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Olimpiadi di Sarajevo: vince la ragazza d’oro

Paoletta Magoni, giovanissima atleta bergamasca, sorprende e il 17 febbraio 1984 vince a Sarajevo l’oro olimpico nello slalom speciale, primo oro nella storia dello sci femminile italiano. Trent’anni dopo, il ricordo della Magoni di un’Olimpiade molto speciale

17/02/2014, Stefano Lusa -

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"Una ragazza tutta d’oro. Paoletta Magoni, sorprendendo tutti ma non chi la conosce da vicino, ha vinto l’Olimpiade entrando nella leggenda”

(L’Eco di Bergamo – 18 febbraio 1984, corrispondenza da Sarajevo di Gianmario Colombo).

Paoletta Magoni aveva 19 anni quel 17 febbraio del 1984, quando vinse nello slalom speciale la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sarajevo. Fu il primo oro olimpico dello sci alpino femminile italiano e fu una sorpresa, dato che l’atleta bergamasca fino ad allora non era mai salita sul podio in Coppa del Mondo. L’esperienza di Sarajevo fu per lei particolare da tanti punti di vista.

Cosa significò per voi andare a Sarajevo, in una località che non era propriamente una località del circo bianco a cui eravate abituati?

Ha rappresentato un modo per conoscere altre realtà, situazioni e culture. Ricordo che tornati a Sarajevo per le Olimpiadi, dopo aver visto la città durante le gare pre-olimpiche, eravamo rimasti tutti un po’ sorpresi di trovarla così cambiata. Non pensavamo che sarebbero riusciti ad organizzarsi per tempo. Durante le gare pre-olimpiche ci eravamo spesso chiesti se ce l’avrebbero fatta! E invece quando siamo tornati a febbraio del 1984 abbiamo trovato una città trasformata: bellissima, ripulita, con quartieri diversi tra loro e molto belli, un villaggio olimpico stupendo. Posso dire quindi che per noi, per me in particolare, è stata un’esperienza unica.

Sarajevo esulava un po’ da quelli che erano i tipici posti dove andavate a sciare. Era una grande città dove oriente e occidente si incontravano, dove forse faceva un certo effetto sciare vedendo le cupole dei minareti…

Esatto. La situazione era proprio quella, un po’ surreale. Per noi era un luogo completamente nuovo. Ricordo inoltre che gli abitanti di Sarajevo erano stati profondamente ospitali con noi e tutti gli atleti stranieri. Qualsiasi persona incontravi per strada dimostrava una disponibilità incredibile.

Come fu organizzata quella Olimpiade. Quali furono le sue percezioni?

Secondo me sono state belle Olimpiadi, organizzate bene, al di là del mio risultato che ovviamente me le fa ricordare più belle di come magari sono state nella realtà e nonostante abbiano avuto problemi meteorologici non indifferenti. La neve arrivò solo il giorno prima dell’inaugurazione e furono ben pochi i giorni di bel tempo. Negli spostamenti dal villaggio verso i campi di gara, ad esempio a Bjelašnica dove si tenevano quelle maschili, si sono sempre svolti tranquillamente e senza mai alcun intoppo. Non solo, anche il villaggio olimpico era molto bello, organizzato in maniera ottima, i ristoranti erano buoni e le aree comuni molto belle.

Dal punto di vista meteorologico furono Olimpiadi molto difficili. Durante lo slalom speciale femminile c’era una grande nebbia, si pensava di veder emergere Daniela Zini e Maria Rosa Quario. Invece alla fine saltò fuori Paoletta Magoni…

Era un periodo che nelle gare andavo bene ma non riuscivo a centrare mai entrambe le manche. Facevo un ottimo risultato nella prima o nella seconda, ma non riuscivo mai a entrare nella rosa delle prime tre perché mi capitava magari di fare il miglior tempo nella prima manche e poi nella seconda facevo il decimo tempo…

Però ero cosciente delle mie potenzialità, sapevo quello che potevo fare, ciò che potevo dare. Inoltre, oltre ad essere arrivata lì molto determinata, Sarajevo mi ha dato una forza psicologica enorme. Forse ha inciso il fatto che ho partecipato alla cerimonia di apertura e ho provato un’emozione indicibile. Oppure è stata la vita nel villaggio olimpico, assieme ad atleti di altre discipline, che giorno per giorno mi caricava di un’energia psicologica fortissima.

