Noi diversi
Una scrittura che rivela la frequentazione di Proust e di Nabokov, un libro noir insolito, che ci accompagna a scoprire i destini di Vladimir e Vanja. Una recensione di "Noi diversi", romanzo dello scrittore serbo Veselin Marković
Non finiremo mai di essere grati a quei traduttori ed editori che con il loro lavoro contribuiscono a far conoscere autori e libri che altrimenti resterebbero confinati nelle loro terre, magari vicine da un punto di vista della distanza, ma culturalmente e, soprattutto, letterariamente lontane da noi. Come nel caso dei Balcani e dei paesi che oggi, come ieri, li compongono. Tra questi, la Serbia. E, nello specifico, che mi ha spinto a questa premessa, tra i traduttori, metto Anita Vuco, una spalatina che vive da ventotto anni in Italia, nei pressi di Roma, dove si è laureata alla Sapienza in lingue e letterature straniere, dove ha conseguito un dottorato in filologia e letterature comparate dell’Europa centro-orientale e che, pur essendo croata è anche membro dell’Associazione dei traduttori editoriali della Serbia. Così come, a spingermi a questa premessa, è anche una casa editrice come la Voland, che, con altre poche, da anni si dedica a far conoscere presso il pubblico italiano gli scrittori e le letterature di quel mondo (e più in generale di quello dell’est europeo, ma, intanto, mi fermerei ai Balcani, più negletti di altre terre).
L’occasione è data dalla pubblicazione del romanzo “Noi diversi” del serbo Veselin Marković, un libro molto bello, intenso, ricco di pagine che nelle loro righe descrivono paesaggi, animi, conflitti interiori, rapporti umani, che hanno richiesto anni di lavoro per la scrittura e tempi lunghi anche per quanto riguarda la traduzione, date le difficoltà incontrate non nella lingua bensì nella giusta resa della profondità dei sentimenti che il romanzo descrive ed esprime nella sua prosa originale. Il risultato a cui si è giunti è stato brillante, e questo è stato possibile anche grazie a una stretta collaborazione con la casa editrice che può contare ovviamente su una guida eccezionale come la sua fondatrice Daniela Di Sora.
“Il lavoro su quel libro è stato molto lungo, a tratti mi sembra inverosimile che sia finito. Ho puntato su Marković confidando nel fatto che fosse un autore che potesse piacere a qualsiasi pubblico, uno dei rari, se non l’unico, che non parli di guerra immaginando pure che un lettore ‘straniero’ non se lo aspetti”, mi ha detto Anita Vuco in un colloquio sul libro, non a caso aggiungendo significativamente: “Anche la redazione è stata di un enorme supporto, il lavoro di revisione è quasi un romanzo a sé, tra tutte quelle "stranezze" che volevo venissero preservate, senza però ostacolare la comprensione e la lettura del testo. Direi che è stato il lavoro che ha fatto di me la "traduttrice", per quanto nessun testo è mai semplice, e che mi ha fatto anche capire quanto revisore-traduttore siano un organismo unico, in simbiosi quasi, una specie di mia coscienza di cui mi devo fidare. Sta al traduttore osare, spingersi ai limiti convenzionali di una lingua, e al revisore riprenderlo solo se quel limite davvero porta alla caduta, ma non prima, rendendolo cosciente di quale sia l’orlo.”
Ma veniamo al libro.
“Noi diversi” racconta, a capitoli alternati, la storia di due giovani, un ragazzo, Vladimir, detto Vlada, e Valentina, chiamata Vanja, entrambi colti, nel corso della narrazione, in anni diversi e lontani, da quando bambini e ragazzi scoprono una loro diversità rispetto agli altri. I due, pur vivendo nella stessa città, s’incontrano per caso, anni dopo, quando Vladimir, per la sua tesi di dottorato in matematica mette sul giornale un annuncio con il quale invita le persone che nella loro vita sono incappati in un evento unico e straordinario a raccontaglielo. Tra le settanta persone che gli si presentano compare anche Vanja la quale è affetta da una malattia della quale sono portatrici una persona ogni due milioni. Vanja, infatti, per una questione legata al metabolismo della bilirubina ha la pelle gialla, compreso il fondo degli occhi, apparendo pertanto come malata permanentemente di itterizia o di chissà quale infezione. Un evento tanto raro, la sua malattia, quanto a rischio di morte sicura, prorogabile solo attraverso cure che puntano a bagni di luce azzurra trisettimanali che le consentano una longevità meno precaria.
Da parte sua, invece, Vladimir ha imboccato la strada di quella tesi di dottorato in realtà per individuare una persona la cui testimonianza della morte accidentale della cugina Ana lo liberi dalla sorda accusa, che gli ha creato un estremo senso di colpa, che lo vuole responsabile di quella morte, tanto da spingere gli zii, genitori di Ana, a rompere i rapporti con la propria famiglia. Più precisamente: Ana e Petar, fratello di Vladimir, sono voluti andare a pattinare sul lago ghiacciato davanti casa, trascinando con sé, appunto, il più piccolo Vladimir per non lasciarlo solo a casa. Ma capita che mentre Petar si nasconde dietro un isolotto del lago, Ana e Vladimir si trovino a pattinare in un tratto della superficie dove il ghiaccio improvvisamente si rompe. In quel mentre arriva un uomo che riesce a salvare lui, ma non Ana, che affoga assiderata col peso dei vestiti nell’acqua gelida. Il misterioso salvatore di Vladimir, subito dopo però, improvvisamente sparisce, lasciando in quanti accorreranno dopo, compreso Petar, l’idea che Ana sia morta per salvare Vladimir e che lui non abbia poi fatto niente per tirarla in salvo. Una versione del tutto non vera.
Su questa ricerca, il rinvangare quei momenti, le atmosfere di un tempo, i ricordi belli prima della tragedia e quelle tristi e dolorosi del dopo, la rottura dei rapporti in famiglia, con gli zii, ma anche con la madre e il fratello, l’isolamento di quest’ultimo, la grande solitudine, anche nell’ambito universitario, in cui è immersa, a sua volta, la vita di Vladimir, l’accanirsi sui dettagli dei momenti durante i quali Ana passava dalla vita alla morte, il senso di impotenza, il mistero dell’uomo apparso e comparso, scandiscono magistralmente i capitoli che riguardano Vladimir. Mentre quelli di Vanja, che ha trovato un posto di archivista nella polizia, riguardano le indagini relative a un lontano delitto di tredici anni prima, sul quale lei, arbitrariamente e all’oscuro dei suoi superiori, torna a indagare per un caso del tutto occasionale: l’essere andata a letto con il figlio del presunto colpevole del delitto che le confessa una verità del tutto diversa da quella che lui, al momento del delitto, ha raccontato alla polizia, così inchiodando il padre alla colpa di un reato – l’omicidio della madre – che in realtà lui non ha commesso (ma il padre era odiato perché alcolizzato e solitamente violento).
L’intreccio tra le storie di Vladimir e Vanja correranno parallele, per finire poi, nelle ultime pagine, ad avere un loro punto di contatto che confermerà la tesi del destino, o del caso, che aveva dato il via, all’inizio, con il loro incontro, al romanzo. Il quale, anche se inevitabilmente un noir, è anche modello di grande letteratura, affidato com’è a una scrittura di alto profilo, che testimonia la frequentazione, da parte dell’autore serbo, di Proust e di Nabokov, dei quali è studioso e traduttore.
Una storia giocata tutta più sulla sedimentazione che l’essere diversi ha causato nella vita dei suoi protagonisti piuttosto che, come ci aspetteremmo in un noir tradizionale, sulla scoperta di un colpevole.
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