Nagorno Karabakh: il trauma della guerra e le chiavi della nonna
In questo articolo – parte di un progetto che indaga il fenomeno di trauma collettivo attraverso le storie delle persone che hanno vissuto la guerra in Nagorno Karabakh – una donna anziana, costretta a fuggire dalla sua casa tre decenni fa, racconta come quel conflitto ha plasmato la vita della sua famiglia
(Originariamente pubblicato da OC Media , il 27 agosto 2021)
E’ nonna ed ha 94 anni. Porta sempre con sé una borsetta contenente il suo misuratore di pressione, alcuni oggetti essenziali e le chiavi della casa in Nagorno Karabakh, casa che fu costretta ad abbandonare trent’anni fa.
Dopo la riconquista del suo villaggio da parte dell’esercito azero nell’autunno 2020, in rete è stato pubblicato un video che mostra la sua casa. Dal video si evince chiaramente che la casa venne colpita da un missile molti anni fa, durante la prima guerra [del Nagorno Karabakh]. Col tempo un enorme albero è cresciuto tra le mura dell’edificio fatiscente, probabilmente risale allo stesso periodo in cui ebbe inizio la guerra.
Ad oggi nessuno ha osato dire a questa nonna che la sua casa è stata distrutta, per cui continua a portarsi dietro le chiavi ovunque vada, stando sempre attenta a non perderle.
Rimasta vedova da giovane, ha cresciuto i suoi cinque figli da sola, occupandosi della casa e coltivando ortaggi. Avevano un grande orto dove lavorava dalla mattina alla sera, vendendo gli ortaggi raccolti agli armeni che di solito compravano i suoi prodotti all’ingrosso per poi rivenderli nella città vicina. A tutt’oggi è immensamente orgogliosa che tutti e cinque i suoi figli abbiano frequentato l’università.
Ricorda i tempi in cui gli azeri e gli armeni vivevano fianco a fianco, condividendo tutto e spesso intrattenendo stretti rapporti di amicizia. In occasione della circoncisione dei loro figli, gli azeri spesso invitavano un loro stretto amico armeno a partecipare alla cerimonia, chiedendo a quest’ultimo di tenere il bambino durante l’intervento, credendo che le gocce di sangue cadute sulle sue mani avrebbero unito le due famiglie con un legame ancora più forte, un vero e proprio vincolo di parentela.
Fuga a Baku
Alla fine degli anni Ottanta la situazione iniziò a cambiare. Cominciarono ad avvertirsi le prime tensioni e le relazioni tra i due popoli andarono progressivamente peggiorando. Capitava che il villaggio venisse preso di mira con colpi di arma da fuoco, lasciando la donna sconvolta e preoccupata. Sperava però che le tensioni si sarebbero attenuate e che tutto sarebbe tornato come prima. Non si lasciò sopraffare dal pessimismo nemmeno dopo lo scoppio della guerra in Nagorno Karabakh. Solo dopo aver appreso la notizia dei tragici fatti di Khojaly [dove nel 1992 le forze armene, appoggiate dai russi, uccisero oltre 500 civili azeri], la donna decise di andarsene immediatamente con la sua famiglia. Fecero le valige, un solo bagaglio a testa, chiusero a chiave la porta di casa e fuggirono.
La donna racconta che l’Iran aveva aperto le frontiere per permettere agli azeri fuggiti dal Nagorno Karabakh di raggiungere Baku senza incorrere in pericoli. Una delle sue nipoti, all’epoca dei fatti tredicenne, ricorda ancora quel viaggio. Una scena resterà per sempre impressa nella sua memoria: una notte, trovatisi costretti ad attraversare un fiume, i suoi compagni di viaggio cercarono di guadare le acque impetuose, illuminate dal chiaro di luna, tenendo i bagagli alti sopra la testa.
Fuggendo insieme attraverso l’Iran, ottanta membri della sua famiglia riuscirono a raggiungere Baku, dove si sistemarono in un appartamento composto da quattro camere. Nonostante gli spazi ridotti, l’appartamento era l’ultimo dei loro problemi. La sfida maggiore era quella di procurarsi cibo sufficiente e di sopportare gli atteggiamenti ostili della popolazione locale che li accusava di aver lasciato la loro terra agli armeni e di essere venuti a Baku per scroccare.
Al momento dell’arrivo a Baku la nonna aveva 64 anni. Nessuno si aspettava che lei continuasse a lavorare duramente come aveva fatto prima quando, essendo rimasta vedova, si trovò costretta a crescere cinque figli da sola. Una volta giunti a Baku toccava ai suoi figli provvedere alla famiglia. Erano tempi molto difficili: relegati ad una posizione marginale nella società azera, avevano opportunità molto limitate. Dovettero accettare il fatto di aver perso la loro casa e fare i conti con la percezione che la popolazione locale ebbe di loro, considerandoli “fuggiaschi”. Lavoravano allo stremo delle forze, senza nemmeno poter accedere all’assistenza sanitaria in caso di malattia, faticando a sopravvivere, ma ciò che importava era garantire maggiori opportunità e un futuro più luminoso ai propri figli.
