Narodni Dom, 102 anni dopo si chiude il cerchio
Un edificio sorto con l’intento di dare lustro ad una comunità che era componente importante del tessuto cittadino. Ed è per questo che venne dato alle fiamme nel 1920 da chi voleva dipingere Trieste come una città italianissima. Ora il Narodni dom è tornato proprietà della comunità slovena
A centodue anni di distanza si chiude il cerchio. Gli sloveni di Trieste tornano in possesso del Narodni dom, l’Hotel Balkan, dato alle fiamme dalle squadracce fasciste nel 1920 in quello che fu il preludio della triste stagione del “fascismo di frontiera” e delle violenze fasciste messe in atto in tutta Italia.
Quel rogo segnò una frattura (quasi) insanabile che prima i presidenti di Italia e Slovenia Giorgio Napolitano e Danilo Türk e poi i loro successori Sergio Mattarella e Borut Pahor hanno metaforicamente ricomposto. Adesso lo stabile in via Filzi, costruito nel 1904 e opera dell’architetto Max Fabiani uno dei massimi interpreti dell’architettura mitteleuropea, è tornato di proprietà della minoranza, ovvero più precisamente della fondazione che gestirà il Narodni dom. Alla firma dell’atto di passaggio di proprietà, avvenuta lunedì, ha voluto presenziare lo stesso Capo di stato italiano, mentre quello sloveno non ha mancato di esprimere la sua soddisfazione.
Adesso ci sarà da attendere il trasferimento della Sezione di Studi di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori in quella che sarà la sua nuova sede. Lo stabile verrà liberato entro dieci anni, ma tutti sperano in tempi più rapidi. Poi spetterà alla comunità slovena riempire nuovamente di contenuti il Narodni dom. Sarà una grande sfida per tutti gli sloveni d’Italia, che dovranno fare soprattutto attenzione a non lasciarsi trascinare nel vortice degli egoismi delle loro varie organizzazioni e dalla tradizionale acrimonia tra la componente di centro-sinistra della minoranza e quella di centro-destra.
L’intento, naturalmente, è quello di far tornare l’edificio ai fasti d’un tempo, quando non soltanto riusciva ad autofinanziarsi, grazie a tutta una serie di attività commerciali, dalla caffetteria all’albergo, passando per il ristorante e gli appartamenti in affitto, ma ad essere soprattutto il simbolo degli sloveni e genericamente della presenza slava in città.
Quell’edificio era sorto con il chiaro intento di dare lustro ad una comunità che con la sua colta e raffinata borghesia era diventata una componete importante del tessuto cittadino. Un vero e proprio smacco per chi, dopo l’annessione di Trieste, voleva dipingerla come una città italianissima. Ora il Narodni dom in mano slovena sarà un modo per ridare orgoglio a una parte di Trieste, che dagli anni Venti ha dovuto lottare per mantenere le sue peculiarità nazionali. Una presenza mal tollerata anche dopo la caduta del fascismo, come accadde durante il periodo dell’occupazione militare alleata ed anche successivamente, dove a Trieste fino al fino a metà degli anni Sessanta veniva scrupolosamente applicato il Regio decreto che impediva di assegnare nomi stranieri ai nuovi nati. La cosa colpiva gli italiani che non potevano dare nomi esotici ai loro figli, ma negava soprattutto alla minoranza slovena di chiamare i bambini con nomi del proprio bacino culturale. Come se ciò non bastasse si dovette attendere ancora parecchi decenni per poter avere sulle carte d’identità e sugli altri documenti i nomi e i cognomi scritti correttamente, visto che era negato l’uso delle lettere con segni diacritici (č, š, ž).
