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Neira, il contrappunto all’orrore

Lukavica, un villaggio della Bosnia settentrionale. Vi vivono molte donne originarie di Srebrenica, che non sono più tornate. Un reportage. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

21/12/2006, Redazione -

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Azra Nuhefendic*

Neira, undici anni, mingherlina, capelli lisci, biondissimi, occhi cerulei, un volto dolce e intelligente. E’ vispa, Neira. Ci guarda ed evidenzia con una smorfia che c’è cattivo odore. Due ragazzi passano silenziosi in mezzo a noialtri, che ce ne stiamo seduti per terra. I suoi fratelli. Due maschi. Se ne contano cinque in tutto, in questo gruppo di quaranta donne. Le madri sole, le vedove di Srebrenica.

I fratelli di Neira, vent’anni a testa, rincasano senza dire una parola dopo un’intera giornata di lavoro nei campi, sulle zolle altrui: puzzano di sudore, di terra, di acqua marcia. Vestiti di stracci, le maniche ancora rimboccate. Alti, nerboruti, i capelli scuri, bruciati dal sole, mesti: tutto il contrario di Neira.

La madre parla mentre tesse la lana di un maglione disfatto. Fa un cenno di capo verso Neira: "E’ lei che avrei lasciato".

A Srebrenica, nel luglio del 1995, ha salutato il marito: lui da una parte, assieme ad altri ottomila uomini bosniaci, nel disperato tentativo di sopravvivere; lei dall’altra, con quattro bambini. I due gemelli legati alla gonna con lo spago, Neira, di appena sei mesi, assicurata al petto con una sciarpa, il figlio maggiore, dodicenne, tenuto per mano. "Se non mi avessero lasciato passare con tutti e quattro, avrei lasciato Neira".

I soldati serbi sbraitano, li strattonano, imprecano. "Porca puttana, chi ti ha fatto fare quattro figli!". D’un tratto uno di loro colpisce in testa col manico del fucile uno dei gemelli. Il bambino cade a terra come una candela. La madre si getta sopra di lui. In questo impeto di disperazione le cade dal petto Neira. Il fratello maggiore la raccoglie e la stringe tra le braccia. Seguono attimi di panico, il tira e molla di questa matassa umana, le urla, le minacce, poi una mano che in un istante secco la estrae tutta intera.

Mentre parla la sua voce è ferma. Non ha lacrime agli occhi, non abbassa lo sguardo. Lo ha già varcato, in effetti, il suo Rubicone. La ascolto con il cuore in gola, mi manca l’aria, soffoco. Ascolto questa donna costretta a fare "la scelta di Sophie".

Destinata a dissolversi nel nulla, oggi Neira è la gioia della famiglia. Di queste cinque persone, tutte invecchiate precocemente, è l’unica che ride, scherza. Neira è il contrappunto all’orrore, alla tragedia che ha travolto la sua famiglia e l’intera Bosnia.

Le vedove di Srebrenica vivono a Lukavica, un villaggio della Bosnia settentrionale. A Srebrenica è impossibile tornare: le loro case sono andate distrutte, e poi là ci vivono i serbi. Dopo dieci anni di continui spostamenti, da un rifugio a un altro, da un centro di accoglienza a un altro, ora alloggiano dentro minuscoli appartamenti voluti dal governo olandese.

All’epoca del genocidio di Srebrenica i soldati olandesi davano man forte al lavoro dei serbi. Li aiutavano a sbrogliare la matassa, a separare le donne dagli uomini. Poi, a cose fatte, brindavano insieme, con lo champagne. Il filmato mostra il comandante olandese Karremans insieme a Ratko Mladic, il generale accusato di crimini contro l’umanità e tuttora uccel di bosco. Bevono e se la ridono, proprio come si fa a lavoro finito.

