Nagorno Karabakh: le diramazioni di un conflitto
Rapporti tra Armenia e Azerbaijan, tra Turchia e Armenia, tra secessionisti del Karabakh e Baku, ruolo di Turchia, Ue e Iran. Il conflitto del Nagorno Karabakh è complesso e trovare stabilità per la regione non è semplice
Da più di trent’anni il conflitto per e intorno al Nagorno Karabakh è difficile da affrontare. Nella questione sul controllo della piccola repubblica secessionista armena, de jure parte dell’Azerbaijan, de facto controllata dagli armeni karabakhi e sostenuta – ma non riconosciuta – dall’Armenia rientrano infatti varie tensioni regionali: i rapporti fra Baku e i secessionisti, quelli armeno-azeri, quelli armeno-turchi, e gli interessi regionali di Iran, Turchia e Russia.
Nella corrente fase il conflitto del Karabakh periodicamente si riaccende con episodi di violenza che ricordano quanto il cessate il fuoco del 2020 sia precario, e quanto la soluzione militare sia un’opzione che non è stata ancora esclusa. Eppure per chi vuole conservare un po’ di ottimismo la soluzione del conflitto pare avvicinarsi, attraverso un approccio che ha portato a scorporare i vari focolai di tensione, ognuno dei quali viene trattato singolarmente, con un percorso differente e dedicato.
Tre sono i principali tronconi: i rapporti armeno-turchi, la pace armeno-azera, la questione del Karabakh.
Tre diramazioni di un conflitto
I rapporti armeno-turchi vengono discussi in un tavolo negoziale bilaterale, senza mediatori, attraverso due rappresentanti speciali. Le questioni storiche e politiche sono lasciate fuori (si era tentato di affrontarle attraverso dei protocolli di una quindicina di anni fa firmati da Yerevan e Ankara ma mai ratificati, che avrebbero dovuto istituire anche una commissione turco-armena sul genocidio armeno). Lo scopo degli attuali negoziati è invece di riaprire i confini e normalizzare i rapporti diplomatici e di vicinato. Il prossimo incontro fra i rappresentanti speciali turco e armeno si dovrebbe tenere non in un paese terzo ma, come misura di confidence building, o in Armenia o in Turchia.
In secondo luogo abbiamo la questione armeno-azera, che è quella allo stato attuale militarmente più esplosiva. Si tratta di delimitare e demarcare i confini, aprire le vie di comunicazione, e sanare i drammi umanitari che le guerre hanno lasciato dietro di sé: prigionieri, mine, salme da rimpatriare, fosse comuni da dissotterrare. Il tutto avviene nella totale assenza di partecipazione delle opinioni pubbliche, il cui odio reciproco è cresciuto a dismisura in 30 anni di reciproco isolamento. Questo rende il percorso ingaggiato da Yerevan e Baku estremamente fragile, a tratti grottesco. Così mentre Aliyev, Pashinyan e Erdoğan vengono fotografati a dialogare informalmente a uno stesso tavolo al summit di Praga , immagine inedita, il ministero degli Esteri azerbaijano lamenta attacchi alle sue rappresentanze diplomatiche all’estero e ogni giorno si registrano violazioni del cessate il fuoco.
Infine la questione del Nagorno Karabakh, orfana del proprio formato negoziale. Il Gruppo di Minsk che per 30 anni ha provato a mediare fra posizioni inconciliabili è una delle vittime della guerra di Crimea. I tre co-presidenti, russo, americano e francese, hanno oggi funzioni non condivise e perseguono le direttive sul conflitto non del gruppo, ma del proprio governo. Sulla questione dello status della regione secessionista Pashinyan è stato chiaro: nessuno internazionalmente è disponibile a riconoscere il Karabakh, e l’Armenia ne può difendere gli interessi con mezzi limitati. Pashinyan vorrebbe quindi un intervento diretto della comunità internazionale. Per Aliyev il tema del Karabakh non esiste più: una volta firmata la pace con l’Armenia questa riconoscerà il Karabakh come parte integrale del paese, e i karabakhi o accetteranno la sovranità di Baku o, implicitamente, se ne andranno in Armenia. È chiaro quindi che Baku pretende la smobilitazione dell’esercito karabakhi.
La missione europea
Dei 30 anni precedenti sono rimaste, oltre l’odio, appunto le tre co-presidenze. La Russia continua nel tracciato delle dichiarazioni congiunte, liquidando con scetticismo e aggressività verbale le iniziative non russe. Molto pro-attiva la presidenza statunitense non attraverso l’intervento diretto del Presidente Biden ma per via del Dipartimento di Stato. Un cambio di marcia dopo una presidenza, quella di Trump, che sul Karabakh e diramazioni era stata al traino degli altri co-presidenti senza aver mai dato segno di voler investire nella soluzione del conflitto.
La mediazione statunitense lavora in sinergia con quella europea/francese. La Francia non ha infatti rinunciato al proprio ruolo di co-presidente e in queste settimane ha lavorato alacremente e ha raccolto una proposta nata dai partner europei orientali: far partire una missione di monitoraggio europea fra Armenia e Azerbaijan. Pashinyan è volato a parlarne con Macron e l’ha ottenuta. L’Armenia stremata dalla guerra e con un rapporto di forza rivelatosi altamente deficitario verso l’Azerbaijan, tradita nelle proprie aspettative di intervento russo ripete da due anni che è necessaria una forza di interposizione per tutelare la propria integrità territoriale. L’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva ha criticato la richiesta e anche recentemente con la Russia sono volati stracci per questo, in un periodo che è sicuramente al minimo storico dei rapporti armeno-russi.
La missione europea sarà solo civile e avrà come scopo il monitoraggio del confine tra Armenia e Azerbaijan, per quando ancora non delimitato. Anche se si dislocherà solo sul lato armeno – e non sconfinerà nel territorio azero – dovrà necessariamente coordinarsi con la controparte azera. Il dispiegamento è già in fase di implementazione, con un primo contingente che darà le valutazioni del caso e che è già a Yerevan. Va ricordato che lungo il confine si registrano quotidianamente scambi di colpi d’arma da fuoco anche se non sempre confermati dalle parti, e che la questione delle mine è seria e spinosa. È quindi una missione civile che sta nascendo con grosse sfide e rappresenta un compromesso rispetto ad una missione vera e propria di peace-keeping. Del resto quest’ultima si sarebbe affiancata a quella russa presente in Karabakh, con la quale difficilmente si sarebbe potuta coordinare e in generale la presenza di militari europei sarebbe stata difficilmente conciliabile con la consistente presenza militare russa in Armenia. Inoltre contro la presenza di militari europei si è anche espresso l’Iran.
Una complessità e compresenza di fattori che anche in questa forma rende il quadro molto anomalo, un coacervo di forze che fotografa l’unicità regionale del conflitto.
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