Nel tempo perduto di Şule Gürbüz
Non è un eremita, ma in altri tempi avrebbe potuto esserlo. Fa un mestiere fuori dal tempo: ripara gli orologi dei palazzi Ottomani. Si chiama Şule Gürbüz, è l’unica donna al mondo esperta di orologi meccanici ed autrice di due raccolte di racconti che sono dei piccoli gioielli della letteratura turca contemporanea: Zamanın Farkında (Consapevole del tempo, 2011) e Coşkuyla Ölmek, (Morire con entusiasmo 2012)
A soli diciotto anni esordì con il suo primo romanzo, Kambur (Il Gobbo, 1992) pubblicato al primo tentativo dalla rinomata İletişim, casa editrice pure delle sue ultime due opere. Ma, a parte un intermezzo segnato da una raccolta di poesie e un testo per il teatro, per quasi vent’anni Şule Gürbüz è rimasta fuori dalla scena letteraria turca. Ha studiato storia dell’arte a Istanbul e filosofia in Inghilterra. Al suo ritorno è diventata apprendista di Recep Gürgen, ultimo mastro orologiaio dei palazzi imperiali, dal quale nel 2002 ha ottenuto a sua volta il grado di maestro.
Negli anni i due sono riusciti a rimettere in funzione oltre 300 orologi di fattura turca e straniera appartenenti al periodo tra il XVI e XIX secolo. Orologi recuperati per lo più in stato d’abbandono ed esposti successivamente nei musei oggi ospitati dai palazzi di Topkapı e Dolmabahçe. Un percorso che è stato determinante per la scrittura di Gürbüz, che riflette sull’esistenza umana e sul senso del vivere con linguaggio espressivo e ironico, riprendendo e dando forma a diversi motivi della cultura turco-musulmana.
OBC l’ha incontrata nell’atelier del Palazzo Dolmabahçe, dove lavora da quindici anni. In sottofondo musica classica turca, fonte d’ispirazione insostituibile dei suoi scritti.
Cos’è cambiato nella vita delle persone con l’abbandono degli orologi solari utilizzati durante il periodo ottomano e l’introduzione degli orologi alla maniera occidentale?
La vita che presupponeva l’orologio à la turca era un po’ più semplice, più sobria. In questo sistema di misurazione del tempo, rimasto in uso fino al 1924, la giornata iniziava molto presto, con il richiamo del muezzin alla preghiera del mattino (sabah ezanı). Era legata direttamente alla luce del sole, cambiava in base alle stagioni ed era in sintonia coi mutamenti della natura. Il giorno era scandito dalle altre preghiere, quella pomeridiana (öğle ezanı) e quella del secondo pomeriggio (ikindi ezanı). Si rientrava poi a casa per quella della sera (akşam). Naturalmente, siccome ci si alzava molto presto al mattino, si andava anche a dormire presto. Gli antichi ricordano che in passato c’era una preghiera notturna (gece) che si recitava alzandosi dal letto nel cuore della notte, un momento citato anche nel Corano, mentre non c’era quella [attuale ndr] che precede il riposo notturno (yatsı).
Si trattava di uno stile di vita più mistico, più semplice, così come prescrivono le religioni. E’ l’uomo che, contrapponendosi a questo stile di vita, vuole rivestirlo di nuovi strati, perché quella semplicità gli sembra povera. Anche l’islam, se si seguisse il suo reale insegnamento, consiglia di vivere in modo semplice. Ma questa semplicità è difficile da accettare e raramente viene apprezzata. Ovviamente, anche in passato, erano in molti a trovare noioso questo ritmo di vita considerandolo un po’ troppo “da galline” [ride]. Forse non è realistico guardarsi indietro, definendo il passato bello e romantico. Ma, di certo, per chi ama i ritmi di quel mondo scomparso, i tempi andati conservano un fascino tutto speciale.
Cosa ne pensa della definizione che vuole la Turchia come “un ponte tra Occidente e Oriente”?
C’è una tendenza generale nel cercare di stabilire se qualcosa assomigli di più a una cosa oppure all’altra, una domanda spesso inespressa: “sei dei nostri o dei loro?”. La verità è che ognuno è un elemento unico e a sé stante. Allo stesso tempo, nulla può restare completamente separato e indipendente. Personalmente non trovo che la Turchia somigli all’Occidente. Anzi, se si deve per forza fare un paragone, penso che l’Occidente sia ciò con cui abbiamo meno affinità. Il modo in cui cerchiamo di somigliare all’Occidente è sempre poco elaborato, sempre un po’ maldestro. Situazione da cui deriva una grande ironia. La questione della nostra somiglianza con l’Occidente ha causato un certo tormento fin dalla fondazione della Repubblica. Per conto mio non l’ho mai sentita, anche perché non mi sono mai posta il problema di diventare “occidentale”. Si tratta più di un cruccio che riguarda le persone che vorrebbero essere tali. Direi che, allo stesso modo, anche quella parte di società turca che si sente più “orientale” non ha mai avuto questo problema. La questione è un’altra: in tanti non sono più in grado di comprendere le proprie radici, la cultura originaria prodotta in questo paese.
Perché no?
