Parola di Holbrooke
Richard Holbrooke, "architetto" degli accordi di Dayton ed inviato speciale di Clinton durante la crisi del Kosovo, la settimana scorsa ha visitato per la prima volta il paese dopo la dichiarazione di indipendenza dello scorso febbraio. Un’intervista della nostra corrispondente
Come le è apparso il Kosovo durante la sua visita? E’ questo quello che si aspettava la comunità internazionale dopo la dichiarazione di indipendenza?
Credo che la situazione politica negli ultimi nove mesi sia stata molto difficile. La gente del Kosovo merita credito per la strada pacifica scelta per dichiarare l’indipendenza, e per l’assenza di atti di violenza nei confronti delle minoranze etniche, in particolare di quella serba, e dei loro monumenti religiosi. D’altra parte la situazione economica del paese è difficile, e questo rappresenta di certo un grande problema.
Durante la sua visita ha citato spesso il conflitto in Georgia, ed i tentativi di paragonare la situazione in Caucaso con quella in Kosovo. Crede che stiamo assistendo ad un ritorno della potenza russa e all’atmosfera della guerra fredda?
Non stiamo tornando alla guerra fredda, che rappresentava un conflitto tra due ideologie e due blocchi pesantemente armati, impegnati in una sfida a livello globale. Oggi assistiamo alla "rioccupazione" da parte della Russia di parte del suo vicinato geopolitico. Questo può provocare momenti di crisi anche profonda, ma non significa un ritorno alla guerra fredda.
Ma nessuno nell’amministrazione Bush è stato in grado di prevedere le reazioni di Mosca alla dichiarazione di indipendenza kosovara?
Proprio così. L’amministrazione Bush non è riuscita a leggere le mosse della Russia, nonostante da Mosca arrivassero da mesi chiari segnali. Mi preme sottolineare come le affermazioni russe sul fatto che la loro azione in Ossezia del Sud sia comparabile a quanto fatto dall’Occidente in Kosovo, sia priva di fondamento. I due scenari sono del tutto diversi, e la Russia avrebbe comunque agito come ha fatto, con o senza il precedente del Kosovo.
Come vede la prospettiva dell’ingresso del Kosovo all’interno delle principali organizzazioni internazionali, come l’Onu, la Banca Mondiale ecc.?
Il Kosovo è già stato riconosciuto da 46 paesi, che corrispondono ad un quarto dei membri dell’Onu, ma in termini di ricchezza rappresentano più di metà del PIL mondiale. E’ un buon risultato, se si considera che la Russia sta portando avanti una campagna globale contro il riconoscimento. Sono sicuro che il numero dei riconoscimenti salirà gradualmente. Riguardo all’ammissione nell’Onu, purtroppo questa sarà sottoposta al potere di veto di alcuni membri, e potrebbe richiedere tempi più lunghi. Ma questo è un problema secondario: altri paesi hanno avuto successo anche senza essere membri delle Nazioni Unite.
Qual è la posizione della Cina all’interno di questo processo?
Credo che Pechino non voglia essere coinvolta nella questione. La Cina rifiuta di riconoscere il Kosovo per paura che questo possa rappresentare un precedente per gruppi separatisti in Tibet o nei territori centroasiatici. D’altra parte, non viene visto con favore nemmeno l’uso della forza nella risoluzione di conflitti tra stati, quindi, in qualche modo, la Cina ha assunto una posizione intermedia. In ogni caso, riguardo al Kosovo non credo che Pechino giochi un ruolo di primaria importanza.
Nel grande dibattito seguito all’indipendenza del Kosovo, l’Occidente ha sostenuto fin dall’inizio che questo non rappresenta un precedente. Con quali argomenti sostiene questa tesi?
Il Kosovo non è un precedente, perché il suo status finale di nazione indipendente è conseguenza logica della risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, approvata nel 1999 anche con il consenso della Russia. Da una parte non si poteva lasciare il Kosovo sotto perenne amministrazione dell’Onu, una scelta troppo costosa e temporanea, e sicuramente negativa per la popolazione. Dall’altra non si poteva pensare ad un ritorno della regione sotto la sovranità serba, perché questo avrebbe sicuramente riaperto il conflitto. L’unica strada aperta rimaneva quella dell’indipendenza.
Nel parlamento di Pristina lei ha dichiarato che l’indipendenza sarebbe dovuta arrivare almeno quattro anni prima di quanto poi avvenuto. Perché?
