Olcay Bayir, folksinger
Il padre è un cantastorie, lei una giovane e talentuosa musicista che si sta affermando sulla scena internazionale. Cantando mondi antichi. Una rassegna e un’intervista
Abita a Londra, ma viene dalle aree a maggioranza curda della Turchia, affacciate sull’orizzonte siriano, da secoli crocevia di culture e musiche che affondano le radici agli albori del tempo. Olcay Bayir è una giovane e talentuosa cantante e musicista da poco sulle scene internazionali con il suo primo album, Neva/Harmony. Con lei musicisti provenienti dal suo paese natale, ma anche dalla Grecia, dall’Albania e perfino dall’Inghilterra e dal Venezuela.
Nasce a Gaziantep, grossa metropoli della Turchia sudorientale, fra le città più antiche del mondo, sotto l’amministrazione francese fino al 1921. Soprano – la sua voce ricorda quella di Joan Baez, famosissima folksinger americana – fin dalle prime esperienze artistiche si dedica al ricco patrimonio musicale della terra di origine, un mix di realtà pentagrammate che va dai paesi balcanici che si affacciano sull’Adriatico, a quelli caucasici bagnati dalle acque del Mar Nero. Largo spazio alle scale musicali arabe che alla tradizionale scala maggiore occidentale (pensiamo per esempio alla scala di do), sostituiscono intervalli di semitono fra il primo e il secondo grado e fra il quinto e il sesto (così da diventare: do, re bemolle, mi, fa, sol, la bemolle, si, do).
Canta e suona da quando ha sei anni, e a diciassette anni vola a Londra, dove studia musica classica e lirica. "Grande interprete, senso del poema epico, background operistico", sono le frasi che si rincorrono più spesso sul suo sito e che offrono una chiara immagine delle sue attitudini artistiche e della sua originale proposta discografica.
Olcay, di fatto, sottende alla tradizione tipicamente anatolica e balcanica di tramandare storie, vicende e personaggi, come si faceva anticamente, prima dell’avvento della scrittura; come s’è fatto con l’Odissea e l’Iliade, parafrasando il classico lavoro dei rapsodi (cantori professionisti simili agli aedi, ma senza la loro aurea profetica) e dei cantastorie dell’est. Rimanda, peraltro, agli illuminanti studi di Milman Parry che per primo rifletté sull’importanza dell’oralità nella diffusione delle storie e delle informazioni, sottoforma di "stereotipi"; tali per cui un poeta o un oratore non imparava mai a memoria dei versi, ma in pratica li ricostruiva di volta in volta partendo da strutture lessicali "predefinite", spesso introducendo (o togliendo) alcuni passaggi giudicati più o meno importanti.
Basta una canzone scelta a caso su Youtube per comprendere l’intensità, la complessità e il valore artistico di Olcay, una composizione come "Baharat", brano struggente, in grado di alimentare la fantasia e condurre per mano alla scoperta di mondi sconosciuti e spesso mal interpretati; dove il tempo perde la sua identità, in risposta ad antichi fantasmi sociali, tramandati di generazione in generazione, attraverso, appunto, l’uso sapiente delle parole e delle melodie. Non è un caso che un pezzo del genere si intitoli "Baharat", che in arabo significa "Spezie", lemma concernente la cucina siriana, giordana, e turca, incentrata su piatti a base di pepe nero, cannella, noce moscata e paprika.
"Jarnana" apre Neva/Harmony e ci consegna il respiro più puro e convincente della cultura orientale, riflettendo un antico canto di origine balcana. "Benim Yarim", sincopata, evoca atmosfere tzigane; "Durme Durme" è una ninnananna sefardita: la voce soprano di Olcay domina la scena, sorretta dal suono di una strumentazione a corde tipica dell’universo anatolico, con l’accompagnamento di delicate percussioni, che ricordano indirettamente il magico mondo dei Forabandit (di cui abbiamo parlato a ottobre, durante l’incontro con Ulas Ozdemir). Ritmo e melodia, un ritornello di grande impatto, affiancano uno dei brani più intimisti del disco, "Lay Lay": è la fotografia dell’epopea mesopotamica o di parentesi storiche lontanissime dalle nostre vicissitudini, riconducibili – tanto per dare una connotazione spazio-temporale – al regno dei Guti o alle conseguenze della battaglia di Cialdiran, con la quale gli ottomani assoggettarono l’Anatolia nel cinquecento. "Melamet Hirkasi" prosegue sulla stessa linea intimista, aprendo la strada alle melodiche e coinvolgenti "Mia Smyrnia Sto Parathiri", che strizza l’occhio al mondo ellenico; "Penceresi Yola Karsi", struggente e sensuale brano rom-balkan; e a "Mer Dan", di origine armena. Sono tutte canzoni antiche, alcune risalenti addirittura al diciassettesimo secolo.
