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Mostra del cinema di Venezia, Leone d’oro a Yorgos Lanthimos

Alla 80° Mostra del cinema di Venezia per la prima volta vince un regista ellenico. Quest’anno il Leone d’oro è andato “Poor Things! – Povere creature!” di Yorgos Lanthimos. Come miglior cortometraggio è stato premiato “A Short Trip” dell’albanese Erenik Beqiri

28/09/2023, Nicola Falcinella -

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Il Leone d’oro dell’80° Mostra del cinema di Venezia è andato a “Poor Things! – Povere creature!” (dal romanzo di Alasdair Gray e sceneggiato da Tony McNamara che aveva già scritto “La favorita”) firmato dal greco Yorgos Lanthimos con Emma Stone, Mark Ruffalo e Willem Dafoe.

È la prima vittoria per un regista ellenico, ma la pellicola è di produzione britannica / statunitense e irlandese. Il cinema balcanico, assente dal concorso per il Leone (da notare come le opere di due grandi nomi come i romeni Cristi Puiu con “MMXX” e Radu Jude con “Don Not Expect Too Much Of The End Of The World” siano andati rispettivamente ai Festival di San Sebastian e Locarno), si è comunque distinto nelle diverse sezioni della Mostra con opere di diverse nazionalità.

Come miglior cortometraggio è stato premiato “A Short Trip” dell’albanese Erenik Beqiri, produzione francese che è stata anche nominata per gli EFA, gli Oscar europei che saranno consegnati in dicembre. Una storia di emigrazione che vede come protagonista Luana Bajrami, attrice e regista kosovara che ha anche presentato in Orizzonti Extra il suo “Bota jone – Phantom Youth”. Il secondo lungometraggio di Bajrami, che aveva esordito nel 2021 con “Luaneshat e kodrës – The Hill where Lionesses Roar”, presentato a Cannes nella sezione Quinzaine des realisateurs, è significativamente ambientato nel 2007, mentre persistono scontri tra albanesi e serbi e nei telegiornali si parla dell’indipendenza.
Volta e Zoe sono due cugine che vivono in un villaggio, con i genitori di Zoe dopo che il padre di Volta è morto in guerra. Le due vogliono andare a Pristina a studiare e, senza dire niente a nessuno, partono con l’auto che era del defunto verso la capitale e si iscrivono all’università, ad economia.

Vanno a vivere al convitto universitario e conoscono Flora, una ragazza più grande che studia giurisprudenza e le introduce ad altri studenti. In università mancano i professori, saltano lezioni in continuazione, alcuni corsi (come quelli di inglese che vorrebbe frequentare Zoe, aspirante interprete) non ci sono e gli studenti protestano, definendosi “la generazione fantasma”, da cui il titolo. “Phantom Youth” si inserisce a pieno titolo nel filone del giovane cinema kosovaro che è emerso con forza negli ultimi anni, ma tende già a ripeterne temi e modi. Al centro della pellicola tornano cose come: il villaggio, la voglia di fuggire, le tradizioni, le convenzioni e il peso sociale, le donne, l’emancipazione.

Le due ragazze non vogliono sposarsi giovani come sembra si debba fare al villaggio e sentono forte il peso del giudizio altrui, questo nel villaggio ma anche a Pristina. C’è l’eredità della recente guerra e la mancanza di futuro: i giovani ce l’hanno un po’ con tutti, sono convinti che anche la laurea non serva per trovare lavoro. È soprattutto un film sul cercare la propria strada, anche un po’ schematico nel parallelo tra le due ragazze, che piano piano si allontanano. Per certe ingenuità c’è l’attenuante che la regista, pur con una carriera già significativa, ha solo 22 anni. Il film ha il suo punto di forza in una sua energia e nella forza con cui dice le cose, soprattutto con le due ragazze, ben interpretate da Aurora Ferati e Albina Krasniqi.

Vincitore del 17° Queer Lion, il premio parallelo al miglior film a tematiche omosessuali, è “Housekeeping for Beginners – Domakinstvo za pocetnici” di Goran Stolevski, collocato nella sezione parallela Orizzonti. Il film, con protagoniste le attrici romene Anamaria Marinca e Alina Serban, è anche candidato all’Oscar in rappresentanza della Macedonia del nord. Terzo lungometraggio del regista australiano d’origine macedone dopo “You Won’t Be Alone” e “Of An Age”, è una coproduzione Macedonia, Polonia, Kosovo, Serbia e Croazia.

È la storia di una famiglia rom allargata a Skopje che non può essere che bizzarra e fracassona. Suada ha un tumore al pancreas, è accompagnata alle visite dall’assistente sociale Dita, con la quale ha una duratura relazione. Suada è sposata con Toni, che è gay e spesso si porta a casa uomini: stavolta si è portato a casa il giovane Ali, che vive a Šutka, si ferma da loro e lega con le figlie della coppia. Alla morte di Suada, Dita si deciderà a prendere il suo posto in casa e sposare Toni, ma è un matrimonio non consumato, di copertura e litigioso. Una situazione di cui sono parte le figlie: la piccola Mia, che commenta argutamente a modo suo, e la grande Vanesa che si ribellerà.

È un film corale, in gran parte d’interni, con inizio faticoso, poi sale di quota ma senza entusiasmare, restando un po’ dispersivo, all’insegna di un vitalismo un po’ confusionario. E resta il dubbio se l’omosessualità diventi ancora più pittoresca o più socialmente accettabile.