Non ne sono in grado. Anche per quanto riguarda i miei racconti, vedo che i lettori colgono solo una minima parte dei sottili riferimenti e delle ironie riguardanti la terminologia classica turca, o i motivi della tradizione religiosa. Magari vengono recepite altre cose. E’ difficile arrivare a comprendere la musica, l’architettura, la poesia turco-ottomana con un approccio distaccato da storico dell’arte. Perché bisogna pensare a queste arti come ad una tavola imbandita. Sono tutte un insieme. Sarebbe necessario arrivare ad avere dimestichezza e a interiorizzarle, anche se non le si apprezza più di tanto.
I nostri intellettuali hanno difficoltà a vedere le cose in questi termini, perché hanno ricevuto una cultura occidentale. Per quanto riguarda coloro che, invece, conoscono bene le arti della tradizione classica turca, e ce ne sono, bisognerebbe vedere come vanno a interpretare poi certi autori. Faccio un esempio: il ceto conservatore oggi loda lo scrittore Oğuz Atay per le sue critiche al kemalismo, che però costituiscono al massimo il 5% della sua opera. Dopo 50 anni, Atay resta un autore incompreso, con l’unica differenza che oggi, rispetto al passato, lo si nomina molto di più.
Ritornando alla questione Oriente-Occidente, penso che sarebbe più realistico e piacevole se si riuscisse a trasformarlo in qualcosa che si sperimenta, si percepisce, si rappresenta, senza cadere in confusioni terminologiche o farne un’ossessione. Non c’è bisogno di assegnarsi per forza una definizione, dire se si è di qua o di là, o di essere sopraffatti dall’ansia dell’appartenenza. Ma per poterci riuscire c’è bisogno di sapere, di conoscere e anche un po’ di amare.
Lei scrive e parla facendo un ampio uso di termini in turco antico, in contrapposizione alla lingua più moderna utilizzata da buona parte degli scrittori contemporanei. Come ha appreso questa lingua, pur essendo giovane?
Lo devo al mio ambiente, a mia madre, a mia nonna. Quando scrivo, non mi pongo il problema di utilizzare parole più semplici che tutti possono facilmente comprendere, così facendo mi sembrerebbe di sacrificare una parte del significato di ciò che voglio esprimere. Al tempo stesso, ritengo che la lingua abbia anche facoltà taumaturgiche. Sono convinta che, nel momento in cui riesco a descrivere un dolore, questo prenda forma, e prendendo forma non appartiene solo a me stessa. E’ un pensiero che mi tranquillizza. Mi sembra che poter diffondere questo conforto sia un po’ come allungare una coperta, e per permettere a chi ne ha bisogno di coprire la propria nudità.
Tra tutti gli orologi meccanici esposti nei musei, lei ha dichiarato di apprezzare soprattutto quelli costruiti dai maestri mevleviti [mistici dell’Islam seguaci di Mawlānā Jalāl al-Dīn Rūmī, ndr]. Perché?
Perché alla fonte c’è uno stato d’esistenza mistico che io riconosco anche nella condizione di lavoro in cui mi trovo con il mio maestro. Non c’è nessuno che ci chiede di fare quello che facciamo, nessuno che lo comprende. Le condizioni di lavoro sono pesanti. Il lavoro dà un grande piacere, ma va detto che tutte le riparazioni che abbiamo fatto, dal Palazzo di Topkapı agli orologi delle scuole delle minoranze, le abbiamo effettuate sempre senza ricevere alcun compenso. Eppure alla fine non c’è nemmeno qualcuno che ci dica che abbiamo fatto un buon lavoro. Solo un gran silenzio.
Essere in mezzo a tutto questo e continuare nonostante tutto, nonostante il silenzio che ci viene riservato, dà una certa amarezza. Ma anche in passato era così: agli orologiai ottomani che lavoravano per il palazzo, nessuno chiese mai di costruire orologi. Gli ottomani non avevano una tradizione di orologi meccanici, quelli che c’erano venivano dall’estero. Mancavano quindi anche tutti gli strumenti necessari. Eppure si misero a costruirli, utilizzando tutti i mezzi a disposizione e ottenendo alla fine degli oggetti insoliti, ma di altissimo livello. Qui io riconosco una strana testardaggine, che però comprendo bene, e che amo nel profondo. La testardaggine di chi crea qualcosa che nessuno ha richiesto, al solo fine di lasciare quanto realizzato come ‘prova’.
In questo momento, mi trovo nella stessa situazione, una situazione di cui mi nutro e che mi permette di crescere. E’ una sensazione difficile da esprimere, e non cerco nemmeno di farlo. So solo che la trovo dolce, quasi assaporassi una zolletta di zucchero. Sofferenza e gioia al tempo stesso. Le meravigliose opere che hanno lasciato i maestri ottomani erano state abbandonate, e si trovavano in uno stato penoso. Col tempo, le abbiamo sistemate e rimesse in funzione tutte. Sono opere uniche, che non assomigliano a nient’altro, ed esprimono solo il sogno del maestro che le ha costruite. Un unico pezzo costruito dedicandoci una vita, senza avere nessun esempio a cui fare riferimento. Persone rare, che hanno vissuto, tenaci e ruvide come spine, con la forza di resistere al mondo.
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