Oltre l’Eufrate, dove finisce l’Europa
Un viaggio lungo il tratto turco del fiume Eufrate, dove si unisce Oriente e Occidente, dove volteggiano gli ibis neri dal becco adunco e rossastro sacri agli Egizi e i liceali fanno ricreazione sotto le sette alture del santuario cosmologico di Eski Soğmatar
Ma insomma: la Turchia fa parte dell’Europa o è ‘Asia minore’? E se un confine tra i due continenti c’è, dove corre? Un onesto manuale di geografia lo collocherebbe su Bosforo e Dardanelli, lasciando però in fondo irrisolta la questione: visto che la Repubblica Turca si estende più al di là che al di qua degli Stretti; ma la sua più grande metropoli, Istanbul, si trova sicuramente al di qua.
La risposta, più che sulle mappe geografiche, può essere forse trovata sul terreno, viaggiando. Ma, per quanto a lungo l’abbia cercato negli anni, ammetto di non esser riuscito a trovare questo confine né sulle coste egee – troppo legate, da Omero a Talete, alle nostre prime fioriture poetiche e filosofiche – né all’interno dell’Anatolia – dove la Gordio di Mida, l’Ancyra (Ankara) delle monumentali Res Gestae di Augusto e la più antica capitale indoeuropea, Hattuşas, sembrano rimandarlo sempre più ad oriente: come un miraggio.
Birecik e le porte della Mesopotamia
Solo quando ho attraversato il ponte fluviale di Birecik, e ho visto volteggiare sopra di me gli ibis neri dal becco adunco e rossastro sacri agli Egizi, che vi riconoscevano il dio Toth, solo allora, con un tuffo al cuore, ho percepito che l’Europa finiva. E che lì cominciava qualcos’altro. L’Asia? Il Medio Oriente? O, piuttosto, semplicemente la Mesopotamia? La quale, nonostante le reminiscenze scolastiche, non è tutta in Iraq: la parte più settentrionale è dentro i confini della Turchia.
Il fatto è che a Birecik – piccola, esotica, deliziosa Birecik… – si attraversa il primo dei due grandi corsi d’acqua della ‘Terra tra i fiumi’: l’Eufrate. Un lungo ponte moderno sostituisce quello che duemila anni fa era l’unico ad unire le strade di Oriente e Occidente, e sorgeva poco più a nord, a Zeugma.. Zeugma, in greco, vuol dire “giogo”: lì, appunto, due mondi si aggiogavano. Da quella città passavano gli eserciti dei legionari romani che andavano a conquistare il favoloso Oriente, scontrandosi di volta in volta con gli indomiti Arabi, i Parti saettatori e i Sassanidi dai cavalieri catafratti. Li guidarono, con alterne fortune, nomi celebri da noi, come Crasso, Traiano, Caracalla, Giuliano l’Apostata: tre dei quali ci rimisero la vita, e insieme persero quella di molti dei loro.
Da Zeugma la città sommersa, a Şanlı Urfa la splendida
E’ noto che Zeugma non esiste praticamente più, semisommersa dall’anno 2000 da una delle dighe previste dal piano GAP: il faraonico progetto di sviluppo sociale ed economico ideato dal governo di Ankara per il distretto sudorientale dell’Anatolia, attualmente in fase di implementazione. Non per nulla Gazi Antep, uno dei centri propulsori del Piano, è il tipico grosso capoluogo della Repubblica Turca: grandi viali e palazzi moderni, un centro direzionale e amministrativo con parchi pubblici alberati e fioriti, i prati all’inglese circondati da un traffico veicolare intenso. Tuttavia nei quartieri settentrionali della città scorre una superstrada dal nome irresistibile, Ipek Yolu: la ‘Via della Seta’. E non è un abuso, perché lo storico tracciato passava davvero di qui, e, scavalcato il fiume a Zeugma, scendeva in Mesopotamia per giungere nella capitale del regno di Osroene (poi, provincia romana). Allora si chiamava Edessa, ma oggi è Şanlı Urfa: la ‘splendida’ Urfa. Questa pittoresca e antichissima città può essere davvero considerata la prima tappa dell’Oriente per chi giunga da ovest. E se il suo cielo punteggiato di minareti è sovrastato da due gigantesche colonne corinzie, residuo di qualche palazzo ellenistico che dominava l’acropoli, nelle sue viscere si aprono cavità rocciose che pare abbiano ospitato alcuni tra i più grandi profeti del monoteismo.
