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Papa in Albania: una terra divenuta simbolo

Per il suo primo viaggio europeo, Papa Francesco ha scelto l’Albania, terra assurta a simbolo del dialogo interreligioso. Una visita vissuta con grandissima attesa dalla maggioranza degli albanesi, ma durante la quale la simbologia della pace ha finito col prevalere sulla complessità (e le difficoltà) della realtà albanese

22/09/2014, Nicola Pedrazzi -

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Come buona parte dei cittadini tiranesi, avevo già deciso di partecipare a questo evento storico: anche solo per gli imponenti preparativi cui si era assistito nei giorni precedenti e la surreale atmosfera d’attesa in cui, la sera prima, la capitale si era addormentata, quasi controvoglia. Tempo di chiudere gli occhi, e l’alba tanto attesa bussa alle finestre di fedeli e curiosi: è domenica ma le sveglie suonano, lentamente ci si alza, velocemente si esce di casa.

Forti temporali si sono susseguiti per tutta la notte: il mattino è grigio e il cielo è coperto; ma l’aria è fresca e il caffè più buono. Forse perché non ci sono macchine: per un giorno intero, spettacolo irripetibile, il centro di Tirana sarà una gigante isola pedonale. Ragazzi da soli, famiglie a drappelli, tutte le persone che sono in strada si dirigono a piedi verso il centro, come particelle unite dalla stessa forza di gravità. Superata una rapida perquisizione necessaria a penetrare nella "zona rossa", alle otto e mezza anch’io, Mira e Sokol arriviamo sul boulevard che conduce a Piazza Nënë Teresa, dove per le undici in punto è attesa la grande messa.

Ci sistemiamo silenziosamente lungo le transenne, ma per trovare posto in "prima fila" dobbiamo arretrare di centinaia di metri, fin quasi a Piazza Skanderbeg. Da lì il colpo d’occhio verso sud è imponente: i due cordoni di folla sono già praticamente formati. Mira mi indica i cecchini della sicurezza appostati sui tetti dei ministeri del periodo fascista, vorrei spaventarmi ma non ho tempo, perché le trasmittenti dei poliziotti di fronte a noi diffondono la notizia che tutti attendevano: l’aereo del Papa è sulla pista del "Madre Teresa" – generalmente noto come "aeroporto di Rinas", ma non in simili occasioni. Tutt’intorno la folla è silenziosa, ma una strana inquietudine rende l’aria elettrica: non c’è nulla di più contagioso dell’emozione dell’attesa.

Il Papa in Albania - foto di Nicola Pedrazzi

Il Papa in Albania – foto di Nicola Pedrazzi

Per distrarmi, o forse per atteggiarmi da distratto, estraggo il telefono e faccio una breve rassegna stampa dei siti in italiano. A quanto pare la giornata albanese del Papa sarà più lunga di quella dei fedeli accorsi da tutta l’Albania e dai paesi limitrofi: dopo la cerimonia di benvenuto e la messa, incontrerà i rappresentanti delle altre religioni presso l’Università cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio, celebrerà i Vespri nella cattedrale di Tirana e, prima del congedo in aeroporto, saluterà i bambini del Centro Betania e di altri centri caritativi.

Il programma di viaggio – il primo in Europa di Papa Francesco – era noto dal 31 luglio scorso. Normalmente le visite del Pontefice sono annunciate con un anno di anticipo, ma nel caso dell’Albania Francesco ha deciso pochi mesi prima – lo stesso monsignor Vasil, Segretario della Congregazione per le Chiese Orientali, non aveva nascosto la propria sorpresa, cercando di interpretare la repentinità di questa scelta: "Questo annuncio del viaggio a Tirana anche per me è stato una novità, ma si colloca proprio in una scia di segni di Papa Francesco… La Chiesa in Albania, come la stessa comunità albanese si trova infatti all’incrocio di diverse culture, strade e mondi religiosi, e sappiamo che per decenni la popolazione albanese ha sofferto sotto un regime che si dichiarava formalmente ateo… Quindi la visita del Santo Padre in questo contesto ricopre un ruolo e un significato determinante…".

Il rombo dell’elicottero e il boato della folla mi distolgono dalla lettura: la delegazione vaticana è in arrivo. Mentre infilo il telefono in tasca, penso che per capire davvero perché il Papa sia atterrato in Albania il presente non basti, ma sia necessario conoscere la storia della sua gente.

Due teste, tre religioni

La complessità della realtà religiosa albanese è ben sintetizzata dalla bandiera per cui battono i cuori di tutti gli albanesi del mondo, indipendentemente da qualsiasi fede. Ancor prima di essere il sigillo della famiglia Skanderbeg, l’aquila bicipite era un simbolo araldico molto diffuso in tutta l’area dell’Impero Bizantino: ironia della sorte, la bandiera che oggi unisce un paese a maggioranza musulmana riproduce una simbologia ortodossa che durante le gesta di Skanderbeg fu addirittura vessillo della Chiesa Romana – a seguito delle sue imprese contro gli "infedeli", Papa Callisto III attribuì infatti all’eroe nazionale albanese gli appellativi di "Atleta di Cristo" e di "Difensore della Fede".

