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Non è un mio problema

Come è presentata oggi nei media russi la questione cecena e come è stato affrontato il conflitto russo georgiano, ne parliamo con il sociologo Boris Dubin e il giornalista Boris Dolgin

20/11/2009, Maria Elena Murdaca -

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Boris Dolgin Vice Capo Redattore e Redattore Scientifico di Polit.ru e Boris Dubin, Direttore del Dipartimento di Studi Sociali e Politici del Centro Levada per gli Studi Politici e Sociali

In primavera è stata annunciata la fine del regime antiterrorismo in Cecenia; parallelamente si è assistito ad una crescita della violenza nella regione, culminata negli attentati suicidi di settembre e ottobre. Come viene recepita questa contraddizione dal punto di vista del fruitore russo dell’informazione?

Dubin: Se teniamo in considerazione i sondaggi sociologici russi in generale, direi che il problema della Cecenia per l’opinione pubblica russa praticamente non esiste. E’ qualcosa che accade in un universo parallelo e che non ha alcun effetto diretto nell’esistenza del russo medio. Non è una questione nuova, anzi, risale a diversi anni fa: il potere di risoluzione della questione cecena è stato delegato interamente alle autorità: "Ristabilite l’ordine in Cecenia, ma non fateci sapere a quale prezzo, perché noi comunque non lo vogliamo sapere. L’importante è che la cosa non ci disturbi." Il risultato è stato che durante la seconda guerra cecena è stato cancellato dai mezzi di comunicazione di massa, in particolare dalla televisione, qualsiasi punto di vista che non riflettesse quello ufficiale; chi non ha particolare desiderio di cercare notizie su quanto successo in Cecenia, non le trova disponibili sugli organi di stampa più diffusi. Il ragionamento del fruitore medio è il seguente: "Non è un mio problema, che lo risolvano le autorità, che se la sbrighi l’esercito, comunque la cosa non mi riguarda." E’ anche vero che ogni volta che accende la televisione, tre – quattro volte al giorno, non si imbatte mai nel problema Cecenia, per cui la questione semplicemente non si pone.

Di solito la televisione riporta la normalizzazione della crisi, la ripresa del settore edilizio, la possibilità di ricevere nuovi appartamenti, le varie feste, i concerti. Nonostante ciò, il 60% circa dei russi rivela di temere di diventare vittima di un attentato terroristico, o di avere paura per i propri familiari; (nei primi anni del 2000 la percentuale raggiungeva l’80%). Un ulteriore indicatore significativo è rappresentato dal fatto che oltre il 60% degli intervistati considera la situazione in Caucaso del Nord molto tesa ed estremamente critica. I due dati dimostrano che la maggior parte dei russi è comunque consapevole della gravità della situazione, per quanto la percepisca sullo sfondo e non in primo piano. Si estraniano comunque dalla questione, convinti che il problema riguardi le autorità e l’esercito e che quindi a loro spetti risolverlo. Ma in linea di massima la gente preferisce credere alla versione ufficiale secondo cui la ricostruzione prosegue e tutto è a posto.

Dolgin: "Purché la Cecenia non ci arrivi in casa!" Di per sé il documento sulla fine delle operazioni antiterrorismo, da qualunque parte lo si consideri, non riveste importanza particolare. La fase attiva del conflitto è terminata da tempo. Da un punto di vista giuridico, nessuno si prenderà la briga di esaminare l’atto o la terminologia adoperata nel testo. Per il cittadino medio russo non caucasico l’evento è passato inosservato. Del resto il senso della dichiarazione era puramente amministrativo: si è trattato di ampliare i poteri dell’amministrazione Kadyrov e di diminuire il controllo da parte dei servizi federali. La decisione in effetti sancisce il passaggio di potere. Per il cittadino di Mosca o San Pietroburgo la questione non riveste il minimo interesse. E’ importante invece per chi si interessa attivamente di politica o per chi è direttamente legato, in un modo o nell’altro, al conflitto e alle sue conseguenze. Parimenti è passato inosservato l’incremento, comunque moderato, della violenza in Cecenia.

Dubin: Sì, in effetti per la coscienza di massa dei cittadini l’evento non si è verificato. Paradossalmente, il dato è dovuto al fatto che la maggior parte dei cittadini russi percepisce la Cecenia come separata dalla Russia. Se interrogati in merito, rispondono di solito che per quanto li riguarda la Cecenia si può separare dalla Russia, non sono disposti a imbracciare le armi e combattere per essa; altri invece la considerano de-facto indipendente; non entrano nel merito della determinazione giuridica del suo status, ma di fatto non la recepiscono come territorio russo. La maggioranza aritmetica dei cittadini russi oggi non è disposta a mantenere la Cecenia entro i confini con la forza. E’ un altro aspetto dell’assioma "non è un mio problema".