La città di Abramo e Giobbe
Migliaia di pellegrini si affollano ogni giorno nel complesso architettonico che ospita la ‘grotta di Abramo’: secondo una tradizione locale, confortata da studiosi tedeschi della fine dell’Ottocento, il capostipite dei tre monoteismi sarebbe nato qui, poiché il più antico dei tanti nomi di questa città, Ūrhāy, corrisponderebbe alla biblica Ur dei Caldei. Altrettanti pellegrini, se non di più, si recano poi in visita al pozzo e alla grotta di Giobbe: testimoni della lunga, straziante pena del celebre personaggio biblico.
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Pare che io sia l’unico straniero a recarmi anche in questo secondo santuario, più periferico e fuori mano rispetto a quello di Abramo. Il bus traballante che mi porta è affollato di devoti, nonché di semplici braccianti che tornano a casa a fine giornata, visto che il sole è quasi al declino. Uno di essi è anziano, mi riconosce dalla pronunzia come straniero. Sorridendo, mi augura che, entrando in luogo tanto sacro, possa abbracciare anch’io l’Islam, religione che tutti accoglie. Viene prontamente redarguito da un altro passeggero suo coetaneo, che lo invita a lasciarmi in pace. Che cosa ha mai capito? – gli dice – Non sono che un semplice viaggiatore, un turista: e mi reco lì per conoscere, e non certo per convertirmi…
L’ingresso alla grotta, cui conduce una ripida scala ipogeica, è strettissimo quanto costipato di pellegrini: tanto che bisogna attendere un’inversione del flusso per scendervi o risalirne.
Harran, Carre dove si fermavano le carovane
Basta però proseguire lungo la strada che da Urfa punta a sud, verso la Siria, per giungere in un luogo in cui anche i turisti stranieri arrivano un po’ più spesso, pur se con visite organizzate: tra i resti di Harran, quella che i Romani chiamavano Carre. Harran significa ‘crocevia’ o anche ‘carovana’ nelle antiche lingue semitiche. E del resto oggi molti in questa zona parlano arabo, oppure curdo. E’ precisamente ad Harran, difatti, che la Bibbia ricorda si sia fermato Abramo. E sempre qui, più che fermarsi, fu fermato e in seguito ucciso Crasso, il triumviro romano che, nel 53 a.C. col suo esercito tentava di imitare, ad Oriente, le imprese del collega Cesare in Gallia. La cittadina è ancora circondata da un giro di mura precedute da un fossato, che ovviamente non hanno più alcun uso difensivo; lungo il solo ingresso ancora in piedi, la ‘Porta di Aleppo’, pascolano greggi che, come quelle degli antichi nomadi, nella stagione calda salgono alle alture che interrompono a nord la piana mesopotamica. Visito i suggestivi resti di Carre con un giovane locale: come tanti altri, si è offerto di farmi da guida, e per fortuna oltre all’arabo materno parla bene il turco. La pietra calda del minareto della moschea principale, isolato e svettante, gli architravi arabescati della scuola di filosofia che fiorì qui al tempo degli Abbasidi, si indorano gradualmente nel tardo pomeriggio.
Fino a che, dal non lontano deserto, un pulviscolo di sabbia sollevato dal vento non opacizza il disco solare, creando una baluginio incerto, una caligine soffocante.
Le sette alture del santuario cosmologico di Eski Soğmatar
Con un amico curdo di Urfa sono invece partito per luoghi ancora più remoti, lontani, carichi di un passato che è rimasto ancora oggi difficile da interpretare. Risaliamo a nord-est rispetto a Carre, in una zona esclusa dalle grandi strade, moderne o antiche. So che in una contrada dal nome di Eski Soğmatar si trovano tuttora i resti di un grandioso santuario cosmologico, assai singolare poiché non è fatto solo di pietre lavorate, ma di alture – sì, alture di rocce innalzate dalla natura nei millenni. Esse sono sette, come i pianeti dell’antico zodiaco.
Questa tra Carre e Somatar era la mitica terra dei Sabei. Il nome, nonostante la somiglianza, non ha nulla a che vedere con il biblico regno di Saba. In verità, i Sabei oggi sono ignoti sì, ma a dire il vero non del tutto ignorati: infatti, oltre un miliardo di persone imparano in tre ‘sure’ del Corano che tra i ‘popoli del Libro’ il cui culto può essere tollerato anche nelle terre conquistate all’Islam vi sono, nell’ordine: Ebrei, Cristiani, e, appunto, Sabei. Ma su chi siano – o meglio, fossero – questi ultimi il dibattito è ancora acceso.