Uno dei discorsi che ritorna è l’avere un passaporto UE e poter viaggiare senza limiti. Šutka, la città a pochi chilometri da Skopje considerata capitale dei rom e raccontata qualche anno fa nel documentario “Knjiga Rekorda Šutke” del serbo Aleksandar Manić, è vista come un paradiso di libertà. Del resto le piccole e grandi discriminazioni contro i rom sono una delle questioni fondamentali: all’inizio Suada si arrabbia perché negli ospedali e negli ambulatori non sono assistiti come “i bianchi”.

Sempre in Orizzonti erano collocati due film turchi. Il migliore è “Tereddut cizgisi – Hesitation Wound” di Selman Nacar, più cinematografico, più efficace, meno sentimentale, meno spiegato di “Yurt – Dormitory” di Nehir Tuna. Siamo nella città di Usak, nell’Anatolia occidentale e la vediamo dall’alto nella scena di apertura, seguendo un furgone che esce dal carcere per dirigersi in tribunale. L’avvocata Canan ha trascorso la notte in ospedale al capezzale della madre in coma. La donna, tornata a casa dopo un master in Inghilterra e un periodo a Istanbul, non vuole arrendersi alla fine della madre. Se la sorella Belgin, che ha sempre assistito la madre, sarebbe propensa all’espianto degli organi per la donazione, Canan nutre ancora delle riserve. Intanto incombe il lavoro, la difesa dell’imputato Musa, accusato dell’omicidio del padrone della fabbrica in cui aveva lavorato. È l’udienza decisiva e la protagonista ha preparato la prova risolutrice, ma il testimone chiave Cemal è in ritardo. Intanto si guarda ai danni causati da una tempesta nei giorni precedenti, tanto che c’è una perdita dal soffitto del tribunale.

Secondo lungometraggio di Nacar dopo “Between Two Dawns” (2021), vincitore del Torino Film Festival 2021, “Hesitation Wound” fa riferimento nel titolo alle ferite risultato dei tentativi di suicidio di Musa in carcere. Un film asciutto, di dilemmi morali, girato con la macchina a mano che dà la sensazione di essere al limite della regolarità. Il regista mette sul tavolo tanti elementi e temi, ma li sa portare tutti alla fine senza dilungarsi e mettendo lo stile al servizio di quel che vuole dire.

È ambientato nella regione di Marmara, “Yurt – Dormitory” di Nehir Tuna che inizia non a caso nell’autunno 1996. Da pochi mesi il movimento musulmano estremista degli aczmendi, che rifiutava l’impianto laico dello Stato kemalista, era venuto pubblicamente alla ribalta proclamando l’intenzione di introdurre la sharia. Il gruppo, in crescita già da qualche anno, possedeva strutture dove istruiva i ragazzi secondo le proprie convinzioni. È in questa situazione che l’adolescente Ahmet inizia l’anno scolastico: frequenta una scuola pubblica e alloggia in un dormitorio religioso sovvenzionato dal ricco padre, che appartiene alla “congregazione”. Il ragazzo vive questa sconnessione tra i due mondi, preso in giro a scuola e bullizzato nel dormitorio (gli rubano le scarpe e altri oggetti), estraniandosi. Il film segue il ragazzo con uno sviluppo dei personaggi e delle situazioni un po’ a strappi e contraddittorio, tirato troppo per le lunghe. Il regista è un po’ manicheo nel contrapporre istituzione laica e religiosa e la butta un po’ troppo sul sentimentale. La pellicola è in gran parte in bianco e nero, ma passa al colore senza una vera ragione (se non a sottolineare inutilmente la voglia di libertà) nell’ultima mezz’ora, sulle note di “Ma che freddo fa” di Patti Pravo.

Interessante è anche il thriller politico sportivo “Tatami”, curiosa coregia dell’israeliano Guy Nattiv (“Golda” di prossima uscita, ritratto di Golda Meir interpretata da Helen Mirren) e dell’attrice iraniana Zar Amir Ebrahimi. Una vicenda ambientata in Georgia, a Tbilisi, durante i Campionati mondiali di judo. La forte judoka persiana è una delle favorite della categoria 60 kg, è in gran forma e inizia i turni preliminari della competizione con grande determinazione, battendo nettamente le avversarie. Più procede nel torneo e più aumentano le probabilità che l’atleta incontri la concorrente israeliana Shani. Per evitare l’eventualità, arrivano da Teheran pressioni sempre più forti (e sempre più dall’alto) sulla sua allenatrice Maryam con minacce verso le famiglie. Un crescendo di eventi, situazioni e tensione, reso in un bianco e nero che aumenta la drammaticità. L’ennesima denuncia del repressivo e illiberale regime iraniano da parte del mondo del cinema.

Tra i restauri di Venezia Classici, uno dei capolavori del cinema bosniaco, ovvero “Slike iz života udarnika – Life of a Shock Force Worker” (1972) di Bahrudin Bato Čengić, il regista anche de “Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale” (1971) e “Gluvi barut” (1990) non molto noto in Italia. Una tragicommedia che ha per protagonista un minatore stakanovista, considerato eroe ma la cui vita non è così idilliaca, uno dei film che hanno influenzato Emir Kusturica.

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