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Nova Gorica: tra eroi del popolo e casinò

Un disegno geometrico quasi perfetto, una città che sembra calata dall’alto. Nova Gorica, tra razionalismo socialista e fughe in avanti dell’economia globalizzata. Un reportage che riceviamo e volentieri pubblichiamo

04/09/2007, Redazione -

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Di Fabio Dalmasso

Le statue degli eroi del popolo sono sempre lì: la stella sulla bustina è ancora rossa, nonostante siano passati tanti anni e molte cose siano cambiate sotto il sole della Slovenia. Sono partigiani uccisi in battaglia, sloveni che hanno liberato la Jugoslavia dall’occupazione nazi-fascista. Sono e restano eroi del popolo e non importa se il muro di Berlino è caduto, se tanti stati al di là della cortina di ferro cercano, in ogni modo, di cancellare il passato dicendo che loro il comunismo non lo volevano.

Qui, a Nova Gorica, gli eroi del popolo rimangono. A fare loro compagnia ci sono i tanti palazzoni grigi, uno uguale all’altro: parallelepipedi identici che costeggiano le vie d’accesso alla città, come sul set di un film stile Goodbye Lenin!. La Slovenia è indipendente dal 1991: è stata la prima delle repubbliche jugoslave a staccarsi, ma la sua vocazione occidentale era chiara già da tempo e per Nova Gorica lo era ancora di più. La vicinanza con l’Italia, il suo essere ultimo avamposto socialista prima del "blocco capitalista", ha proiettato la città verso relazioni commerciali e culturali diverse da quelle del resto della Jugoslavia.

Lo stile occidentale salta subito all’occhio lungo la via che porta in centro: su dieci cartelli pubblicitari, otto reclamizzano uno dei tanti casinò o case da gioco sparsi nella zona; una vera e propria concentrazione di gioco d’azzardo che lo stato favorisce, riconoscendogli un indubbio valore turistico: sono centinaia di migliaia gli stranieri che varcano il confine con la Slovenia per riversarsi nei tanti "centri turistici" che pullulano a Nova Gorica e dintorni.

Tra i "turisti del gioco" gli italiani sono la percentuale maggiore, alcuni dicono la quasi totalità. Così, accanto ai busti fieri degli eroi del popolo, svetta la pacchianità dei casinò con le loro finte colonne greche e il gusto kitsch e retrò stile anni ’80. Salendo sul Monte Sacro, alle porte della città, il panorama che si presenta è un miscuglio di epoche, stili e modelli politico – sociali differenti, un melting pot urbanistico che non lascia presagire nulla di buono.

«Ormai tutta Nova Gorica gravita attorno ai casinò – mi racconta Katja, una giovane cittadina – è una colonizzazione economica: se uno non vuole finire lì dentro a fare il croupier ha ben poche speranza di trovare un lavoro». Giovani e brillanti laureati decidono presto che il loro futuro non può essere all’ombra di una roulette o di fianco a una slot machine: «In molti scelgono di andare in Italia, a Gorizia o a Trieste. Atri si spostano nella capitale, Lubjana, ma certamente non rimangono qua».

Già, l’Italia e Trieste: il rapporto che lega il Belpaese agli sloveni è strano, ambiguo a volte, quantomeno bifronte. Da un lato, infatti, è radicato un sentimento se non di ostilità, quantomeno un’inimicizia dovuta alle vicende storiche; dall’altro c’è stato, almeno fino alla fine degli anni ’80, una quasi dipendenza commerciale di alcune categorie triestine nei confronti di coloro che abitavano al di là del confine.

«Tutti noi giovani andavamo a comprare i vestiti a Trieste – mi racconta Lavra, un’altra giovane di Nova Gorica – era una cosa normale». I viaggi nella città giuliana erano un appuntamento fisso, irrinunciabile, quasi un rito a cui gli sloveni, in particolare i più giovani, ma non solo, non hanno mai rinunciato. In treno, in macchina o con i pullman dei viaggi "tutto compreso", centinaia cittadini sloveni si riversavano nei tanti negozi che costellano il Borgo Teresiano, un insieme di isolati posti nei pressi della stazione ferroviaria triestina.