Non puoi farci nulla: noi siamo Sabei
A presentarci questo popolo singolare è un curioso racconto, che prende le mosse al tempo della conquista dell’alta Mesopotamia ad opera della dilagante espansione araba. Si era nell’833 d.C. (il 218 dell’Ègira), e il califfo Abdallah al-Maʾmūn, della dinastia degli Ommayadi, giunse con il suo esercito vittorioso davanti alle mura di Carre. Gli abitanti, alla domanda rivolta loro dal condottiero – se fossero già musulmani – risposero: ‘No, non lo siamo’. Fu chiesto allora se fossero almeno giudei o cristiani. E un fremito di terrore dovette percorrerli quando, anche stavolta, dovettero ammettere ‘No, non lo siamo’: era infatti noto che non vi fosse salvezza per gli idolatri, condannati dal Corano. Ma tra gli assediati si trovava un conoscitore della religione islamica, il quale li consigliò: ‘Nessuno sa esattamente chi siano i Sabei, tuttavia essi sono protetti dal Corano: diciamo loro che siamo Sabei’. Così, quando ormai il califfo si apprestava a lanciare le truppe all’assalto, dalla città alcuni abitanti gli andarono incontro, dichiarando: ‘Non puoi farci nulla: noi siamo Sabei’. E, così dicendo, gli consegnarono una copia del loro Libro Sacro, il Corpus Hermeticum. A quel punto al-Maʾmūn, pur perplesso, dovette desistere dall’assalto. E l’antichissima Carre si salvò.
Come gli Arabi divennero intermediari tra il pensiero greco e il nostro medioevo latino
Ma come potevano pensare di essere credibili gli abitanti di quaggiù, dando a dimostrazione della propria fede nell’Unico Dio una copia di un’opera tardo classica, scritta in greco nel II, III sec.d.C. e che si diceva composta da Ermete Trismegisto (‘il tre volte Grande’)? Il fatto è che nella Siria romana già da secoli si era iniziato a tradurre in siriaco la filosofia ellenica, un processo che poi gli stessi eruditi arabi avrebbero continuato. Me ne ricordo quando, giunto finalmente a Soğmatar, salito sull’altura centrale che domina la contrada – tra grotte sacre e busti di dèi intagliati nella roccia – trovo sulla cima una grande iscrizione siriaca, risalente proprio ai tempi di quella storia. Non sono certo in grado di leggerla, ma il suo valore cultuale, sacrale, è evidente: non è fatta per essere letta dal basso, dagli sguardi degli umani, ma dall’alto, dal cielo astrale.
Ermete Trismegisto era un filosofo davvero singolare: tanto per cominciare era un dio, frutto di un curioso incrocio tra l’Hermes greco e il Toth egizio. Le sue opere fondevano il platonismo – a quell’epoca misticheggiante e tendente al monoteismo – con le idee dei pitagorici. L’Uno, entità suprema e assoluta, vi era considerato nello stesso tempo origine di tutte le cose e della serie dei numeri: e i numeri, per Pitagora, erano entità divine, rappresentate in cielo dai moti perfetti degli astri, dai sette pianeti allora conosciuti. Tutto ciò si ritrovava tal quale anche nei culti astrali e nelle osservazioni astronomiche dei sapienti di questa Mesopotamia antica, i Magi Caldei. Dai quali derivano anche, come si sa, gran parte delle astrologie e degli esoterismi tuttora dilaganti qui da noi.
Così, quando nel 529 d.C. il Cristianesimo vincente arrivò a chiudere di forza la scuola filosofica di Atene – cioè di quanto restava della millenaria tradizione del platonismo – il suo ultimo maestro, lo scolarca Damascio, trovò accogliente rifugio con i suoi codici e i suoi discepoli da queste parti, ove dominava il re persiano Cosroe, simpatizzante per l’ellenismo. Portò forse quello scolarca con sé, tra tanti altri, anche i rotoli di Ermete Trismegisto/Toth? E’ probabile. E, comunque, è divertente pensare che il misterioso uccello nero che lo rappresentava presso gli Egizi, l’ibis, allora qui doveva essere ben più diffuso che oggi.
Queste delineate sono, molto sommariamente, le tappe di quella lunga vicenda della cultura che portò poi gli stessi Arabi a fare da intermediari tra il pensiero greco e il nostro medioevo latino. E così, questo paesino dell’alta Mesopotamia, poverissimo e dall’aria isolata dal mondo, con le casupole di pietra o di mattoni di fango che servono anche da stalla per gli animali, è stato un tempo, con la vicina Carre, al centro di un fenomeno di portata epocale. Al di là del gustoso aneddoto raccontato a proposito di al-Maʾmūn, infatti, pare davvero che gli abitanti della zona a quell’epoca fossero detti Sabei. Del resto, nella Mecca di Maometto si sapeva bene che Abramo era venuto da Carre: ed è forse questo il motivo sia dell’inserimento del loro culto nel Corano, sia della clemenza del califfo nei loro confronti.
