Non ricordatelo come il serbo che difese Sarajevo dai serbi
Ieri 8 aprile è venuto a mancare Jovan Divjak. Con il suo operato e il suo carisma ha stretto forti relazioni con l’Italia. Ora sono in molti a ricordarlo con emozione
E così, a pochi giorni dal ventinovesimo anniversario dell’inizio della guerra in Bosnia, se ne va uno dei tanti che quella guerra non l’hanno voluta, ma sono stati costretti a combatterla. Se ne va uno dei protagonisti di quella guerra, il comandante dell’esercito che difese Sarajevo dall’aggressione nazionalista, Jovan Divjak. Un uomo che è diventato un simbolo, semplicemente per aver fatto il suo dovere.
Cresciuto alla fine della seconda guerra mondiale, Jovan Divjak era un uomo di guerra, un generale. Diceva sempre, però, che da piccolo avrebbe voluto studiare psicologia, per capire come mai certa gente avesse tanta voglia di ammazzare. Ma poi, orfano di padre, era stato costretto a scegliere una strada sicura: l’accademia militare. Non era il suo mondo, questo era chiaro. Soldato modello, aveva studiato all’accademia di guerra di Parigi, dove aveva conosciuto Adriana, il suo grande amore italiano. “Se mi avesse chiamato, nel ’92, non avrei combattuto per Sarajevo, avrei scelto l’amore”, ricordava sorridendo. Ma era stato il suo paese a scegliere lui, tanti anni prima, quando l’aveva richiamato in patria e poi spedito in Bosnia. Comandante della Difesa Territoriale, quasi una carica simbolica, un posto che non gli prospettava avanzamenti di carriera, ma dove la guerra non avrebbe dovuto farla di sicuro. Almeno così pensavano tutti, nella Jugoslavia degli anni Ottanta.
Divjak era un soldato, certo, ma era soprattutto un grande costruttore di pace. E la pace, per Jovan Divjak, era cultura, istruzione, conoscenza per tutti. Quello che cercava di ottenere, da anni, con la sua fondazione “L’educazione costruisce la Bosnia ed Erzegovina”. Tante volte anche io, con i miei gruppi di turismo responsabile, ho contribuito, con minuscole somme, al suo sforzo. Una goccia nel mare, ma un barlume di speranza per tutto il paese.
Non posso dire che fosse un amico, Jovan Divjak. Ma nel corso degli anni tante volte ci siamo scambiati un sorriso, una confidenza, una battuta. Divjak, il difensore di Sarajevo; Divjak, il serbo traditore; Divjak, il nostalgico di Tito. Questo diranno di lui, oggi. Tutto ciò che non avrebbe voluto sentire. Un uomo costretto a lasciare il suo amore italiano perché troppo “capitalista”. Un uomo cresciuto con l’idea di “unità e fratellanza”, nella convinzione che mai più l’origine nazionale avrebbe prodotto discriminazione, odio, guerra. Un uomo a cui la Jugoslavia aveva dato un lavoro, una vita onesta, una speranza, un popolo da difendere. E l’aveva difeso, quel popolo, o almeno ci aveva provato, cercando di restare pulito. Un uomo costretto a vivere gli anni della vecchiaia in un paese non suo, in un fazzoletto di terra da cui poteva uscire, letteralmente, solo a rischio della vita. Un uomo che diceva sempre: “Sì, i miei uomini hanno difeso Sarajevo, ma sono le donne che l’hanno salvata”.
Per me Divjak era soprattutto un uomo buono, un uomo giusto, semplice, onesto. Jovan, il ballerino (con questi occhi l’ho visto ballare, sorridente e leggiadro, a un concerto di Vinicio Capossela!); Jovan, il galante (ah, le italiane, un amore mai sopito…); Jovan, il cabarettista (“la sapete quella del proiettile che colpisce l’orecchio di Mujo?”); Jovan, il balcanico astemio (“perché mi offri da bere? Mi vuoi offendere? Lo sai che sono musulmano!”, mi disse una volta con espressione fintamente corrucciata).
Chissà chi era davvero Jovan Divjak? Io non posso dirlo. Ma lo ricorderò sempre così: con quel sorriso da ragazzino mai sazio di scherzare.
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