Nuova commissione: più vicinato, meno allargamento?
In questi giorni sono in corso le audizioni presso il Parlamento europeo dei commissari designati della nuova commissione Juncker. Tra loro anche Johannes Hahn, che si occuperà di allargamento e vicinato. Un’analisi
Nella nuova commissione europea, guidata da Jean-Claude Juncker, ci sarà un commissario all’Allargamento. O meglio, vi sarà una Direzione generale Politiche europee di Vicinato e negoziati per l’Allargamento. Il presidente della Commissione Europea ha deciso infatti di trasformare la vecchia DG allargamento, che per anni ha accompagnato il processo di integrazione dell’Europa centro-sud-orientale all’UE, e ridefinire l’incarico del prossimo commissario in modo da includere anche la politica di Vicinato.
La buona notizia per i Balcani è che continuerà ad esistere una DG incaricata di seguire i loro negoziati con Bruxelles. Per alcune settimane dall’insediamento di Juncker, infatti, le indiscrezioni sulla nuova Commissione UE facevano temere la cancellazione della Direzione. Un altro aspetto positivo è il fatto che il commissario prescelto è l’austriaco Johannes Hahn e non lo slovacco Maros Sefcovic. Dato che la Slovacchia è uno dei 5 stati membri a non aver riconosciuto il Kosovo, un suo emissario a capo della direzione generale avrebbe pesato a sfavore di uno dei paesi più indietro nel processo di avvicinamento a Bruxelles.
Tuttavia, questa nuova denominazione della DG che antepone la politica di Vicinato all’Allargamento e soprattutto l’accorpamento in una sola direzione generale di due politiche un tempo distinte tra loro, per il Sud Est Europa conferma il ridimensionamento di priorità nella agenda politica dell’UE. Di contro, per i paesi del Vicinato orientale (ma anche per i paesi del Mediterraneo) l’attivazione di una DG loro dedicata potrebbe significare che è finalmente arrivato il momento in cui l’Europa si prenderà più a cuore il loro futuro.
La preoccupazione attorno alla DG nasce dal timore diffuso che non si completi il processo di integrazione europea del Sud Est Europa (SEE) e che, dopo anni di investimenti, ci si accontenti dei risultati ottenuti fino ad oggi. Ovvero che l’Allargamento, unanimemente considerato il più grande successo della politica estera comune e la dimostrazione delle potenzialità del soft power europeo, sia arrivato al capolinea.
Benché da tempo si parli di fatica di allargamento, il processo, lontano dai riflettori, ha continuato a produrre risultati notevoli anche negli ultimi anni: dal consolidamento democratico dell’Albania, agli accordi tra Belgrado e Pristina. Indubbiamente i tempi per completare il processo di integrazione di tutto il SEE sono ancora lunghi. Se la leadership serba pubblicamente si è data come traguardo il 2020, per gli altri paesi della regione il tempo necessario per l’ingresso nell’UE può solo essere uguale o realisticamente superiore.
Ed è chiaro a tutti che senza il sostegno delle istituzioni europee il processo di allargamento ai Balcani rischia di non concludersi mai. Per questo, quando qualche settimana fa, Juncker aveva dichiarato che non si sarebbero visti nuovi allargamenti nei 5 anni della sua presidenza, il suo messaggio era stato interpretato come ennesima preoccupante dimostrazione del disimpegno europeo nel SEE.
In questi anni la presenza di una direzione generale della Commissione Europea incaricata di accompagnare il SEE è stata chiave nell’avanzamento del percorso di integrazione di tutti paesi e nel portare a compimento l’ingresso della Croazia l’anno scorso. Per essere considerati pronti all’adesione i paesi candidati, infatti, devono dimostrare di rispettare i criteri fissati a Copenaghen nel 1993 ovvero di essere una democrazia liberale consolidata ed avere un’economia di mercato funzionante ma anche di avere adottato le migliaia di norme, direttive, regolamenti comunitari che vanno sotto il nome di acquis communautaire.
Inoltre, la preoccupazione di perdere la Direzione Generale era quella di vedere arenarsi il processo virtuoso in atto sia per via della mancanza di un sostegno costante e coerente da parte della Commissione sia per il segnale politico che si sarebbe dato. Va tenuto presente, infatti, che un ruolo chiave nel successo della politica europea nella stabilizzazione dei Balcani deriva proprio dalla prospettiva politica concreta di una futura integrazione che spinge i paesi coinvolti ad adottare politiche a volte impopolari e li motiva verso strade di cambiamento politicamente faticose.
Naturalmente insieme all’assistenza tecnica della Commissione e alla posta politica in gioco, ovvero la prospettiva di diventare paesi membri, il processo di integrazione ha funzionato fino ad oggi anche perché ci sono state le consistenti risorse economiche per sostenere il processo in atto. Da ultimo, grazie al processo di avvicinamento all’UE, il SEE ha potuto beneficiare di tante opportunità di scambio transnazionali ad ogni livello che hanno coinvolto studenti, professionisti, politici locali, e amministratori pubblici dando loro l’occasione di sperimentare direttamente i benefici del vivere nell’Unione.
Purtroppo quando si parla dell’importanza di includere i Balcani nell’UE di rado ci si riferisce all’idea della riunificazione europea come era successo con l’Europa centrale dopo l’89. Di norma l’argomentazione più in uso a favore della loro integrazione riguarda questioni di sicurezza e stabilità regionale. Benché la geopolitica nasconda spesso molto più di quanto riveli, questa volta gioca a favore dei Balcani: il rischio della deriva politica di questi piccoli stati del Sud Est Europa incuneati nello spazio politico comune favorisce la loro presa in carico da parte di Bruxelles.