Tempi difficili
Con il passare del tempo tutti i figli della protagonista del nostro racconto hanno sviluppato diverse patologie croniche, ciononostante sono riusciti a crearsi una famiglia e a trovare una casa a Baku o nei dintorni. Ospitare la nonna nella propria casa per loro non è solo un dovere, ma innanzitutto un onore, e a volte devono ricorrere a vari trucchi per convincerla a rimanere.
Tuttavia, la nonna non ha mai voluto rimanere definitivamente con uno dei suoi figli. Dopo alcuni mesi trascorsi nella casa di un figlio, si trasferisce dall’altro, e sono ormai trent’anni che vive così. Non ha mai acquistato una nuova casa, né tanto meno ha sviluppato un senso di appartenenza, nonostante le molteplici opzioni che le sono state offerte.
Anche i suoi nipoti sono riusciti a costruirsi una vita dignitosa. Guardando indietro al breve tempo trascorso in Nagorno Karabakh, lo vedono come una risorsa che li ha aiutati a sopravvivere, contribuendo alla loro percezione del mondo e alla costruzione della propria identità. Si sentono ancora legati a quella terra dove sono nati e dove hanno trascorso la loro infanzia.
Raccontando la sua storia, la mia interlocutrice ricorda come, da bambina, aveva aiutato un suo zio a costruire un muro. Passandogli le pietre, lo aveva aiutato a erigere un muro che ancora oggi circonda la loro vecchia casa e l’albero.
Sopraffatti dalla nostalgia per la vita, sicura e confortevole, che vivevano in Nagorno Karabakh, marginalizzati dalla popolazione locale e costretti a fare i conti con innumerevoli difficoltà quotidiane, i membri della famiglia hanno sviluppato vari meccanismi per fronteggiare gli atteggiamenti ostili e umilianti nei loro confronti. Non hanno mai rinunciato alla loro vecchia identità, continuando a percepire se stessi nel contesto della loro vita di una volta, come se non fossero mai stati costretti a fuggire. Lo dimostra l’affermazione di una delle figlie secondo cui “in Karabakh l’istruzione conta molto, per cui abbiamo fatto tutto il possibile per riceverla”. La figlia ricorda di non aver acquistato alcun capo di abbigliamento per anni dopo la fuga dal Nagorno Karabakh. Erano venuti a Baku quando aveva tredici anni, e i primi nuovi abiti – una canottiera e una gonna – li aveva comprati quando si era iscritta all’università. Ancora oggi riesce a descrivere precisamente quegli abiti e ricorda la sensazione provata quando li aveva indossati per la prima volta.
Riabilitazione post traumatica
I pronipoti della protagonista della nostra storia sono cresciuti a Baku. A differenza dei loro genitori, non sentono alcun legame emotivo con il Nagorno Karabakh. Ciononostante, la recente vittoria [dell’Azerbaijan nella guerra del Karabakh] li ha resi felici. Al pari dei loro familiari adulti, sentono che quella vittoria in un certo senso li ha riabilitati. Tutte le sofferenze subite finalmente sembrano avere senso. La loro vita ha acquisito un nuovo significato: finalmente si sentono uguali agli altri e la loro posizione sociale e l’umiliazione subita non rappresentano più un fardello così pesante.
Al momento non intendono ritornare in Nagorno Karabakh, sperando che la vita a Baku diventi più facile. Uno dei nipoti della vecchia signora, un giovane studente anticonformista, scherza dicendo che se il Nagorno Karabakh dovesse legalizzare la cannabis, vi si trasferirebbe immediatamente insieme ai suoi amici.
Sono felici per la vittoria dell’Azerbaijan, si sentono orgogliosi, ma allo stesso tempo piangono le vittime della guerra, sia azere che armene, senza però poter ammetterlo pubblicamente. Pur essendo consapevoli che le due comunità condividono le stesse sofferenze, si rendono conto del fatto che nessuno osa parlarne.
La vecchia signora continua a sperare che un giorno potrà tornare nella casa dove ha dato alla luce e cresciuto i suoi figli e dove ha lavorato tenacemente per garantire loro una vita migliore. È lì che vuole trascorrere gli ultimi giorni della sua vita lunga e difficile, ma assai felice. Nel frattempo, porta sempre con sé le chiavi della sua casa e non si fida a lasciarle a nessuno.
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