne, e dalla preoccupazione per i figli e per il futuro del proprio Paese. Una collega mi dice in lacrime "Abbiamo paura di un’altra Grozny".

Poi l’annuncio ufficiale da parte russa della fine dei combattimenti. Gli amici e colleghi georgiani attorno a me ritrovano il sorriso, qualcuno anche con qualche lacrima di commozione. E si stringono – mi stringono – in un abbraccio fraterno e di liberazione dalla paura che stava crescendo giorno dopo giorno.

*Programme Officer, UNHCR Georgia. Le opinioni espresse nell’articolo sono da attribuirsi unicamente all’autrice e non riflettono necessariamente la posizione dell’UNHCR

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