Dolgin: Analizzando il fenomeno è comunque importante sottolineare che l’incremento della violenza in Cecenia è stato moderato. La Cecenia è un coacervo di problemi, ma se prendiamo in considerazione il solo aspetto della violenza, questa è cresciuta non tanto in Cecenia quanto nelle regioni circostanti, soprattutto in Inguscezia, che oggi rappresenta la situazione più problematica. Il classico effetto spill-over. La sostituzione al vertice della Repubblica è stata una decisione giusta ma presa con notevole ritardo. Il Presidente precedente non era in grado di far fronte alla violenza da parte delle forze federali. L’attuale Presidente, invece, avrebbe potuto fare qualcosa di più, ma poi ha subito un attentato. Sono tante le cose che non vanno e che sfociano in un aumento della violenza. Anche in Dagestan la situazione non è rosea. Si tratta di situazioni che differiscono da quella cecena, ma che sono comunque ad essa collegate, e che godono di maggiore attenzione: se si viene a sapere dell’omicidio di una famiglia russa in Inguscezia, la notizia produce il suo effetto. Anche il caso delle elezioni locali in Dagestan ha avuto la sua risonanza, almeno per le persone che seguono gli eventi della regione. Mentre il fatto che in Cecenia uccidano qualcuno è una non-notizia, è così da tanto tempo, uno più uno meno non fa differenza.

Parliamo del conflitto russo-georgiano. Si è parlato del fatto che televisione di massa e in parte i giornali da un lato, e i siti web dall’altro, hanno riferito sulla guerra in maniera completamente diversa. In cosa è consistita la differenza?

Dubin: Come centro Levada abbiamo monitorato l’evolversi del conflitto molto prima che questo prendesse forma armata, i nostri dati raccontano cosa è effettivamente successo, per la maggior parte dei cittadini russi, già prima dello scoppio delle ostilità. La versione ufficiale degli eventi è stata accettata in toto: "La Georgia si preparava ad aggredire e poi ha effettivamente aggredito i nostri concittadini, per cui la Russia è intervenuta per difendere dei cittadini russi." Se sia stato corretto da parte russa distribuire preliminarmente passaporti russi, è un aspetto che non viene preso in esame. L’opinione pubblica si è dimostrata sensibile all’argomento, per cui la versione dell’aggressione a cittadini russi è stata accolta subito e senza riserve.

Altra questione rilevante a livello di comunicazione: Saakashvili è stato definito "fascista". L’utilizzo del termine rievoca nella memoria dei russi la Grande Guerra Patriottica, per cui l’associazione immediata ha portato all’identificazione del conflitto russo-georgiano come una continuazione della Seconda Guerra Mondiale. I dati dimostrano come mese dopo mese fino a ¾ della popolazione hanno approvato le misure adottate, il comportamento di Medvedev e Putin, l’invio di truppe russe, e tutto lo scenario presentato, hanno condannato la Georgia e i georgiani, in primis Saakashvili. L’aspetto più interessante di questo quadro è che la maggior parte dei cittadini, in una percentuale compresa fra il 75% e l’80%, ha recepito lo scontro caucasico come una guerra non fra la Russia e la Georgia, ma fra la Russia e gli Stati Uniti, la mano invisibile che ha armato e supportato la Georgia; il conflitto dell’agosto 2008 è stato interpretato come una guerra mondiale non dichiarata, il che ha suscitato un’ondata di acceso antiamericanismo. Settimana dopo settimana i dati Levada dimostrano il livello raggiunto dagli umori antiamericani e di conseguenza antigeorgiani, antiucraini e antibaltici. I grafici relativi a queste quattro tendenze sono praticamente paralleli.

Sui siti internet il tono è stato completamente diverso. Si traduceva, sostanzialmente, in una richiesta di vera e autentica informazione. "Perché non circolano fotografie o filmati? Dove sono le testimonianze oculari?" E subito sono comparsi input di altro tipo, insieme all’analisi di politologi competenti ed esperti che già lavoravano su queste aree. Il fatto che passando dalla televisione ai computer fosse possibile assistere contemporaneamente due guerre, e quindi a due Russie, diverse ha prodotto un’impressione fortissima.