La salita al tempio di Afrodite
I poverissimi abitanti che trovo qui, quasi tutti pastori, non sanno certo nulla di tutto ciò: i più anziani poi parlano solo arabo, e neanche una parola di turco. Il mio accompagnatore curdo di Urfa non era mai stato qui prima d’ora, e per di più, alla terza altura su cui gli propongo di salire declina gentilmente l’invito: mi aspetterà comodamente a valle. Per fortuna, nel frattempo ho conosciuto Alì: giovanissimo, ha lasciato da poco il percorso scolastico per andare a fare – come tutti i suoi – il pastore; ma il turco a scuola l’ha imparato, e mi farà da guida fino al tempio della sommità. E’, questo, uno dei complessi sacri meglio conservati, detto ‘di Afrodite’, quindi dedicato al pianeta Venere. In queste plaghe solitarie dalle notti secche e luminose davvero un popolo dedito a un culto degli astri, figliato dalle tradizioni convergenti del pitagorismo greco e della magia babilonese, aveva ben collocato i suoi santuari-osservatori, da cui seguire i moti ricorrenti e perfetti dei pianeti in cui si esprimevano bellezza e intelligenza dell’Uno Supremo. Tra di essi, primeggiava la Luna: che, da queste parti, si chiamava Sin, ed era di sesso maschile. Tanto che un autore romano lo traduce con Lunus: Luno.
Giunto sulla cima dell’altura sacra a Venere, mi seggo a rimirare il paesaggio circostante: Alì, forse perché è di poche parole, o semplicemente rispettoso dell’emozione che scorge in me, tace immobile al mio fianco. Enumero con lo sguardo le alture attorno a noi, ciascuna segnalata dai resti di un suo tempio astrale: Sole, Luna, Giove, Saturno, Mercurio (sì, sempre lui, Hermes/Toth) e Marte. Sono strani edifici dai blocchi quadrangolari, precipitati a terra nel corso dei secoli. Intanto, l’attuale Eski Soğmatar, ai piedi del tell di rovine stratificate che costituiva l’antico abitato, pare sonnecchiare nel pomeriggio lattiginoso.
Il liceo ai piedi delle alture sacre
Mi distoglie dalla contemplazione un lungo grido, corale. Scopro, ai bordi del paesino, un campetto recintato. Una cinquantina di giovanissimi turchi, in semplice ma elegante divisa scolastica, sono usciti da un edificio, evidentemente un liceo, e giocano a calcio per la ricreazione. La loro compostezza, un fair play quasi britannico, stridono in questo ambiente trogloditico, e le lezioni cui da poco hanno assistito sono certo quanto di più lontano dal mistico circolo astrale che li sovrasta. Sicuramente, non sono tutti di questo minuscolo paesino: e difatti li rivedrò, a sera, salire sui dolmuş che li riconducono ai rispettivi villaggi. Dai tempi di Mustafa Kemal lo Stato turco dedica sempre massima cura all’educazione dei suoi figli più umili.
Nella stanza del dio Luno
Vorrei trattenermi quassù fino al crepuscolo; per attendere, chissà, magari il sorgere di Luno. Ma a valle mi attende, oltre al mio amico, un santuario dei Sabei, ricavato stavolta non sopra, ma sotto la roccia. E lì, finalmente, eccole: le divinità superstiti di questo strano culto siriaco mi appaiono scolpite nelle pareti di una stanza ipogeica. Immobili, frontali, impassibili, ormai prive di un volto che sia leggibile. Sfregiate dal tempo o dai fanatici di culti sopravvenuti, mantengono tuttavia un simbolo assai significativo: il crescente lunare – la mezzaluna – ne sovrasta ancora il capo come un’aureola.
La singolare vicenda dei Sabei, comunque, durò ancora poco dopo la conquista del Califfo. Altri invasori, questa volta una tribù selgiuchide, non furono fermati da nessun rotolo del Trismegisto. Ancor meno lo furono i Mongoli, qualche tempo dopo. Rientrare di qui a Carre, e poi a Urfa, mi pare, al confronto con ciò che ho visto, un brusco passaggio alla modernità. Ma anche il copioso Eufrate, quanto lo riattraverso, mi pare divenuto un confine assai più liquido, fluttuante, troppo labile per separare nettamente i due mondi. Dove finisce, dove comincia l’Europa?
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