Se dunque c’è ragione di sperare che prima o poi tutti i paesi del SEE, se debitamente sostenuti, diventeranno membri dell’UE, per la Turchia il ragionamento cambia. La presenza o meno della DG Allargamento difficilmente potrà incidere su un dialogo condizionato da volontà politiche altalenanti sia tra gli stati membri che nel paese candidato. Benché i negoziati proseguano, l’integrazione europea di Ankara sembra rimandata sine die, surclassata anche da questioni ben più urgenti a cui far fronte con le guerre del Medio Oriente che minacciano la Turchia ai confini.
La prospettiva si ribalta invece esaminando la situazione dei paesi del Partenariato orientale con cui ora i Balcani condividono la nuova DG. La nascita di una direzione generale per le Politiche europee di Vicinato mostra la presa d’atto da parte di Bruxelles che le crisi che investono i paesi confinanti, siano essi del Mediterraneo o dell’Europa orientale, si ripercuotono negativamente sull’Unione.
Con la DG preposta, la Commissione oggi evidentemente intende rilanciare la Politica Europea di Vicinato (ENP) avviato senza grande successo nel 2004. Si tratterà di vedere se per l’Europa orientale e il Caucaso meridionale ciò significherà una svolta per quella che il think tank European Council on Foreign Relations definisce fino a qui “un esercizio di ambiguità a basso costo” perché non è né un sostituto dell’allargamento né un suo preludio.
Se si escludono i paesi baltici, infatti, nessun stato nato dalla dissoluzione sovietica ha avuto fino ad oggi alcuna prospettiva politica di integrazione europea e con essa fino ad oggi erano mancati la preziosa assistenza tecnica, l’ingente aiuto economico e le capillari possibilità di scambio transnazionale riservati al Sud Est Europa.
A queste fondamentali differenze di trattamento tra le due regioni, si affiancano altri elementi importanti che distinguevano le due politiche comunitarie oggi accorpate. In primo luogo, con l’Allargamento l’UE ha stimolato la riconciliazione regionale mentre con la politica di Vicinato in Europa orientale e caucasica ha contribuito al degenerare dei rapporti con la Russia ed ha spinto l’Ucraina in una guerra non dichiarata con Mosca. Per questo, la sfida prioritaria del nuovo commissario dovrebbe essere ripensare alla politica di Vicinato – che preesiste alle rivoluzioni arabe e alla crisi Ucraina ma ha acquisito rilevanza in conseguenza delle stesse – e renderla uno strumento di risoluzione dei conflitti.
Secondo, l’UE dovrà fare i conti con il fatto che l’evoluzione della Politica di Vicinato dipenderà non solo dai rapporti UE-paesi post-sovietici ma anche da Putin. Gli accordi di partenariato che ha proposto, infatti, sono uno dei nodi fondamentali dell’attuale crisi diplomatica con la Russia e, non a caso al di là dell’Ucraina, in ciascun paese coinvolto, la firma o l’avanzamento delle trattative con Bruxelles è indicatore della qualità dei rapporti con la Russia: il paese politicamente più distante da Mosca è la Moldavia che ha ottenuto il partenariato con l’UE, mentre l’Armenia che ha congelato i negoziati è la più vicina alla Russia.
In terzo luogo, purtroppo, la geopolitica in questo caso gioca a sfavore dell’Europa orientale e caucasica. L’UE infatti sembra tentata dall’idea di creare zone cuscinetto tra sé e Mosca allontanando il confine comunitario dall’ingombrante Russia di Putin. È un vecchio modo di gestire i rapporti tra potenze europee che tende a riproporsi nonostante le gravi conseguenze per chi si trova in mezzo. Per parte sua la Russia dai primi anni ’90 tiene in scacco i paesi usciti dalla sua orbita contribuendo alla nascita di stati de facto nella sua periferia occidentale e meridionale con la Transnistria secessionista della Moldavia, con l’Abhkazia e l’Ossezia della Georgia e ora potenzialmente con la Novorossia in Ucraina.
Infine, cresciuta in tempo di crisi economica, la politica di Vicinato non è pensata come strumento di ampio respiro per aiutare ad affrontare le colossali sfide politiche ed economiche che aspettano l’Europa orientale. In particolare è difficile illudersi che l’UE nei prossimi anni si faccia carico di un paese di 45 milioni di abitanti come l’Ucraina dove, anche qualora venisse raggiunta una pace duratura, si dovrà fare fronte alla crescita del prezzo del gas di provenienza russa e mettere mano alla riduzione del debito estero come richiesto dal FMI.
Nonostante la nuova DG dunque resta forte il dubbio che le politiche di Allargamento e Vicinato, una volta diverse per ambizioni e respiro, oggi convergano al ribasso perché la crisi economica scoraggia l’UE dall’assumersi nuovi oneri e la spinge al ripiegamento su se stessa. Vedremo quali considerazioni esprimerà il commissario designato Hann nell’audizione di oggi presso il Parlamento Europeo e quali reazioni seguiranno da parte degli Euro-deputati che lo devono valutare. E senza dubbio servirà un attento monitoraggio degli sviluppi politici dell’Europa allargata negli anni a venire.
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