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Mostar, un 9 Novembre

La inaugurazione dello Stari Most simboleggia prima di tutto la messa in scena della riconciliazione in Bosnia Erzegovina. Ma il lutto non è ancora stato elaborato e il processo richiederà più tempo.

21/07/2004, Redazione -

Mostar-un-9-Novembre

Di Christophe Solioz*

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Sono certamente delle date a segnare la storia. Alcune sembrano addirittura perseguitare la memoria collettiva, e la ripetizione aggiunge alla fatalità un sentimento di impotenza. Così il 9 novembre: data della repressione sanguinosa di una manifestazione antifascista a Ginevra nel 1932, data soprattutto della funesta "notte dei cristalli" nella Germania nazista del 1938. Più vicino a noi, l’artiglieria bosniaco croata doveva distruggere il 9 novembre del 1993 il famoso Stari Most – letteralmente il Vecchio Ponte – di Mostar, costruito tra il 1557 e il 1566 da Mimar Hayreddin, l’architetto di Suleyman il Magnifico. Pura meraviglia architettonica dominante i flutti della Neretva, il ponte fu portato via dai turbini di una guerra infame che scorticò un intero Paese.

Questo ponte simboleggiava certamente la lunga presenza ottomana nello spazio jugoslavo, ma aveva anche la banale funzione di collegare la moschea e il mercato, posti su di una riva, col resto della città, che si trovava sull’altra riva della Neretva. Contrariamente a quanto affermano molti commentatori, sia in passato che oggi non c’era nessuna parte croata all’Ovest e musulmana all’Est! Da secoli Musulmani, Croati, Serbi e genti di altre appartenenze comunitarie abitavano insieme su entrambe le rive. Il trasferimento delle popolazioni, obiettivo dichiarato della guerra e causa della divisione di Mostar, è stato fatto solamente a metà degli anni ’90. Ma la Neretva non è la linea di demarcazione, la linea del fronte era posta di fatto a qualche centinaia di metri dalle rive del fiume – ancora oggi si può riconoscere facilmente la "no man’s land" che separava i due campi.

Sullo sfondo del rimpiattino giocato tra la Turchia, che avrebbe voluto ricostruire il Ponte di propria iniziativa, e l’Unione Europea, che ha infine preso il sopravvento, a significare chi avrebbe giocato il ruolo di protagonista e, d’altro lato, sotto la pressione della Banca Mondiale, che dettava le proprie consegne alle autorità di Mostar, lo Stari Most simboleggia oggi prima di tutto una messa in scena della riconciliazione in Bosnia Erzegovina. Il 23 luglio 2004, data della inaugurazione ufficiale del "Nuovo Vecchio Ponte", i politici della Bosnia Erzegovina si riuniranno davanti ai rappresentanti della comunità internazionale per il tempo di un simulacro che verrà immortalato dalla CNN e dagli altri media accorsi per l’occasione. Bisogna dirlo chiaramente: 9 anni dopo la fine del conflitto, il Paese è certamente pacificato ma sempre frammentato, diviso, sofferente per le proprie ferite e distruzioni. L’elaborazione del lutto non è ancora stata fatta. Il che, del resto, è assolutamente comprensibile.

La comunità internazionale è frettolosa di mostrare i risultati tangibili di un coinvolgimento, bisogna ricordarlo, tardivo. Questo egocentrismo esige una happy end hollywoodiana e non comprende che in Bosnia Erzegovina – come in Kosovo, Afghanistan o ancora in Iraq – ogni terapia breve in materia di ricostruzione dello Stato conduce al fallimento. Similmente a quanto diceva Freud a proposito della analisi, stigmatizzando già nel 1937 gli illusori tentativi di abbreviare una psicoanalisi, la ricostruzione di uno Stato non può che essere un progetto di lungo respiro, che necessita conseguentemente di tempo. Come l’analisi, l’intervento ha i caratteri di una impresa interminabile, così la riconciliazione e la transizione sono dei processi complessi che non si possono concepire che sul lungo periodo.

Gilles Pequeux, ingegnere di ponti e argini all’opera a Mostar dal 1995, ne era perfettamente consapevole. Ha saputo – per quanto possibile – resistere alle pressioni che lo invitavano ad abborracciare un lavoro raffazzonato. Si è preso anzitutto il tempo per comprendere tanto il significato simbolico di questo ponte per la popolazione locale quanto l’opera del suo illustre predecessore per ispirarsene. Per l’occasione è divenuto allo stesso tempo archeologo e antropologo, scoprendo in particolare che Mimar Hayreddin aveva utilizzato due tecniche diverse per tagliare le pietre, una ottomana, l’altra occidentale. Lo Stari Most mescola quindi saperi occidentali e orientali, ma è allo stesso tempo il risultato di un insieme di imperfezioni e di errori. Il vecchio ponte ci ricorda che l’errore può talvolta dare origine alla bellezza.

Questo paradosso ne richiama un altro, espresso dal rimpianto Alex Langer – eurodeputato dei Verdi originario dell’Alto Adige, regione anche questa pluricomunitaria: "Ci sono delle lotte che solo i perdenti possono vincere." Il trattato di pace di Dayton, firmato nel 1995 a Parigi dalle persone che avevano causato la guerra, assumeva largamente gli obiettivi della guerra conseguiti sul campo; pregiudicando così fortemente il futuro della Bosnia Erzegovina accettandone la frammentazione. Ancora oggi, i partiti nazionalisti e le reti semi mafiose occupano il primo posto impedendo al Paese di impegnarsi più decisamente sulla strada della riconciliazione, di affrontare il suo passato così come le riforme che la prospettiva – certo lontana – dell’integrazione europea rende necessarie. Le parole di Alex Langer si basano su di una prospettiva di lungo termine, invitando a ragionare e a impegnarsi affinché un altro Paese progressivamente possa affermarsi. Allo stesso modo, ai nostri occhi è di quella Bosnia Erzegovina che lo Stari Most rappresenta il simbolo.

Ci sono delle date ricche di possibilità da rischiare: come il 9 novembre 1989, con la caduta del muro di Berlino; così il 23 luglio 2004, con la inaugurazione del ponte di Mostar, che offre al Paese la speranza di un futuro ricco di possibilità.

Sarajevo, 19 luglio 2004

* Direttore del Forum per le Alternative Democratiche isn, Sarajevo / Genève / Bruxelles ; autore de "L’Après-guerre dans les Balkans", Paris, Karthala, 2003, 158 p.

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