La leggenda narra che prima di partire lei avesse dichiarato all’Eco di Bergamo che andava a Sarajevo per vincere. I giornalisti non pubblicarono quella sua affermazione, un po’ per scaramanzia o forse perché non ci credevano persino loro, perché lei prima di allora non aveva mai vinto in Coppa del Mondo…

Sì, ricordo. Dissi che andavo alle Olimpiadi per vincere, non per partecipare… Mi guardarono tutti come se fossi pazza, mentre io ero convinta di ciò che dicevo perché sentivo quello che valevo e non capivo perché avrei dovuto esprimerlo. Capisco che non avendo fino ad allora vinto gare internazionali, la gente pensasse mi fossi montata un po’ la testa. Sono partita convinta di riuscire… e ce l’ho fatta!

Fu una gara particolare, le condizioni meteo dure, un pubblico forse più abituato alle partite di calcio che non alle gare di sci. Ci racconta le due manche?

Il tempo era pessimo sebbene sullo schermo della tv, dove tutto appare molto più appiattito, la nebbia sembrasse molto peggio di quanto fosse dal vivo. In realtà riuscivi a vedere tra le 15 e le 20 porte di slalom, che non è male. Ricordo poi che nonostante non fossimo atleti locali la gente sosteneva tantissimo tutte! C’era un pubblico molto sportivo, che tifava, incitava, osannava un po’ tutti gli atleti.

La prima manche l’ho finita che ero quarta, a 10 centesimi dalla prima, quindi praticamente niente. Finita la gara mi sono subito isolata in una delle casette che avevamo a disposizione tra un allenamento e l’altro, per cercare di rimanere concentrata sulla gara. Dopo la seconda manche… è successo di tutto! Anche la gente che non mi conosceva, perché non ero mai finita su un podio, urlava, batteva le mani… un’emozione incontenibile.

Quale effetto ritrovare Sarajevo, dopo pochi anni, in tutt’altre cronache, quelle di guerra…

Sì, molto forte. Perché di Sarajevo avevo un ricordo speciale, soprattutto della gente che si era mostrata molto aperta e cordiale. Vedere ciò che è iniziato nel 1992 è stato per me molto brutto. Inoltre, quando ci sono tornata dopo la guerra, nel venticinquesimo anniversario delle Olimpiadi, è stato anche peggio. Vedere i segni tangibili di cosa era successo, nonostante la guerra fosse finita già da tanti anni, è stata molto dura. Sono tornata a casa molto abbattuta.

L’atleta jugoslavo Jure Franko che vinse a sua volta l’oro, ha raccontato di aver venduto i suoi sci dopo la gara per fare un po’ di cassa… Lei cosa ha fatto dei suoi sci?

No, no! I miei sci di allora sono a casa. Come tutto quello che avevo indosso quel giorno. Tengo tutto perché è un ricordo importante e sono stata molto fortunata di aver potuto preservare tutto.

Una medaglia d’oro cambia la vita di chi le ha vinte. Dopo non sei più la stessa persona…

Sì. Magari dentro di te sei rimasta la stessa persona, sono coloro che ti stanno intorno che si pongono in maniera diversa, nel ben e nel male. Trovi purtroppo anche persone che cercano di starti vicino per convenienza. Tutto questo ti richiede un grande equilibrio e la capacità di capire questi meccanismi. Dopo una medaglia olimpica la vita cambia anche per il solo fatto che ti cercano tutti, per una premiazione o per un’intervista o una serata. Inoltre ero la prima donna nella storia dello sci italiano a vincere un oro olimpico, per cui l’attenzione mediatica è stata fortissima. E non essendo io una persona particolarmente espansiva, ho fatto molta fatica ad abituarmi a quella situazione…

* Stefano Lusa ha realizzato quest’intervista nel contesto del Vaso di Pandora di Radio Capodistria, di cui è conduttore

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