Papa Francesco a Sarajevo, il giorno dopo
Il messaggio di Papa Francesco a Sarajevo echeggiava quello del presidente Tito, fratellanza e unità. Senza retorica. Forse anche per questo ha suscitato tanto entusiasmo nella capitale bosniaca
All’indomani della visita di Papa Francesco, Sarajevo continua a risplendere della sua precoce estate. La visita è stata un successo, sotto ogni profilo. La partecipazione, l’organizzazione, la sicurezza, sono andate come previsto. La sera di sabato Irfan Nefić, portavoce del ministero degli Interni cantonale, ha dichiarato con soddisfazione ai media locali che “tutto si è svolto nella maniera migliore. Dal momento dell’arrivo del Papa fino alla sua partenza, passando per i diversi incontri tenuti nella capitale bosniaca, non c’ è stato nessun problema.”
Un paese normale
E’ vero, Sarajevo ha dato il meglio di sé. “E’ stata tirata a lucido”, diceva venerdì sera la mia vicina di casa. In effetti, la mattina di sabato, la città non sembrava la stessa. La pedonalizzazione del centro da Skenderija a Koševo, compresa tutta la città vecchia, i parchi e i giardini ben curati, la gente a piedi, erano uno spettacolo nuovo. Il primo dato è forse questo, la volontà dimostrata con tenacia da cittadini e istituzioni di manifestare al mondo che questo è un paese normale, con la cura dei minimi dettagli.
Anche la sostanza della visita papale però, non solo la forma, sembra aver colpito l’opinione pubblica locale. Le parole usate dal Papa nell’omelia tenuta allo stadio di Koševo, in particolare, le categorie cui ha fatto riferimento, sembravano tratte direttamente dal dibattito pubblico della Bosnia Erzegovina, un paese ancora in lotta con il suo recente passato.
Papa Francesco è entrato nello stadio nella papamobile, accolto dal grido di entusiasmo delle circa 70.000 persone che lo attendevano dalla mattina presto. Dopo aver fatto il giro della pista si è soffermato con il sindaco di Sarajevo, Ivo Komšić, che gli ha consegnato le chiavi della città, e ha poi cominciato ad officiare, in latino. Al momento dell’omelia, però, il Papa è passato all’italiano, con la traduzione consecutiva, parlando in maniera molto diretta e al tempo stesso dando l’impressione di soppesare ogni parola.
Il nemico ha il mio stesso volto
“La pace – ha detto Papa Francesco – si costruisce praticando la giustizia” e, affrontando direttamente la questione della riconciliazione, ha detto che “il popolo nemico ha il mio stesso volto”. Poco prima aveva fatto riferimento alla “terza guerra mondiale” in corso nel mondo, scagliandosi contro “chi fomenta questo clima di guerra cercando lo scontro tra le diverse culture e civiltà” e contro chi “specula sulla guerra per vendere armi”.
Ha continuato parlando della guerra come di “spostamenti forzati, donne, vecchi e bambini nei campi profughi, vite spezzate” e poi, rivolgendosi alla folla stipata nello stadio Asim Ferhatović Hase, ha detto che “voi lo sapete bene per averlo sperimentato qui, conoscete la sofferenza e il dolore”. Tra gli altri passaggi più ripresi dai media locali ci sono stati il riferimento alla pace come ad un “lavoro artigianale che richiede passione, tenacia e esperienza”, e l’esaltazione del ruolo degli “operatori di pace” in contrasto con i semplici “predicatori”, ipocriti o menzogneri.
Poco più tardi, nella cattedrale, il Papa ha incontrato preti, monaci e monache, e ha ascoltato le testimonianze di tre di loro, Zvonimir Matijević, dell’episcopato di Banja Luka, fra Jozo Puškarić, francescano della provincia della Srebrena Bosna, e Ljubica Šekerija, suora. I tre hanno parlato delle sofferenze subite durante la guerra, e il Papa ha ripreso le parole di uno di loro che ha raccontato dell’aiuto datogli da una donna musulmana, Fatima, e dalla sua famiglia, in uno dei momenti di maggiore difficoltà durante l’internamento in campo di concentramento.
A seguire, nel centro francescano, il Papa ha incontrato i rappresentanti delle altre principali comunità religiose del paese, il reisu-l-ulema Husein ef. Kavazović, il rappresentante della comunità ebraica Jakob Finci, il vescovo Grigorije e il cardinale Vinko Puljić affermando che “siamo tutti fratelli e tutti crediamo nello stesso Dio.”
Fratellanza e unità
Il viaggio del Papa è durato un paio d’ore più del previsto. L’intera atmosfera che ha accompagnato la visita, i discorsi a braccio, l’incontro con i cittadini di fronte alla presidenza, il fatto che avesse percorso il tragitto dall’aeroporto al centro con una Ford Focus (una cosa che ha letteralmente entusiasmato i commentatori locali che hanno messo a confronto la semplicità papale con il lusso ostentato da numerosi politici bosniaci), sono stati poco rispettosi del protocollo. L’enfasi è sempre rimasta sul messaggio iniziale, “Mir Vama”, la pace sia con voi. Anzi, il giorno dopo il titolo più efficace sui giornali locali è stato forse quello di Oslobodjenje, “Mir Nama”, la pace sia con noi.
Il fatto è che il Papa non solo si è dimostrato rispettoso del (difficile) dialogo in corso nel paese, ma è anche apparso in grado di saper offrire un aiuto concreto al dialogo stesso. Anzi, le poche critiche che si possono leggere sui media locali riguardano proprio questo, cioè il fatto che il Papa avrebbe manifestato più attenzione per il dialogo inter religioso che per la situazione della comunità cattolica. Alcuni commentatori sui media croati hanno infatti notato con disappunto che il Pontefice non avrebbe fatto riferimento alla situazione dei croati in Bosnia Erzegovina, alle prese con una drammatica perdita di popolazione. La scelta di visitare Sarajevo tuttavia, e non Zagabria, o l’Erzegovina occidentale, cioè zone ad assoluta maggioranza cattolica, mostrava dal primo momento quale era lo spirito della visita, in totale sintonia con i precedenti viaggi in Turchia e Albania.
Nell’ultimo incontro della giornata, quello con i giovani presso il Centro diocesano giovanile "Giovanni Paolo II”, poco prima dell’aeroporto, Papa Francesco ha ribadito che la pace si costruisce “tra tutti noi, musulmani, cattolici, ebrei e ortodossi” esortando i giovani a fare in modo che non ci sia tra noi “discordia, ma comunanza fraterna e unità”.
Quasi le stesse parole che utilizzava il presidente Tito, fratellanza e unità (“bratstvo i jedinstvo”) non più versione laica ma religiosa. Segno dei tempi. Il messaggio in ogni caso è quello giusto.
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