Non dimenticare di dove sei
Vlore è figlia di emigranti kosovari. Da bambina si è trasferita in Germania coi genitori, ma è vissuta nella costante preoccupazione del padre che dimenticasse la sua "madrepatria". Nel suo racconto l’incontro col Kosovo e la famiglia di origine
(Tratto da Kosovo 2.0, tit. orig. "The Diaspora Is The New Gyrbet”, pubblicato il 12 agosto 2013)
Durante tutta la mia infanzia, mio padre mi ha ripetuto ossessivamente una frase: “Non dimenticare dove sono le tue radici, il Kosovo è la tua madrepatria, anche se stai crescendo in Germania!”.
L’ho sempre presa in modo troppo letterale. E non riuscivo proprio a capire come le mie radici potessero raggiungere questo “Kosovo” – un posto che non avevo più rivisto da quando eravamo emigrati – dalla lontana Germania. E, onestamente, toccandomi i piedi, non sentivo alcuna radice, né recisa né ancora collegata. Questo “Kosovo” era per me una voce nell’ombra, un programma sulle onde corte della radio che mio padre ascoltava sempre e che ci terrorizzava: non potevamo guardare film e neppure parlare quando papà ascoltava Radio Tirana. E non capivo nemmeno questa, di connessione: noi eravamo del Kosovo. Che c’entrava l’Albania?
A volte, persone di questo “Kosovo” venivano a farci visita in Germania e sempre mi ponevano la stessa questione: “Cosa ami di più: la Germania o il Kosovo?”. Io sapevo quale era la risposta giusta, e schiacciavo il bottone giusto. “Il Kosovo!”. Mio padre poneva una domanda più sottile per vedere se stavo perdendo la fede illirica: “Vlore, sogni in tedesco o in albanese?” La mia risposta: “Sogno ad immagini”.
Un giorno, un altro amico di amici di amici di mio padre è venuto a farci visita. L’amico aveva fatto a mio padre un enorme favore: aveva una telecamera e aveva fatto un filmato della nostra famiglia in Kosovo. Hanno messo il VHS nel videoregistratore e mi sembrava di guardare un documentario. Ho visto un enorme giardino con tre case; tutt’attorno trattori ed animali. Vi era un’affollata “Oda” e tutti sedevano attorno alla stufa. Ho pensato che dovesse fare proprio freddo in Kosovo.
Mio nonno parlava alla telecamera. Tutti sono stati obbligati a parlare alla telecamera, anche i bambini di due anni. Alcuni parlavano in lacrime, anche gli adulti. Poi ho sentito il mio nome, tutti questi parenti mi salutavano. Guardando con i loro occhi diritti nei miei. Era il 1990. Erano otto anni che non tornavamo in Kosovo. Io avevo dieci anni. Abbiamo dovuto rispondere davanti alla telecamera ai nostri parenti e salutare tutti. Mia madre mi suggeriva una lista di nomi, tratti dalla (enorme) lista di parenti. Io non ho pianto, speravo solo questa tortura finisse presto, in modo da poter tornare a giocare con la mia amica tedesca, bionda e con gli occhi azzurri.
Penso che mio padre fosse consapevole che avrei potuto perdere interesse per la mia madrepatria. Ed è stato evidente che il nastro VHS non era stato sufficiente. Tre mesi dopo, ci ha messi tutti su un autobus e ci ha spediti in Kosovo per le vacanze estive! Lui non poteva venire con noi. Anche se aveva paura di non rivederci mai più, non riusciva più a sopportare fossimo separati dalla famiglia.
Per tutta la mia infanzia mi è stato detto che il Kosovo era meglio; era sicuramente meglio della Germania, sicuramente migliore in tutti i sensi. Era un terra inondata dal latte e dal miele. E, perlomeno questa parte sul latte e il miele, era totalmente vera. I miei nonni avevano un centinaio di pecore e vari alveari. Ma sul resto come poteva essere questo posto meglio della Germania? Non vi era in casa neppure l’acqua corrente. Il gabinetto era in giardino. Le mie ziette lavavano tutti i vestiti a mano. Era estate e non potevo andare in piscina con i miei amici. Ero scioccata dalle bugie di mio padre!
La gente, comunque, era simpatica e mi piaceva. Ma mi rendevo conto che venivo trattata in modo speciale. Mi era permesso di dormire nella stanza della nonna; non dovevo fare le pulizie. Anche il mio look mi faceva essere una outsider, perché portavo gli occhiali. Non avevano mai visto un bambino con gli occhiali, e parlavano di me come se avessi una forte disabilità; commiseravano mia madre per avere avuto questa figlia difficile da sposare. Tutti i miei cugini teenager già lavoravano alla loro dote, ma a me, invece, mancavano i miei libri. I miei cugini erano capaci di uccidere uccelli con la fionda e prendere serpenti con le mani, ma io stavo per diventare vegetariana.
Mia nonna spesso si metteva a piangere guardandomi e compativa il suo figlio maggiore che era stato obbligato ad andare in “Gyrbet”. Non avevo mai sentito prima questa parola. G-Y-R-B-E-T. Per il modo in cui mia nonna la pronunciava mi produceva ansia. Mio padre viveva nella magnifica Germania! Cosa mi stavano nascondendo? Cos’era questa “Gyrbet”?
A quel tempo, naturalmente, non avevo ancora capito che quella Gyrbet era proprio la Germania! Ho impiegato anni per scoprire che “Gyrbet” è una parola turca che indica una terra strana o straniera. Per me in ogni caso, a dieci anni, l’unica terra straniera che conoscevo era il Kosovo.
Un balzo in avanti di vent’anni. Sono a Theth, Alpi albanesi. Abbiamo fatto una lunga camminata e siamo esausti e la mia amica inglese è arrabbiata perché alloggiamo nell’unica casa di Theth senza acqua corrente.
Io invece mi godo appieno questo stile di vita. Il proprietario della casa ci serve pesce fresco e prende delle birre dal torrente (l’acqua gelida funge da refrigeratore). Io, turista kosovara, gli piaccio molto, tanto che condividono con noi anche il loro prezioso yogurt di capra. Lo assaggiamo e facciamo una faccia strana: è troppo aspro, abbiamo bisogno di miele per mangiarlo.
Per fortuna gli albanesi non prestano troppa attenzione a noi, visto che hanno ospiti di famiglia. Il padrone è di buon umore perché il nipote sta venendo a far loro visita da Bruxelles. Il ragazzo indossa una bellissima giacca in pelle e delle scarpe da ginnastica molto trendy. Sembra totalmente fuori luogo. Vedo dai suoi occhi che è in imbarazzo. Il nonno prende la sua qifteli [tradizionale strumento a corda, ndt]. La mia amica è curiosa e mi chiede di tradurle cosa l’anziano sta dicendo al nipote.. e lo faccio: “Adesso ti canto la canzone di questo torrente. Il torrente Shala. Te la canto in modo che tu non dimentichi mai da dove vieni”. Ho iniziato a piangere.
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