Mostar: il Vecchio, venti anni dopo
Il 9 novembre di venti anni fa l’esercito croato bosniaco distruggeva a cannonate il Ponte di Mostar, tesoro dell’architettura ottomana e uno dei simboli della Bosnia Erzegovina. La gente, quando apprese la notizia, reagì d’istinto
“Che Dio ci salvi dall’eroismo serbo e dalla cultura croata”
(Miroslav Krleža)
“Prendi questa”, mi consiglia e, per convincermi, batte con una grossa chiave di metallo contro la pietra. Il blocco di pietra risponde con un suono cristallino. “È con questa che è stato fatto lo Stari Most”, mi dice l’artigiano al quale mi sono rivolta per una lapide.
In Bosnia e nei Balcani ci sono molti ponti vecchi e nuovi, belli, antichi, importanti, famosi, grandi, ma quando si dice ‘Stari Most’ (il Ponte Vecchio), sappiamo con precisione che si tratta di quel solo e unico ponte: il ponte medievale di Mostar.
Lo Stari Most, costruito quasi cinque secoli fa, fu distrutto durante la guerra in Bosnia Erzegovina nel 1993. Le unità croate lo bombardarono per due giorni finché, il 9 novembre alle dieci e quindici di mattina, il ponte crollò nel fiume. La distruzione del Ponte Vecchio fu l’apice della drammatica guerra che i croati conducevano contro i propri fino-a-ieri amici, vicini e alleati: i musulmani bosniaci.
Un anno prima che cominciasse la guerra in Bosnia Erzegovina, l’Armata Popolare Jugoslava (JNA) aveva spostato parecchie unità a Mostar. Le avevo viste nel marzo 1991. C’erano già state sporadiche uccisioni, ma la gente scandalizzata e oltraggiata sussurrava di riservisti ubriachi che attraversavano il Ponte Vecchio su una jeep. Scuotevano la testa, increduli, come a dire che un tale comportamento da parte di persone che non rispettavano le cose sacre (per la gente il Ponte era, e lo è ancora, un’istituzione divina) non prometteva niente di buono.
Infatti, nel 1992, la JNA mise Mostar sotto assedio, bombardandola regolarmente e senza pietà. Già allora i cannoneggiamenti che ordinava il generale serbo Momčilo Perišić avevano danneggiato il vecchio ponte.
Nel primo anno di guerra i bosniaci e i croati combatterono insieme contro il nemico comune, i serbi. Ma quando nel 1993 con i “piani di pace” la comunità internazionale invece di sanzionare l’aggressione (serba), premiava l’occupazione, i croati si affrettarono a prendersi la “propria parte” della Bosnia Erzegovina (di questo, tra l’altro, scrive Luca Rastello nel suo bellissimo libro: “La guerra in casa”).
Il colpo mortale
Furono i croati a dare il colpo mortale al Ponte Vecchio.
I responsabili della distruzione, sei croato-bosniaci, che erano i massimi esponenti politici e militari della cosiddetta Comunità Croata di Herceg-Bosna (l’entità autoproclamata nel 1991 e disciolta nel 1994), sono stati giudicati dal Tribunale dell’Aia responsabili di una “impresa criminale congiunta” e condannati dai dieci ai venticinque anni di prigione. Tra di loro il generale croato Slobodan Praljak, penalizzato a venti anni, in quanto riconosciuto come principale responsabile della distruzione dello Stari Most. È stato lui a dichiarare che “quelle pietre” (il ponte) non avevano nessun valore.
La distruzione del Ponte Vecchio non fu un gesto casuale, né l’azione di un paio di soldati indisciplinati. Al contrario, era il risultato di una strategia pianificata dai politici croati e dai capi croato-bosniaci per rimuovere la popolazione musulmana. Nel verdetto contro i sei croati, il Tribunale dell’Aia sostiene che “la distruzione dello Stari Most rappresenta una violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra… un atto cosciente da parte degli autori che miravano a distruggere l’identità culturale attraverso la distruzione materiale e l’avvilimento della popolazione”.
