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Nikola Kovačević, dalla parte dei rifugiati

Nikola Kovačević, avvocato per i diritti umani di Belgrado, è il vincitore per l’Europa del “Premio Nansen 2021”, il prestigioso riconoscimento per “l’eccellente servizio offerto alla causa dei rifugiati”, istituito dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. È la prima volta in assoluto per un rappresentante dei Balcani occidentali

04/11/2021, Nicola Dotto - Belgrado

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Nikola Kovačević, 32 anni avvocato di Belgrado, ricorda ancora chiaramente la sua prima visita in un centro profughi in Serbia nel 2012 e l’incontro con la famiglia iraniana che gli ha cambiato la vita: “Se riesci a instaurare un legame personale con delle persone che hanno perso tutto ma che hanno voglia di parlare… o riesci a scambiare con loro qualcosa, che sia energia o semplice gratitudine, ecco questo senso di umanità è una sensazione incredibile”.

Da allora Nikola Kovačević lavora giorno e notte per proteggere e aiutare i rifugiati e si è assunto le difese di quasi il 30% dei richiedenti asilo a cui è stata concessa protezione in Serbia. Ciò che distingue Nikola in modo netto dai suoi colleghi è che le storie di vita che è capace di ascoltare vengono messe su carta e presentate davanti ai tribunali internazionali; ad oggi è infatti l’avvocato serbo che ha portato il maggior numero di cause giudiziarie nelle aule della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.

Nella motivazione della prestigiosa onorificenza, che dal 1954, anno della sua istituzione, è stata assegnata per la prima volta a un rappresentante dei Balcani occidentali, si afferma che il lavoro da lui svolto ha contribuito a miglioramenti significativi nel sistema di asilo in Serbia, compreso l’aumento del numero di rifugiati a cui questo diritto è stato concesso; Nikola ha aiutato molti richiedenti asilo, fornendo loro assistenza legale e aiutandoli a trovare riparo e lavoro, nonché l’accesso all’istruzione e a cure mediche.

Alla consegna del premio Kovačević ha dichiarato che è un grande onore, oltre a una grande responsabilità, ricevere il “Nansen Refugee Award” , promettendo che farà del suo meglio per continuare nella sua missione, poiché sebbene siano stati compiuti progressi significativi nello sviluppo del sistema di asilo in Serbia (alcuni rifugiati si sono iscritti a diverse facoltà o hanno trovato lavoro) molto resta ancora da fare.

Francesca Bonelli , rappresentante “UNHCR” in Serbia, dal canto suo ha confermato che “il lavoro di Nikola ha contribuito a importanti miglioramenti nella procedura di asilo in Serbia, compreso un aumento del numero di rifugiati a cui è stata concessa la protezione internazionale". Bonelli si è poi augurata che "la sua devozione alla causa dei rifugiati in Serbia sia di ispirazione a tutti coloro, in particolare ai giovani, che sono pronti a fare il possibile per fornire un sostegno a questi sfortunati".

La Convenzione di Ginevra del 1951

In un’intervista rilasciata all’emittente “Radio Free Europe”, l’avvocato serbo ha ricordato che sebbene ogni stato abbia il diritto di controllare i propri confini, in base al diritto internazionale deve garantire ai rifugiati l’accesso alla protezione. Secondo lui questo spesso non avviene e molti dei suoi clienti sono stati esposti a violenze, respingimenti al confine o a espulsioni collettive. “Sono stati mandati da un paese a un altro senza alcuna procedura legale, senza considerare le loro circostanze individuali e senza che nessuno si chiedesse cosa sarebbe potuto accadere loro – ha sottolineato – Di pari passo con la crescita del populismo e della xenofobia, in Serbia possiamo assistere ogni giorno al respingimento di persone che volevano attraversare il confine. C’è spesso violenza e varie altre cose che sono sbagliate e non c’è bisogno di essere un avvocato per capirle. Chiunque abbia lasciato il proprio paese di origine per paura di persecuzioni, subendo gravi ingiustizie e violenze è per definizione un rifugiato. Ogni paese europeo è firmatario della Convenzione relativa allo Status dei Rifugiati del 1951, la quale obbliga ad assicurare ad ogni essere umano protezione, un trattamento dignitoso sia alla frontiera che all’interno del territorio, e ricevuta la protezione internazionale, delle condizioni adeguate per integrarsi nella vita sociale, culturale, economica del paese in cui si trova. Questo è un diritto di tutti, non lo si fa per pietà verso nessuno. La Convenzione è nata dopo il periodo più buio della storia del nostro continente. Ognuno di noi potrà trovarsi in una situazione in cui un giorno dovrà lasciare la propria casa, e non per scelta. Ecco perché è necessario proteggerla”.