«Compravano di tutto, ma soprattutto abiti» ricorda una signora di Trieste: passeggiando tra le vie che compongono il Borgo, oggi, sembra di essere entrati nella Chinatown giuliana. Dei vecchi negozianti che rifilavano di tutto agli sloveni non c’è più traccia: «Si sono fatti i soldi – commenta la signora – tanti ora hanno le ville grazie agli sloveni». La nomea di questi ex commercianti non è delle migliori da queste parti: si dice che avessero un atteggiamento arrogante e maleducato e che rifilassero qualsiasi cosa agli acquirenti d’oltre confine: materiale di scarso valore, mercanzia che probabilmente nessuno avrebbe mai comprato. Ma soprattutto, si dice che dopo aver accumulato quotidianamente ricchezze su ricchezze grazie agli slavi, ne erano i più acerrimi nemici e critici: «Gli vendevano la roba e poi gli dicevano s’ciavi de merda… vuole che traduca?». No, non occorre la traduzione dal triestino all’italiano, il concetto è più che chiaro.

Comunque sia gli sloveni a Trieste ci andavano, anche se forse sapevano bene che la loro presenza era se non sgradita, quantomeno mal vista, sopportata solo perché erano clienti. Gente che comprava, sempre e comunque. Ma perché da Nova Gorica andavano a fare "shopping" a Trieste? «Noi avevamo due soli canali televisivi, tutti due, in pratica, governativi – mi spiega Lavra – tutti, quindi, cercavano di sintonizzarsi sulle frequenze italiane, per vedere i vostri programmi. All’inizio non era molto facile, non si capiva la lingua, ma poi, lentamente, abbiamo iniziato a comprenderla e quindi finivamo per guardare più la tv italiana che non la nostra».

Una generazione cresciuta in uno stato socialista, a pochi chilometri da un’Italia vista attraverso i programmi televisivi, quindi finta, di plastica: la situazione dei giovani sloveni era questa. Un po’ come se la gente di Berlino Est avesse avuto la possibilità di attraversare il muro una volta alla settimana per andare a fare acquisti nella parte occidentale. È così che molti sloveni iniziarono a passare il confine e a fare spese nei negozi italiani: «Per noi era normale, nessuno voleva accontentarsi di quello che c’era qua». La visita commerciale a Trieste è rimasta un’abitudine ancora oggi, nonostante Nova Gorica e tutta la Slovenia siano a tutti gli effetti paesi inglobati nel modello occidentale e non ci siano più problemi per trovare un paio di jeans, delle scarpe da ginnastica o una bottiglia di Coca Cola.

Mentre passo davanti agli ennesimi eroi del popolo resi immortali con busti di bronzo, chiedo a Lavra che cosa ricordi del 1991, di quel 25 giugno quando la Slovenia dichiarò la propria indipendenza: «Ricordo che c’era agitazione, la gente era preoccupata, si cercava di stare in casa e soprattutto si cercava di capire cosa sarebbe successo. La situazione si risolse in tempi rapidi: ci furono alcune vittime, ma poi tutto tornò alla normalità». Una normalità che però fu il prologo alla tragedia dei Balcani, alle guerre in Croazia, in Bosnia, in Serbia e nel Kosovo. Guerre che forse erano già nell’aria: molti sono convinti che la morte di Tito segnò l’inizio della deriva. «Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito» ripetono gli anziani per dire come sotto di lui si fosse riusciti trovare un’unità. Dopo di lui iniziò la fine: «Tito oggi è ricordato positivamente – conclude Lavra – certo, non è osannato come un Dio, ma non si vuole nemmeno cancellarlo dalla memoria». Tito rimane nella storia della Jugoslavia, come gli eroi del popolo che costeggiano le strade di Nova Gorica: un ricordo del passato che deve fare i conti con un presente ibrido e un futuro che sarà sempre più a occidente.

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