E’ semplice. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea avrebbero dovuto dare il via a questo processo immediatamente dopo la fine del conflitto. Non si sarebbe dovuto aspettare tanto, ma cogliere il momento già nel 2001. All’epoca Milošević era caduto, e Ðinđić era al potere.
E secondo lei perché il processo è stato rallentato?
Perché l’amministrazione Bush non aveva interesse ad impegnarsi su questo tema. Ci si è disinteressati dei Balcani, e questo è stato un grande errore.
Come spiega l’esitazione dei paesi arabi a riconoscere l’indipendenza kosovara, se si tiene in mente che il 90% della sua popolazione è di religione islamica?
Non so perché i paesi arabi stiano reagendo con tanta lentezza. Spero che inizieranno a muoversi presto, e credo che se il Kosovo saprà comunicare con loro in modo ragionevole e paziente, si arriverà ad una conclusione positiva. In ogni caso è già arrivato il riconoscimento della Turchia, che è sicuramente molto importante, e spero che arriveranno presto quelli di Macedonia, Montenegro e Portogallo. Per il Kosovo, in ogni caso, il riconoscimento più importante è quello dell’Unione Europea.
Crede che nell’esitazione dei paesi arabi siano presenti anche elementi di anti-americanismo dovuti ai conflitti degli ultimi anni in Medio Oriente?
Ho sentito più volte questo tipo di spiegazione, e credo sia possibile. Ma non ho mai avuto colloqui diretti con rappresentanti del mondo arabo su questo tema, e quindi non so davvero spiegare la ragione della loro esitazione.
Al momento la situazione in Kosovo è molto confusa. L’Unmik è ancora sul terreno, e non andrà via del tutto, mentre Eulex sta ancora aspettando luce verde per cominciare ad agire pienamente. Come potrà svilupparsi questo scenario?
L’Umnik verrà ridotta sostanzialmente, ma non scomparirà a causa delle insistenze russe. Il Consiglio di Sicurezza funziona secondo queste regole, ma alla fine la missione Onu rimarrà sul terreno a ranghi ridotti. D’altra parte le due missioni che si stanno dispiegando, l’ICO e l’Eulex, sono particolarmente importanti per il Kosovo, per fornire l’assistenza di cui ha bisogno a causa del suo status internazionale particolare. Può non piacere tutto quello che fanno, ma sicuramente sono qui per dare una mano al paese.
Lei ha dichiarato che l’Ue non dovrebbe accettare l’ingresso della Serbia finché questa non sarà pronta ad accettare e riconoscere l’indipendenza del Kosovo, cosa che rappresenterebbe una mossa pericolosa. Perché?
Credo che il rischio di accogliere nell’Unione Europea un membro che ha dispute territoriali con un suo vicino sia molto alto. Potrebbe portare a conflitti e darebbe la possibilità alla Serbia di utilizzare la propria membership per intralciare il cammino del Kosovo. Credo che la soluzione migliore sarebbe fare entrare Serbia e Kosovo insieme, parallelamente alla Bosnia Erzegovina.
Vede segnali di una volontà europea di accogliere la Serbia così com’è oggi?
L’Unione Europea ha lasciato intendere che se il generale Mladić verrà consegnato all’Aja il processo di allargaento alla Serbia verrà iniziato. Spero che quando questo accadrà verrà messo in chiaro con Belgrado che la Serbia non verrà ammessa finché il Kosovo non verrà riconosciuto come stato libero ed indipendente all’interno dei suoi confini.
E la Bosnia? Lei è l’architetto degli accordi di Dayton. E’ soddisfatto di quanto succede oggi nel paese?
Credo che la situazione in Bosnia sia diventata particolarmente difficile negli ultimi tempi, a causa del conflitto tra Haris Silajdžić e Milorad Dodik, che stanno contribuendo entrambi a polarizzare il paese, una prospettiva davvero infelice.
Crede che si potrebbe arrivare un giorno alla divisione del paese?
No, perché questo non è previsto negli accordi di Dayton. Non credo che si arriverà alla divisione, ma il problema è che Dodik sta tentando di indebolire le istituzioni centrali di Sarajevo, e Silajdžić di fatto lo sta aiutando con le sue posizioni estreme sul tema del bilanciamento di potere tra le due entità. Uno stato unitario non può funzionare in un paese come la Bosnia. C’è bisogno di un sistema federale che è quanto emerso da Dayton, un paese e due entità. In Kosovo, la situazione è totalmente diversa. In Kosovo un gruppo etnico rappresenta il 90% della popolazione, mentre in Bosnia ci sono tre gruppi, ognuno dei quali rappresenta una parte importante del paese.
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