Oto Horvat: le lingue, il nostro lessico interiore
Come nella sua poesia, anche nello scrivere prosa Oto Horvat parte sempre da un’immagine. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita in Italia per Stilo Editrice del suo "Sabo si è fermato"
L’anno scorso la casa editrice Stilo di Bari ha pubblicato, nella traduzione di Ljiljana Banjanin, il romanzo "Sabo si è fermato" di Oto Horvat, poeta, traduttore e narratore serbo-ungherese, da anni residente a Firenze. Uscito nel 2014 a Novi Sad, città natale dell’autore, il romanzo è stato finalista del premio «Nin», il più importante premio letterario serbo, e vincitore di numerosi altri riconoscimenti, tra cui i premi «Mirko Kovač» e «Biljana Jovanović». L’alto tasso di liricità della prosa autobiografica di Horvat, dovuto alla sua lunga esperienza di poeta ("Sabo si è fermato" è infatti il suo esordio nella narrativa), ha portato alcuni critici a definire questa opera un romanzo lirico. La liricità e la frammentarietà sono caratteristiche dominanti dello stile di Horvat che in poco più di cento pagine condensa numerose immagini poetiche di un passato personale e collettivo. Abbiamo colto l’occasione di questa prima traduzione in italiano di un’opera di Oto Horvat per conversare con l’autore.
Vivi in Italia da molto tempo, ma hai continuato a scrivere in serbo. Il personaggio principale del tuo romanzo, in cui è impossibile non riconoscere il tuo alter ego, fa spesso osservazioni metanarrative, sostenendo per esempio che scrivere è un atto di estrema intimità. Quanto è ancora più estrema questa intimità se si considera che scrivi in una lingua straniera rispetto all’ambiente in cui vivi? Hai mai pensato di scrivere in un’altra lingua?
Credo che ogni atto di creazione artistica sia un momento di intimità. Per questo non sento che creare in un altro ambiente linguistico e culturale sia un handicap. Forse è piuttosto uno stimolo per la ricerca e la riflessione. L’ambiente linguistico diverso può riflettersi nell’opera o no.
Ho scritto in un’altra lingua. Le mie prime poesie erano scritte in ungherese, poi durante gli studi in Germania ho iniziato a scrivere in tedesco e avrei sicuramente continuato se fossi rimasto in Germania. Due mesi fa ho finito il mio nuovo romanzo in serbo e al momento non so se il mio prossimo libro sarà scritto in italiano. Le lingue sono solo un’estensione del nostro lessico interiore.
"Sabo si è fermato" è, tra le altre cose, una geografia emotiva della tua o delle tue identità in cui le città – Novi Sad, Budapest, Erlangen, Berlino, Firenze – sono vividamente presenti con descrizioni precise e con i nomi reali di strade. Novi Sad è anche il palcoscenico del tuo nuovo romanzo "Noćna projekcija" [Proiezione notturna] che è appena stato pubblicato in Serbia da Akademska knjiga. Che rapporto hai oggi con la città in cui sei nato? È vero il verso di una tua poesia che recita “La mia biografia non conosce la nostalgia della città natale”?
Quando non vivi più nella tua città natale da trent’anni, nei suoi confronti puoi avere una relazione ambivalente tra riconoscimento e non riconoscimento. Tra nostalgia e straniamento. Per Novi Sad non sento né più né meno nostalgia di quanta ne senta per alcuni momenti vissuti a Erlangen o Berlino o Budapest, dove ho soggiornato a lungo. E il verso di cui parli potrebbe essere letto in modo autoironico.
Rimango sulla porta per qualche istante perché desidero abbracciare con lo sguardo i palazzi in lontananza, tra i quali c’è anche la mia casa bianca, e il parco che il treno rasenta mentre accelera; vorrei dare libero sfogo ai ricordi e riempire i polmoni del profumo della mia città (della freschezza del Danubio, ne sono convinto fermamente; anzi no, lo so con certezza, non voglio ricordare quell’insieme di fuliggine e l’odore dei tutoli di mais bruciati dei quali, in verità, anche quel pomeriggio l’aria era satura). Desidero congedarmi da tutti e da nessuno, imprimere nella memoria il crepuscolo e il grigiore che si stanno posando sulla città ed essere in essa ricordato.
"Sabo si è fermato", Oto Horvat
Definito dal punto di vista del genere come romanzo lirico, "Sabo si è fermato" è una narrazione frammentaria in cui utilizzi spesso la tecnica di ecfrasi (descrizione verbale di un’opera d’arte). Non solo descrivi dipinti e fotografie come pretesto per parlare di te, ma si ha l’impressione che tratti allo stesso modo anche i ricordi, come fotografie che hai il compito di descrivere…
Le mie frasi in prosa portano una traccia di poesia riconoscibile e indelebile. Quando da quarant’anni pratichi sollevamento pesi, come ha definito la scrittura di poesie il poeta János Pilinszky, non è facile correre una maratona. Anzi, forse un’altra metafora potrebbe essere migliore: il velocista da 100 metri non si trasforma facilmente in un maratoneta da 42 chilometri.
E la narrazione è composta da momenti che si inanellano uno dopo l’altro, proprio come un film è composto da fotogrammi. Nella poesia, spesso mi concentravo su un momento della realtà trasformandolo in un’immagine, semplicemente a causa della mia predilezione per le arti visive. Proprio per questo la figura retorica di ecfrasi mi è così vicina ed è così spesso presente nei miei testi letterari.
