Notizie minime sugli spacciatori di felicità
Idolo Hoxhvogli indaga in brevi quadri le regole di una società consumista, stordita e senza responsabilità, orientata all’essere felice qui e subito. Una recensione pubblicata in collaborazione con Il Gioco degli Specchi
Bisogna adattare il proprio schema mentale di lettori aprendo un libro che si presenta come prosa ma è poesia. Poesia a volte lieve di suoni e ritmi, a volte giocosa, a volte cupa – cruda crudele cruenta, potrebbe dire Hoxhvogli – fitta di immagini e allegorie, fino a visualizzare i concetti in strutture che rievocano i calligrammi. E, come sempre la poesia, una lente per vedere il mondo.
L’autore proclama nella premessa che l’identità non è statica, è in divenire, la persona non è imprigionata nel suo passato. “Le radici […] sono nel futuro come nel passato”. Poi dà il via ad una serie di brevi testi riuniti in tre gruppi principali: “La città dell’allegria”, “Civiltà della conversazione” e “Fiaba per adulti”.
Indaga in brevi quadri o in narrazioni le regole di una società consumista, stordita e senza responsabilità, orientata all’essere felice qui e subito.
Urla di ‘Allegria’, imposizione dell’allegria, altoparlanti che proclamano l’allegria moltiplicati fino all’assuefazione: l’urlo ‘Allegria’ “lo sentono soltanto gli stranieri in un fragore confuso”, l’allegria artefatta e centuplicata da un susseguirsi infinito di eccessivi altoparlanti.
Molesti, anzi, pericolosi per gli stranieri perché l’urlo sbatte via chi si avvicina troppo al megafono, fino alla catastrofe con gli altoparlanti che scoppiano e uccidono le persone. Lo straniero che si muove in questa società è colpito da allegrite, malattia che gli rende impossibile vivere l’allegria, ed è causata da un eccesso d’anima. Non può tuttavia sottrarsi al sistema dominante, può solo curarsi con una medicina che lo privi dell’eccesso d’anima.
Una pillola di Introduzione al mondo. “Prende una pastiglia. Non sente più nulla. Non sentire più nulla, questa è l’Introduzione al mondo”.
Hoxhvogli gioca con la seriosità, crea addirittura la tassonometria degli altoparlanti, e nel gioco seriamente spiega come vede la realtà. Ci offre un libro da rileggere in molte sue pagine perché parla della vita e suona varie musiche. Dallo sberleffo (“Un libro che vale la pena leggere è un libro che vale la pena rileggere […] Prima di leggere un libro, rileggetelo..”) alla fiaba nera e angosciante del boia di nome Vita, una vita che sembra essere nulla in equilibrio tra nulla e nulla, alle filosofiche riflessioni di un oggetto, all’invettiva politica all’analisi letteraria condotta con disinvoltura su un romanzo di successo o sul metodo di un giallista, a quella ‘economica’ sul turbocapitalismo.
Hoxhvogli disegna una realtà politica con ascendenze letterarie e facili riferimenti all’attualità: la Legge in città non riesce ad entrare nel palazzo del potere, bloccata dai maiali, la Costituzione è meglio comprarla con una copertina di ghisa perché solo così resiste a chi tenta di calpestarla.
Tratteggia elementi autobiografici, il disegno in filigrana dello straniero e della sua sofferenza. Un’anima malmenata come un natante nella tempesta, messa a nudo come lo scafo di una barca che naufraga, in secca, non più sorretta dal mare. Una persona che si muove priva di equilibrio in un ambiente in cui domina la “biancogenericità”, che riduce tutto a due segni opposti e non ri/conosce diversità e sfumature, colori diversi. Una società convinta di essere il centro del mondo e non un lato di un unico mare.
“Non so a quale costa o collina appartengo. L’essenziale non è il versante in cui ci troviamo, il lato della figura: l’essenziale è che i versanti appartengano allo stesso mare, come lati diversi appartengono alla medesima figura, la figura dell’umano. Appartengo a un’altra riva, come loro appartengono a un’altra riva, perciò tutti apparteniamo a un’altra riva, e questo ci unisce”.
Lo scrittore piega gli strumenti linguistici a suo piacere, individua, scopre e sottolinea quanto l’assuefazione dei parlanti ha cancellato, riaccosta parole (calca-calcàre-calcagno-calcografia), ne inventa su suggestioni letterarie (la nazione della Cacicchia come quella di Cacania), si muove per allitterazioni e melodie (il forestiero “non esce dalla tenebra nera di nero che ingoia. Si torce. È ingoiato dal nero che ingoia”). E infine conclude con un ultimo “gioco”: il gatto delle nevi è quello che dice il nome, un animale sornione che riempie di neve la città. “Non affranca, ma riempie di candore i sentieri, di bianco sceso dal cielo. I cantucci sono colmi, i viali carichi e impraticabili. Questo gatto avvolge tutto di petali nivei che montano senza rompere le finestre.” Costringe tutti all’interno dei loro spazi a guardare in se stessi. “Si può guardare solo dentro casa, e il gatto se ne va.”
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