La situazione migratoria in Serbia

Nikola Kovačević afferma che negli ultimi mesi in Serbia si sono fermate tra le quattro e le cinquemila persone e che la stragrande maggioranza di loro non vede la Serbia come un paese di destinazione, anche se il numero di chi vorrebbe fermarsi sta gradualmente crescendo, per diversi motivi. Uno di questi è molto spesso che “non ne possono più, non hanno più soldi, sono stanchi, impauriti e disillusi. Il numero delle persone a cui è stato concesso l’asilo in Serbia non è più trascurabile, credo siano poco più di 200. Alcuni di loro hanno iniziato ad iscriversi alle università, o sono alla ricerca di lavoro. Ho avuto l’opportunità di incontrare persone fantastiche durante tutti questi anni, ingegneri, avvocati, ragazzi che parlavano sette, otto lingue e molti di loro avrebbero potuto benissimo contribuire in modo positivo alla nostra società”.

Negli ultimi anni nel paese balcanico vengono inoltre rilasciati circa 300, 400 permessi di lavoro per richiedenti asilo o persone a cui è stato concesso l’asilo. Le professioni in cui lavorano queste persone sono diverse, benché una buona parte sia impiegata nel campo della traduzione per organizzazioni internazionali o come mediatore culturale. Ci sono anche varie aziende che prevedono dei programmi inclusivi per loro, una novità per la Serbia. Dall’altra parte, ci sono persone con talento per l’arte, la pittura per esempio, e due ragazzi afghani si sono iscritti quest’anno alla Facoltà belgradese di Arti Applicate.

“È ancora un numero esiguo rispetto al numero totale di persone che sono passate da qui”, sottolinea Nikola, “ma non c’erano esempi del genere prima. Se parliamo di opportunità socio-economiche non è facile integrarsi in un’altra società, soprattutto in una in cui non ci sono certo le stesse opportunità di integrazione. 

Kovačević non crede che la società serba sia xenofoba, anche se esiste sempre più una forte retorica anti-immigrazione: “Diversi mantra vengono ripetuti costantemente, per esempio che il calo del tasso di natalità abbia a che fare con le migrazioni; una falsità, le migrazioni non hanno nulla a che fare con il calo del tasso di natalità in una popolazione. Queste migrazioni di cui parliamo oggi sono migrazioni forzate, spostamenti forzati”.

A riguardo del flusso migratorio mondiale, soprattutto dopo la presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan, l’avvocato serbo, pur preoccupato, non crede ci possa essere uno spostamento migratorio uguale a quello epocale del 2015/16: “Le persone non possono lasciare così facilmente l’Afghanistan perché il paese è controllato da bande di talebani, e abbiamo visto tutti le difficoltà durante l’evacuazione degli stranieri”.

Il caso più difficile

Nikola dice che spesso i rapporti con i suoi clienti non finiscono con la chiusura del caso ma continuano anche dopo e sfociano in vere e proprie amicizie. A questo proposito confida che il caso più difficile personalmente per lui è stato quello di Xhevdet Ajaz , un curdo fuggito dal suo paese, dove aveva subito terribili torture, e arrivato dopo varie peripezie in Serbia; l’uomo ricercato e arrestato al confine con la Bosnia, dopo un anno di detenzione nel 2017 su decisione dell’Alta Corte di Šabac e della Corte d’Appello di Novi Sad è stato poi estradato in Turchia. “È stato il momento più difficile della mia carriera”, ricorda l’avvocato, “quando fai tutto quello che hai in potere per un uomo, tranne irrompere in prigione da solo e tirarlo fuori, e questo a volte non è abbastanza, la domanda è che cosa si può fare allora di più?”.

Racconta di aver sognato questo caso per mesi e di aver pianto, pensando di smettere di fare questo lavoro: “Ognuno di noi forse almeno una volta ha superato il limite della ragione; pensavo di poter superare questi problemi da solo, senza l’aiuto di nessuno, poi per fortuna ho trovato uno psicoterapeuta che mi ha aiutato a tornare in ufficio; a volte è importante concedersi del tempo per guarire”.

Il messaggio finale di Nikola Kovačević è rivolto a tutte le persone che considerano migranti e rifugiati un pericolo per le loro società: “Come si sentirebbero se sapessero che le loro mogli e i loro figli sono in piedi davanti a un recinto di filo spinato, dove ci sono degli agenti di polizia di frontiera con bastoni, spray al peperoncino e cani, pronti a picchiarli e rispedirli dove esiste un pericolo, dove non c’è sicurezza?”.

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