Le vedove di lavoro non ne hanno. Non hanno nemmeno la terra. Piazzate là come degli UFO dopo un atterraggio forzato. Coltivano un campetto concesso in uso dalla scuola locale: un po’ di patate, di cipolle, di fagioli, due cespi d’insalata. Di tanto in tanto riescono a vendere un ricamo all’uncinetto, o un tappetino stile bosniaco ricavato da una tela ordita con la lana di un maglione disfatto. Al bosco vanno a recuperare un po’ di legna o a raccogliere frutti. E non c’è altro.

La gente del villaggio. Anche loro sono bosniaci, ma non vogliono avere nulla a che spartire con quel gruppetto segnato dalla tragedia, con quelle donne che hanno perso tutti i loro uomini: padri, figli, fratelli, mariti, in media trenta maschi a famiglia.

La gente del villaggio allarga il semicerchio per tenersi alla lontana, per non rischiare il contagio della malasorte. L’unica occasione di contatto con "le vedove" è quando occorrono braccia nude per i lavori stagionali nei campi: 5 euro in cambio di una giornata di lavoro.

"Non domandarmi come faccio. Solo il mio cuore lo sa", dice Nazifa, madre di quattro bambine.

"Non so come faccio". E quale donna sola, con quattro o cinque figli a carico, potrebbe mai saperlo al mondo, mi chiedo io. Figuriamoci in Bosnia, un Paese demolito dalla guerra, il più povero d’Europa, un governo corrotto, una disoccupazione al 60%, un’economia che non si muove se non nella schizofrenia che oggi abbatte intere foreste.

Torno dopo un anno dalle vedove e trovo tutto uguale: sono ancora lì, lasciate a se stesse, alla loro solitudine, isolamento, emarginazione, lontane dall’attenzione dei giornalisti e dai discorsi dei politici, lontane dagli spettacoli in cui si balbettano promesse. "Mai più genocidio"…

Ti accolgono con la generosità di chi ha poco o niente. Portano tutto in tavola, ti incitano di continuo ad assaggiare: assaggia questa pita, dolce la hurmasciza, e questo succo di rose fatto in casa? Ti si siedono vicino e ti guardano con la curiosità dei bambini. Alle domande queste donne forti, coraggiose, rispondono timorose, quasi scusandosi.

Ma nema problema… "Nessun problema", dicono. Sebbene tutto, dentro e intorno a loro, sia un enorme, spaventoso problema. E devi proprio insistere perché ti parlino dell’orrore che hanno vissuto, quattro parole in croce, semplici, senza rabbia né rancore, quasi un sussurro, la voce suadente, gli occhi bassi. E quando poi li rialzano, quegli occhi, e ti fissano dritto, capisci che non hanno più paura, che non si sono arrese. In quegli occhi sbiancati dal pianto non vedi altro che la forza e la fermezza.

Se nei loro discorsi parlasse il risentimento, l’odio o il desiderio di vendetta, se ti confidassero di volersi fare esplodere davanti a una qualche ambasciata, forse sarebbe meno penoso ascoltarle. E invece no.

C’è qualcosa biblico nel loro modo di essere. Materno e sublime. Le donne di Srebrenica emanano ciò che gli artisti cercano di cogliere e di ritrarre da sempre. Qualcosa che, messo in parole, suonerebbe come un: "Sì, è difficile, ma questa è la mia croce, e la porterò avanti finché serve".

"Va bene, nessun problema – dico io, – ma almeno fatemi una lista delle cose urgenti di cui avete bisogno".

Allora, di lì a poco mi porgono un foglietto, un corto elenco. Una lista che descrive nel modo più veritiero possibile la loro condizione. Le cose urgenti sono: "qualcosa" per mal di testa, "qualcosa" per i reni, per il diabete, occhiali da vista, "qualcosa" per l’insonnia, per i nervi, le bende per le gambe, libri di scuola, scarpe da ginnastica numero …"

* Azra Nuhefendic è una giornalista freelance

Alla redazione dell’articolo ha collaborato Patrizia Bevilaqua

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