Il Papa in Albania - foto di Nicola Pedrazzi

Il Papa in Albania – foto di Nicola Pedrazzi

All’indomani della seconda guerra mondiale il regime comunista di Hoxha non si limitò ad aggiungere una stelletta gialla sulle teste di quest’aquila dai mille significati, ma nel 1967 bandì ogni religione dal paese. Prima dell’ateismo di stato, l’Albania era composta per il 70% da musulmani, per il 20% da cristiani ortodossi, per il 10% da cattolici. Oggi, secondo il contestatissimo censimento del 2011, il 57% dei cittadini albanesi si dichiara musulmano, il 2% bektashi, il 10% cattolico, il 7% ortodosso e lo 0,1% cristiano evangelico, mentre solo il 2,5% si definisce ateo. Nonostante questo scenario frammentato, nell’Albania di oggi non esistono conflitti evidenti tra gli appartenenti alle varie fedi religiose; ciò non toglie che, così come avviene in altre zone dell’intricato puzzle balcanico, anche in Albania – e soprattutto per gli albanesi etnici che vivono al di fuori dei confini dello stato albanese – l’appartenenza religiosa sia legata a doppio filo alla questione identitaria e abbia, di conseguenza, anche una dimensione politica.

Nazione e religione in Albania

Così come spiegato da Morozzo della Rocca in Nazione e Religione in Albania, in contesti politicamente fluidi le religioni possono contribuire sia ad insidiare che a preservare un’identità nazionale: ad esempio, se è vero che l’ortodossia dell’Albania meridionale è sempre stata utilizzata dai greci per giustificare le rivendicazioni sull’"Epiro del nord", è altrettanto innegabile che la religione islamica ha invece consentito agli albanesi di preservare la propria identità nazionale, "allorché – dice Morozzo – al di fuori della religione pochi altri elementi avrebbero consentito loro di differenziarsi dai serbi o dai bulgari in modo tale da evitarne l’assimilazione".

Questo complesso meccanismo identitario per antitesi religiosa risulta ancor più lampante nelle vicende novecentesche del Kosovo, dove i vessilli dell’Islam hanno sempre sventolato in chiave antiserba e in difesa dell’identità nazionale albanese, anche negli anni in cui la "madrepatria" si presentava come prima "ateocrazia" del mondo. Una dinamica assai simile coinvolge oggi le minoranze albanesi della Macedonia, tanto più musulmane quanto minacciate.

Come autorevoli storici hanno evidenziato, è il rapporto con i turchi (e dunque con l’Islam) a costituire uno dei punti più controversi dell’interpretazione della storia albanese. Il comunismo nazionalista di Hoxha elaborò attraverso la figura mitica di Skanderbeg l’immagine di una nazione mai doma, capace di contrastare per cinque secoli la potenza ottomana; dall’altra parte i serbi, nemici storici della nazione albanese, descrissero come "tradimento" la conversione all’Islam degli albanesi: un popolo arreso e in armi al fianco dei turchi, ad esclusivo danno degli slavi cristiani dei Balcani. Entrambe queste letture sono ovviamente ideologiche, e fanno risultare ben più assennata e adesa alla realtà storica la posizione della Turchia moderna, la quale mira a valorizzare i lunghi secoli di cooperazione e di interscambio anche a partire dal dato religioso. Coloro che non fossero persuasi della qualità degli istituti e delle scuole turche aperte in Albania, possono sempre accendere la TV albanese e toccare con mano come il neo-ottomanesimo di Erdogan passi anche dalle sitcom melodrammatiche, sempre meno italiane.

Le ragioni della visita

È dunque a un paese complesso che Papa Francesco ha deciso di dedicare il suo primo viaggio europeo, una scelta il cui senso non va ricercato in intricate dietrologie geo-religiose sul contenimento all’Islam nei Balcani, ma che emerge con chiarezza dalle stesse parole del Pontefice, certamente più universali.

L’attesissima omelia di Francesco è ruotata attorno a tre nuclei, che a ben vedere sono le tre ragioni del suo interesse per il caso albanese e dell’inserimento di quest’ultimo nella sua azione pastorale: il Papa ha ricordato l’eroico martirio dei cattolici, e le sofferenze degli ortodossi e dei musulmani (sempre nominati in quest’ordine) durante le persecuzioni del regime comunista; ha ricordato lo "spirito di comunione" vigente tra le rinate comunità religiose albanesi, "esempio per l’Europa" e antidoto ad ogni deriva estremista; infine ha sottolineato il ruolo dei giovani nella costruzione di un futuro diverso, fondato su amore, libertà, giustizia e pace.