Al di là delle norme, però, quello che si respirava in città era un clima terribile, dove negli anni Sessanta, Settanta e persino negli anni Ottanta si poteva venir apostrofati per l’uso dello sloveno in autobus o per le vie cittadine. Poi le cose cominciarono a cambiare, prima lentamente e poi anche repentinamente, anche se proprio recentemente in consiglio comunale s’è scatenata una polemica perché i consiglieri sloveni eletti in quota del Partito Democratico, in apertura di seduta hanno usato sia lo sloveno sia l’italiano per salutare e per dichiarare le loro presenza in aula. In ogni modo nella vita reale le cose sembrano molto più rilassate, tanto che da molti anni tante famiglie italiane scelgono di iscrivere i loro figli nelle scuole della minoranza slovene. Una Trieste che, nonostante tutto, cerca di essere più multiculturale. Proprio ieri è stata inaugurata una statua dedicata a Josef Ressel, il padre dell’elica, che aveva vissuto a Trieste e che proprio lì aveva testato la sua invenzione. Nonostante le sue origini boeme, gli sloveni in città lo considerano come un loro figlio e quella statua viene vista come il riconoscimento da parte delle autorità cittadine dell’essenza plurietnica e mitteleuropea della città.
Intanto anche dall’altra parte del confine un altro prestigioso palazzo nel pieno centro di Capodistria sta per finire nelle mani di un’altra minoranza: quella italiana. Il governo sloveno poche settimane fa ha stanziato i fondi per acquistare Palazzo Tarsia, che diventerà la nuova sede della organizzazione che rappresenta gli italiani di Slovenia. Nessuna correlazione con il passaggio di proprietà del Narodni dom e probabilmente solo una fortuita coincidenza. Sta di fatto che i passi compiuti per la pacificazione e per il superamento dei traumi del passato intrapreso da Slovenia ed Italia stanno portando benefici anche alle minoranze nazionali. Proprio quest’ultime hanno bisogno di rapporti distesi per poter (sopra)vvivere tranquillamente. Ora potrebbero non essere più viste come pericolose potenziali quinte colonne e come una minaccia per l’unità nazionale. Accade in Italia per la più consistente minoranza slovena e accade anche in Slovenia, dove resta solo una piccola reliquia di quella che era stata la presenza italiana prima dell’esodo, che ha spazzato via da Pirano, Isola e Capodistria la stragrande maggioranza della popolazione e praticamente tutta l’élite culturale, politica ed economica degli italiani d’Istria. Forse dopo una stagione contraddistinta da tentativi di italianizzazioni e slovenizzazioni forzate è giunto il momento di guardare al futuro con un nuovo spirito europeo pronto a riconoscere la bellezza della diversità e la natura multiculturale e plurima delle zone di frontiera.
Il Narodni dom
Costruito nel 1904, il Narodni Dom (Casa nazionale) era il centro dell’associazionismo della comunità slovena a Trieste. Il moderno palazzo accoglieva un centro polifunzionale costituito da un albergo (l’Hotel Balkan, nome utilizzato da alcuni per designare l’intero edificio), un teatro, e alcune abitazioni private ed era la sede di numerose organizzazioni culturali, economiche e politiche slovene ed alcune ceche, croate, serbe e slovacche.
Il palazzo costituiva il segno tangibile della presenza slovena in città. Alla vigilia della Prima guerra mondiale più di un quarto della popolazione di Trieste, circa 56 mila persone, era sloveno: una dinamica comunità dalla crescente coscienza nazionale.
Dopo il 1920 il Narodni Dom divenne il simbolo della repressione anti-slovena del periodo tra le due guerre mondiali. Nel corso di tumulti anti-slavi scoppiati a Trieste, il 13 luglio 1920 l’edificio fu distrutto da squadre fasciste che appiccarono il fuoco e impedirono l’intervento dei pompieri. L’intento era quello di eliminare ciò che per loro costituiva un affronto all’italianità della città e incendiare, insieme al palazzo, gli archivi che raccoglievano la memoria della comunità slovena triestina. I responsabili del rogo non furono mai processati, né i proprietari risarciti. Successivamente, l’affermarsi del regime fascista comportò la completa negazione dei diritti e dell’identità delle minoranze e nel 1927 si giunse alla chiusura definitiva di tutte le organizzazioni slovene.
Nel secondo dopoguerra, la comunità slovena ha cercato più volte di tornare in possesso dell’edificio che le era stato espropriato negli anni ’20 e ci è ora riuscita.
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