A questi brani Olcay è giunta anche grazie al padre, un ashik. Così vengono ancora oggi definiti i mistici, i cantastorie, i trovatori, i menestrelli erranti, figure che trasmettono il sapere attraverso il canto, accompagnati da una strumentazione povera, frequentemente un cordofono come il banglama. Il prossimo appuntamento con Olcay? Al Brunei Museum di Londra, l’11 marzo; in attesa di vederla al più presto anche in Italia.
Sei nata nel sud-est della Turchia: qual è il peso della cultura anatolica nel tuo album di debutto?
E’ molto importante, ma non direi preponderante; sono, infatti, presenti anche altri contesti culturali, partendo dal presupposto che non esistono culture di serie a o b e che, di fatto, la regione dove sono nata è figlia di espressioni sociali molto diverse fra loro.
A chi ti riferisci?
Per esempio alla cultura mediterranea e a quella mesopotamica.
Lingua e cultura, un ossimoro?
La cultura viene prima di tutto, la lingua è un aspetto secondario, ma certamente sono complementari.
Quali strumenti avete utilizzato?
C’è un po’ di tutto, ma viene dato ampio spazio al clarinetto, al violino e alla chitarra.
Chi ha scritto queste canzoni?
Sono brani antichi, retaggio della vasta cultura anatolica. Molti pezzi sono di autori anonimi, uno soltanto è stato composto in occasione del disco.
In una canzone si parla di Smyrnia. Si riferisce, per caso, alla "ex" città greca?
Certamente. Il riferimento è all’antica città di Izmir, lungo la costa turca, un tempo abitata da numerosi greci (il cui sfollamento determinò la diffusione del rebetiko, nda).
In che lingua canti le tue canzoni?
Canto in cinque lingue: turco, curdo, armeno, ladino (da non confondere con il ladino dolomitico, nda) e greco. Tutti idiomi che vengono regolarmente parlati in Anatolia.
Come mai questo potpourri linguistico?
Perché esprime al meglio le mie diverse influenze musicali e permette di dare solidità a questo progetto improntato su paradigmi sociali diversi, ma interdipendenti fra loro.
Cosa raccontano i brani dell’album?
Parlano della vita, come gran parte delle canzoni folk.
Ma l’approccio è diverso.
Senz’altro ci ho messo del mio, proponendo canzoni del passato in chiave moderna.
Non è, quindi, solo folk music.
Non direi. Il tutto è contaminato, se mi si può passare il termine, con i ritmi irregolari e l’improvvisazione tipica dell’universo urbano.
S’intuisce in ogni caso la volontà di non esagerare con le parti strumentali.
E nemmeno con le armonie, con i vocalismi. Le tracce rimangono sobrie, mantenendo l’originalità di base delle partiture.
Ci dici qualcosa dei tuoi musicisti e collaboratori?
Lavoro con bravissimi musicisti provenienti da tutto il mondo. Turchi, curdi, greci, albanesi, inglesi e perfino venezuelani.
Chi ha influenzato maggiormente il tuo lavoro? Puoi citare qualche artista?
Ho tantissimi punti di riferimento, a partire dalla cantante e compositrice azerbaigiana Aziza Mustafa Zadeh (talentuosa pianista nata a Baku nel 1969, di cui torneremo a occuparci in uno dei prossimi mesi, nda); Nesat Ertas (folksinger turco e abile suonatore di banglama, nda); Aram Tigram (cantante armeno, noto per avere registrato 230 canzoni in lingua curda, nda).
E c’è anche Asik Veysel.
Fu uno straordinario poeta e cantautore turco, cieco per gran parte della sua vita e autore di liriche struggenti e filosofiche. Imparò a suonare magistralmente il banglama perché quando tutti i suoi amici e fratelli partirono per il fronte, durante la prima guerra mondiale, lui rimase solo, isolato da tutti, con l’unico conforto della musica.
Anche tu appartieni al mondo alevita di cui tuo padre è un grande rappresentante?
L’alevismo appartiene alla mia famiglia, e mio padre è un poeta folk, un ashik, figure che da tempo immemore perorano la causa etico sociale del popolo curdo e anatolico, suonando ovunque e comunque.
Sei dunque cresciuta in mezzo alla musica.
Non potrei prescindere dalle melodie e dalle canzoni udite da piccola, e dai suoni del saz (strumento tradizionale, nda).
C’è qualche musicista occidentale che ami?
L’elenco sarebbe davvero infinito.
Qualche nome?
Etta James, Gipsy Kings, James Brown, Pink Floyd, Joan Baez, Maria Callas.
Conosci i Forabandit?
Oh sì. Io e Ulaş Özdemir proveniamo dalla stessa regione.
Prevedi qualche concerto in Italia?
Mi piacerebbe moltissimo. Se arrivasse qualche proposta.
Programmi futuri?
Moltissimi. In primis i live, che gestiremo in giro per l’Europa: sul mio sito sono riportate le date già fissate. In programma, anche varie apparizioni televisive per la tv turca.
E il prossimo disco?
Stiamo già lavorando al nuovo materiale. Direi che siamo a buon punto.
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