"Sono venuto a rendervi grazie per la vostra testimonianza e per incoraggiarvi a far crescere la speranza dentro di voi e intorno a voi… Sono venuto a incoraggiare le nuove generazioni, questo è un popolo giovane, e dove c’è giovinezza c’è speranza. Fate come la vostra aquila, che vola alto, ma mai dimentica del nido…".

Se si esclude quest’accorato appello alle nuove forze del paese, dall’omelia e dagli altri interventi pubblici del Pontefice è emerso come l’obiettivo principale della visita non fosse quello di consacrare da un punto di vista cristiano la ricchezza che deriva da un’identità storica stratificata – una realtà complessa che, è vero, dalla fine del comunismo a oggi non ha prodotto conflitti religiosi, ma che molto spesso viene negata, non compresa o vissuta come un limite identitario dagli albanesi stessi. Il Papa ha invece scelto l’Albania come scenario simbolico per lanciare un ben più ampio messaggio al mondo: la lotta agli estremismi religiosi e il riferimento alla "globalizzazione della solidarietà" sono infatti i due passaggi più ripresi dalla stampa estera.

Nelle splendide e lusinghiere parole del Papa l’Albania diviene terra della tolleranza, del rispetto reciproco, del dialogo interreligioso, un vero e proprio esempio di convivenza pacifica in grado di rispondere agli odi e agli estremismi dilaganti in altre zone del pianeta. Ora, fermo restando l’indubbia pace religiosa vigente nel paese – che molti albanesi di fede attribuiscono più all’assenza di dialogo interconfessionale che alla capacità di portarlo avanti – risulta in ogni caso evidente come la narrazione francescana dell’Albania odierna sia in un certo senso strumentale rispetto ad un messaggio più generale – e certamente importantissimo – che travalica la realtà albanese, più pretesto che oggetto della riflessione e della visita del Pontefice appena conclusasi.

Il Papa in Albania - foto di Nicola Pedrazzi

Il Papa in Albania – foto di Nicola Pedrazzi

In estrema sintesi, si può affermare che quand’anche nel nome di un altissimo messaggio di pace religiosa, la realtà albanese ne è uscita (ancora una volta) semplificata. Non è un caso che dal punto di vista albanese il messaggio più forte sia stato quello maggiormente calato nell’odierna realtà locale, quando il Papa si è rivolto nuovamente ai giovani cittadini della nuova Albania capitalista, scandendo per ben tre volte un deciso "no all’idolatria del denaro e alla falsa libertà individualista". Il boato che ne è seguito è il boato di chi evidentemente si riconosce più nel proprio peccato che nelle proprie virtù.

Il sabato del villaggio

Al di là dei contenuti religiosi e spirituali – che, peraltro, riguardano le singole anime – vi è poi un altro aspetto, terreno e collettivo, che merita una riflessione. Quello che si è respirato a Tirana alla vigilia della visita di Papa Francesco è un leopardiano "sabato del villaggio": come la celebre poesia mette in luce, il giorno che precede il dì di festa, il giorno dei preparativi, "è di sette il più gradito giorno".

Due commissioni, una governativa e una ecclesiastica, hanno presieduto con entusiasmo ai frenetici lavori per l’accoglienza, che si è dimostrata impeccabile nonostante la ristrettezza dei tempi e lo "spauracchio terrorismo" agitato da più parti sulla scorta della difficile situazione internazionale – ben 2500 poliziotti albanesi sono stati impiegati per garantire la massima sicurezza. Grazie al lavoro coordinato di centinaia di persone, nei giorni precedenti la visita papale Tirana è cambiata a tempi record sotto gli occhi increduli dei suoi abitanti: strade pulite, piazze ristrutturate, traffico bloccato, tanto che nei bar e sui social networks la domanda ironica che circolava era: "E se invitassimo il Papa tutte le settimane?".

Ma se ai preparativi segue la festa, alla festa segue la normalità. Ed è proprio quest’ultima la sfida più grande per l’Albania del futuro. Forte del successo incassato, su Facebook il premier Rama ha triturato nel suo entusiasmo persino le avverse condizioni meteorologiche: "Pioggia, sole, mare di speranze ed emozioni… e un Padre Santo con l’impatto di una rock star sul boulevard di Tirana… dove il mondo ha visto un Albania diversa". In effetti, le ragioni per festeggiare ci sono tutte, e non si tratta unicamente di un riscatto d’immagine internazionale: grazie anche all’ospitalità albanese, contesto scelto non a caso dal Papa per lanciare il suo messaggio di pace, la sostanza di questo viaggio ha comunque avuto la meglio sulla forma – che tanta parte gioca nelle attività umane, nella Chiesa come in politica. Tuttavia, per il domani di questo piccolo paese dall’alto valore simbolico, l’auspicio è duplice: che gli ospiti vedano e conoscano l’Albania di tutti i giorni, e che siano gli albanesi a godere di un’Albania diversa (non solo di sabato, prima dell’arrivo di una rock star).

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