Dolgin: In effetti la televisione russa a livello federale ha riportato un unico punto di vista, con la parziale eccezione di RenTV. Giornali, siti internet e blog hanno presentato una situazione molto più complessa. Da una parte si è fatta sentire l’esigenza pressante di informazioni attendibili, documentabili e verificabili. D’altro canto, le informazioni provenienti da una qualunque delle parti in gioco erano accolte con estrema diffidenza: "Tutti mentono" è stato il leit-motiv che ha pervaso la rete. In rete si è assistito anche a una polarizzazione delle prese di posizione: chi ha accolto la versione ufficiale degli eventi, o addirittura ha espresso un’opinione ancora più radicale di quella ufficiale, chi invece si è attestato su posizioni diametralmente opposte ("poveri georgiani, non hanno fatto niente"); qualcuno invece ha adottato una linea di mezzo: "sappiamo che l’informazione è falsata da entrambe le parti, cerchiamo di capirci qualcosa, capiamo che ogni parte in causa ha le sue colpe, che la Russia ha messo in atto la sua propaganda, parlando di attacco, mentre è chiaro che non c’è stato nessun genocidio…" insomma, le persone hanno compreso la complessità dell’evento e adottato un punto di vista consono, non univoco. Questo processo è stato favorito dal fatto che anche alcuni media occidentali, che di solito fanno da punto di riferimento, hanno fornito stavolta una prospettiva di parte. Ha aiutato a fare chiarezza il ricorso agli archivi: è stato possibile determinare come e quando le informazioni sono state diffuse. E’ possibile andare a verificare quando Saakashvili ha iniziato a parlare di intervento georgiano come reazione all’aggressione russa, o cosa ha dichiarato Medvedev in relazione alle cifre degli osseti uccisi durante il conflitto, e su cosa si basa tale stima.

In tali situazioni l’esperienza degli attivisti per i diritti umani e degli esperti che già da tempo lavoravano sul territorio e hanno quindi acquisito gli strumenti per valutare la situazione e capire cosa stava succedendo veramente è stata fondamentale. Sono stati loro a raccontare come si è svolta l’evacuazione dei georgiani o degli osseti, che non c’è stato nessun genocidio, che hanno descritto come è avvenuta la formazione di unità semipartigiane sul Caucaso del Nord che hanno combattuto in Ossezia; noi abbiamo cercato di dare ampia visibilità alle loro dichiarazioni, che ovviamente non hanno incontrato il favore di nessuna delle parti ufficiali. Reazione che di solito è sintomo di un lavoro professionale e di qualità.

Dubin: E’ importante rilevare che da un punto di vista strutturale e funzionale le possibilità offerte dai media come internet hanno semplicemente riflesso un diverso quadro della realtà. Si è creata la possibilità di un dialogo fra più parti, rispetto al monologo televisivo, si è potuto interagire in prima persona, e soprattutto è apparsa la possibilità di rivolgersi agli archivi, e questo riveste estrema importanza al di là delle problematiche contingenti legate alla guerra. Internet, come canale, diventerà sempre più importante in futuro per l’utente medio comune.

A parte la guerra in sé, anche le conseguenze che ha suscitato sono state notevoli e pesanti per tutte le parti in gioco. Prendiamo in considerazione la vittoria russa: a prima vista sembrerebbe la solita vittoria, caratterizzata dall’incapacità dei leader di trasformarla in un vantaggio generale per la società, con un incremento del benessere materiale, oppure dello spettro delle libertà, o del livello di tolleranza.

A livello di convinzioni, tale vittoria ha rafforzato l’impressione, sia fra i cittadini sia fra le autorità russe, che si possa avallare l’intervento armato là dove ci sono cittadini russi, in Moldavia o in Crimea. Le autorità ufficiali hanno messo in piedi un’attività propagandistica efficace restaurando l’immagine di una nuova Russia nello spazio post-sovietico, sulla base delle guerre caucasiche, delle guerre del gas, in maniera molto semplificata, e piuttosto rozza: "Non crediate di avere un pari rapporto con noi, se ci mettete i bastoni fra le ruote vi schiacceremo, e potrete respirare quando vorremo noi, e non quando voi ne avrete bisogno". Questo almeno è stato una delle tendenze emerse dopo il conflitto dello scorso anno. Per di più questi segnali sono stati recepiti, per esempio, dai Paesi baltici, dalle istituzioni ucraine, bielorusse, moldave… il significato di questa guerra va ben oltre i danni materiali e le vittime causate da una parte e dall’altra. Abbiamo assistito all’inizio di un processo che si evolverà nel tempo, in forme anche pacifiche, o relativamente pacifiche, ma non possiamo escludere che assumerà anche le forme di un conflitto armato.

Secondo il teorema di Thomas una situazione è reale se sono reali le sue conseguenze. Vale a dire che non è importante cosa avessero in mente le autorità russe con quelle dichiarazioni, ma il fatto che tutti gli attori coinvolti abbiano percepito lo scenario come abbastanza reale. Questo ha influito concretamente sul clima politico.

Dolgin: Per di più questa situazione ha avuto effetto anche sulla politica interna russa. L’ordine del giorno è stato immediatamente modificato. Alcune riforme sono state sospese, come quella giudiziaria, le questioni della difesa e della complicazione dei rapporti con l’occidente sono state poste al centro dell’attenzione, col rischio di una crescita del senso di isolamento della Russia. Fortunatamente l’Unione Europea ha adottato una posizione non univoca, piuttosto complessa, da mediatore, il che ha impedito l’impiego di un’accesa retorica antioccidentale. Antiamericana sì, antioccidentale no. Se l’Unione Europea fosse stata meno attiva e avesse adottato una posizione più di parte, le conseguenze del conflitto per la Russia e per i rapporti internazionali sarebbero state molto più deleterie.

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