Nagorno-Karabakh: il tempo congelato
Gli scontri tra Azerbaijan e Armenia aumentano di intensità, non solo sulla frontiera del Karabakh. Reportage dalla linea del fronte
A cent’anni dalla prima guerra mondiale, nell’indifferenza di tutti, in Europa si continua morire nelle trincee. Giovani in piedi con in braccio un fucile – spesso un vecchio Kalashnikov – in attesa di un possibile attacco. Settimane, a volte mesi, senza che si spari un colpo, poi all’improvviso arriva una granata, un razzo o un colpo di mortaio. Spesso succede di notte.
Barattoli vuoti di latta, presi dal rancio dei soldati, corrono lungo la linea di contatto insieme al filo spinato per segnalare col rumore un’eventuale incursione. Un pastore tedesco, che vedo legato a una catena in una trincea, serve per lo stesso motivo. E poi le mine, frequenti lungo l’interminabile frontiera, segnalate da una “M” scritta in grande per evitare che le reclute inesperte finiscano vittime di questi ordigni infami.
Una guerra che è soprattutto di giovani e l’improvvisazione è tanta: dopo pochi mesi di addestramento si è spediti dritti in prima linea. Una guerra di logoramento, fisico, psicologico e umano. Si deve resistere al freddo: a queste latitudini l’inverno è lungo, e si scende tranquillamente a venti gradi sotto zero. Si deve resistere alla fatica e alla stanchezza: l’addestramento, le marce senza fine, anche nel fango e nella neve, e poi ore e ore passate in piedi, schierati o di vedetta. Si deve resistere alla tensione, alla solitudine, e al nonnismo dei commilitoni e degli ufficiali.
Questa è la guerra del Nagorno-Karabakh, per come l’ho vista due settimane fa in una base di reclute nei pressi di Martuni, e sulla prima linea del fronte a pochi chilometri da lì.
Uno stallo mortale
Un conflitto, questo, che vede opporsi da più di vent’anni Azerbaijan e Armenia per il controllo di questa piccola regione e di altri sette distretti, zone cuscinetto strategiche. Per Baku, si tratta di una vera e propria occupazione: questa repubblica de facto non è riconosciuta da nessuno stato al mondo. Per Yerevan e gli abitanti di questa regione contesa, che gli armeni chiamano Artsakh, si tratterebbe invece di una liberazione lungamente attesa: un torto storico operato da Stalin negli anni venti quando, occupandosi di definire le nazionalità della nascente Unione Sovietica, diede questo lembo di terra – a larga maggioranza armena – all’Azerbaijan.
Molti anni dopo, in concomitanza con la dissoluzione dell’URSS, esplose un conflitto fra le due repubbliche sovietiche, che nel frattempo procedevano verso l’indipendenza. Una guerra costata 30.000 morti da entrambe le parti e circa un milione di profughi. Un conflitto che non ha ancora trovato soluzione, salvo un cessate il fuoco firmato nel 1994 e continuamente violato, spesso su base giornaliera. Uno stallo mortale, che produce mese dopo mese nuove vittime, povertà, disuguaglianze ed ingiustizie nei rispettivi paesi.
Escalation
Anche in questi giorni, a più di vent’anni da quella firma, si muore a causa del Karabakh. Dopo un’estate con numerose vittime, ci sono stati nuovi caduti – in una spirale senza fine – fra il 24 e il 26 settembre, e poi di nuovo nella notte fra il 27 e il 28 settembre. In molti casi si è trattato di giovanissimi. Il tutto a conclusione di un anno, iniziato con l’estate 2014, che molti definiscono il peggiore dal 1994 ad oggi.
All’origine della recente escalation vi è stata l’uccisione di tre donne nella provincia del Tavush, nel nord dell’Armenia, dove era stata evacuata una scuola solo un mese fa, finita nel mirino dell’artiglieria azera. Sona Revazyan, di 41 anni e la 94enne Shushan Asatryan hanno perso la vita nel paese frontaliero di Bertavan, mentre l’83enne Paytsar Aghajanyan nel villaggio di Paravakar. Secondo fonti ufficiali armene, questi attacchi sarebbero stati condotti con l’ausilio di mortai di grosso calibro. Episodi, questi, che hanno destato rabbia e apprensione nella società armena, e non sono mancati da parte dell’esercito e del governo di Yerevan e del Karabakh proclami di rappresaglia. Queste morti hanno seguito il ferimento di una donna azera nel villaggio di Gazakh, avvenuto il giorno precedente.
Nello stesso giorno, il 24 settembre, è stato ucciso il soldato azero Elshan Mammadov e quattro soldati armeni. Norayr Khachatryan, Robert Mkrtchyan, Harut Hakobyan e Karen Shahinyan, di età compresa tra i 18 e 20 anni, hanno perso la vita in seguito al lancio di razzi avvenuto nella zona di contatto fra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan.
Ultima in ordine cronologico, nella notte tra 27-28, la rappresaglia armena che è costata la vita a tre soldati azeri: Rauf Valiyev, Neman Ahmadzade e Zohrab Mustafazade, morti in punti diversi della frontiera, come riportato dalla stampa e confermato dal ministero della Difesa di Baku.
Preoccupazione
Sono tanti i fattori che destano preoccupazione emersi negli ultimi mesi, in quello che – come scrive l’analista politico Richard Giragosian – è sempre più difficile definire un conflitto congelato. Oltre a episodi di portata inedita – come l’abbattimento di un elicottero armeno a novembre – si è registrato un incremento dell’intensità degli scontri. Scontri che riguardano ormai sempre più spesso la frontiera fra Azerbaijan e Armenia, e non più solo quella con il Karabakh, come in passato. Solo a gennaio, nel periodo più tranquillo dell’anno a causa del clima rigido, ci sono stati più di dieci morti.
E così giorno dopo giorno – lontano dagli occhi dell’Europa, che guarda altrove – si continua a morire in Nagorno-Karabakh. Il tempo – questo sì, congelato – come in una maledizione.
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