Usi spesso il presente che può essere interpretato come un presente storico che racconta eventi passati, o piuttosto come un modo per far rivivere i ricordi frammentati e preservarli dall’oblio. Percepisci l’uso dei tempi verbali come una scelta stilistica che decidi prima di iniziare a scrivere?
Anche nella prosa, l’impulso iniziale è un sentimento, un’immagine. Parto sempre da quello, non ho un piano preciso nel senso di sedermi a pensare su quale argomento potrei scrivere, cosa è attuale o importante. Non mi interessa e non funziono in quel modo. La mia arte non è programmatica.
Tendo a pensare che la scrittura sia una forma di meditazione e in questo senso torniamo all’inizio quando abbiamo parlato di intimità. La creazione artistica è una discesa a un certo livello di coscienza che, suppongo, ha somiglianze con i livelli di coscienza durante la meditazione. Nella scrittura, nella creazione artistica, vedo un tentativo di portare alla luce ciò che è profondo nei ricordi e nei sentimenti dell’artista.
Se userò la prima persona singolare o la terza persona singolare, il tempo presente o passato, questo è deciso al momento della scrittura. Non dirò che ho un modo di scrivere surreale, ma lascio che il mio linguaggio nascosto si manifesti.
L’ecfrasi come tecnica è molto presente anche nelle tue poesie e molti motivi poetici sono riconoscibili nel romanzo. Ho l’impressione che nel desiderio di recuperare qualche ricordo tu ti sia servito delle tue poesie. Come vivi ora, dopo tanto tempo, il tuo abbandono della poesia e la scelta esclusiva della prosa?
Sì, hai ragione. Penso che in qualche modo era da aspettarsi che le poesie “irrompessero” nella prosa, soprattutto perché le poesie che ho scritto negli ultimi anni hanno conservato parte della storia di cui ho scritto in questo romanzo (Sabo si è fermato), quindi le ho usate e adattate al testo in prosa.
Nel mio nuovo romanzo, credo di non aver utilizzato componimenti lirici del passato, ma alcune frasi sono rimaste riconoscibilmente poetiche.
Non vedo niente di speciale nel fatto che adesso sto scrivendo prosa, non poesia. Sono rimasto sorpreso che in Serbia mi facessero di regola questa domanda. Come se scrivere poesia o prosa fosse una cosa fissa. Come se Mirò dovesse essere solo un pittore o uno scultore. Mi piace pensare che questa sia una delle fasi della mia arte e non escludo che un giorno scriverò di nuovo versi, ma ora la poesia non mi interessa.
Mi sembra che la tua posizione periferica, o forse anche esterna, rispetto alla scena letteraria serba e post-jugoslava ti dia una certa libertà. Anche tu percepisci nello stesso modo il tuo lavoro letterario?
In quanto membro di una minoranza nazionale, mi trovo de facto in periferia, nel senso che fin dall’inizio entrambe le lingue erano parte di me perché sono cresciuto bilingue. Forse questa è la libertà, conoscere ed essere parte di più culture?
Ho sempre seguito i miei “temi ossessivi”, dalla poesia alla traduzione, alla prosa, indipendentemente dai trend. Non so se ho risposto alla tua domanda.
Certamente. Sono contenta che tu abbia menzionato la traduzione perché, tra le altre cose, mi interessa come tu, in quanto persona che si occupa di traduzione da molto tempo, percepisci la letteratura tradotta in Italia e quale autore italiano tradurresti in serbo o ungherese.
Preferirei dire che traducevo quando ero più giovane perché avevo più tempo. Molto spesso ho deciso di tradurre quegli autori, cioè quei testi che erano interessanti e belli a tal punto che volevo farli miei traducendoli, per sperimentare, ovviamente in misura minore, quel climax, quel certo orgasmo mentale che si può avere scrivendo versi o frasi straordinari. Non traduco da molto perché ho davvero poco tempo libero e quindi lo uso solo per leggere o scrivere i miei testi.
A tal proposito devo dire che l’idea di traduzione di Danilo Kiš mi è tuttora più vicina rispetto a quella di Milorad Pavić. Il primo ebbe a dire, se non ricordo male, che la traduzione è un abbassamento della tensione poetica, qualcosa che gli è servito per scrivere una prosa meno lirica, da cui si può concludere che la traduzione è un lavoro utile per uno scrittore. Dall’altro lato Pavić fu assolutamente contrario alla traduzione, che considerava una trasfusione, un donare il proprio sangue ad altri autori.
Sfortunatamente, l’Unione Europea ha mancato molti obiettivi anche sul piano culturale. Si traduce poco dalle cosiddette lingue minori verso le lingue maggiori e in generale la cortina di ferro esiste ancora.
Esistono ancora pregiudizi e una certa arroganza culturale nei confronti dell’Europa orientale, mentre l’egemonia culturale anglosassone è massima in quasi tutti i campi.
Se non dovessi fare otto o nove ore di lavoro d’ufficio e se avessi più tempo per l’arte, tradurrei quegli scrittori italiani che non sono ancora conosciuti nell’ex Jugoslavia; per esempio Antonio Moresco che per me è un vero artista, un vero Scrittore. A mio parere e sentire, ci sono scrittori artisti e scrittori intrattenitori. Gli intrattenitori non mi interessano.
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