Nel 2004 il Ponte Vecchio fu ricostruito, seguendo il piano originale e con la pietra locale tenelija estratta nella cava di Mukoša, con la quale il ponte era stato eretto cinque secoli fa. Per la sua bellezza e unicità lo Stari Most è stato riconosciuto come patrimonio mondiale e messo sotto la protezione dell’UNESCO.
Nell’antichità, costruire un ponte era considerata un’opera di grande beneficenza, non solo perché si facilitava la vita quotidiana della gente ma anche per la sua funzione di unire quello che è diviso, lontano, diverso. Per questo il Papa è chiamato anche Pontefice, costruttore di ponti.
Il Vecchio (così lo chiamavano teneramente i mostarci, la gente di Mostar), per quasi cinque secoli, aveva unito le sponde est e ovest del fiume Neretva. Univa la gente, le religioni, etnie e mondi diversi. Con il tempo è diventato il simbolo principale della città, il punto di riferimento per i suoi cittadini, faceva parte della loro identità culturale, era l’espressione della cultura bosniaca.
L’opera di Hajrudin
A parte questa sua importanza metafisica, il Ponte Vecchio è un gioiello dell’architettura medievale ottomana e come tale il suo valore simbolico supera i sentimenti della gente locale. Il suo arco fragile, l’elegante mezzaluna che divide il blu profondo del fiume Neretva sotto, dal cielo azzurro di sopra, lo rende speciale, tra i venti ponti più belli al mondo, secondo una recente classifica.
È difficile guardarlo senza ammirare il genio dell’autore che è riuscito a costruire un’opera umana in perfetta sintonia con il paesaggio. Il Ponte sembra una struttura naturale, come se fosse cresciuto spontaneamente, e non costruito. Inoltre, se si osserva il punto da cui si erge, pare che l’architetto abbia voluto sfidare la natura, unendo le sponde là dove il fiume è ancora selvaggio e indomabile.
Il ponte di Mostar fu costruito nel 1557 dall’architetto Hajrudin Mimar, discepolo di Sinan, il padre dell’architettura ottomana classica. È stato fatto con 456 blocchi di pietra bianca, che si tengono insieme grazie ad un sistema d’incastri e tasselli. Due torri fortificate lo proteggono: la torre Helebija a nord-est e la torre Tara a sud-ovest.
Al suo completamento fu il ponte ad arco singolo più grande al mondo. Alcune questioni tecniche legate alla sua costruzione rimangono un mistero: come sia stato eretto il ponteggio, come sia stata trasportata la pietra da una sponda all’altra, come abbia fatto l’impalcatura a rimanere in piedi per tutto il lungo periodo della costruzione. Come risultato, questo ponte può essere classificato tra le più grandi opere architettoniche del suo tempo.
Il filmato della distruzione, girato dal bosniaco Zaim Kajtaz, ha fatto in breve tempo il giro del mondo. L’atto barbarico ha provocato indignazione e unanime condanna. La sua distruzione è stata paragonata alla distruzione nazista di Varsavia, o alla demolizione della Cattedrale di Colonia.
La notizia
Noi eravamo convinti che lo Stari Most fosse stato costruito per durare in eterno. Per questo la notizia della sua distruzione ci sembrava impossibile. All’inizio nessuno ci credeva. Il tragico evento ci ha segnato così tanto che la maggior parte di noi ricorda esattamente dove stava e cosa faceva nel momento in cui aveva appreso la notizia.
Quando si sparse la notizia dell’abbattimento del Vecchio, la gente di Mostar – assediata per un anno dai serbi ed esposta ai bombardamenti dei croati – reagì d’istinto. “Le persone che si nascondevano nelle cantine, incredule e incuranti del pericolo uscirono dai rifugi e si recarono di corsa sulla sponda, cercando il Ponte. Centinaia di uomini, donne, bambini sbalorditi fissavano il vuoto e la voragine. Il Vecchio non c’era più. Gridavano, piangevano, minacciavano, maledicevano, alzavano le mani verso il cielo e chiedevano: Perché?”, ha scritto nel suo diario Džemal Humo, poeta di Mostar.
Jasminko S. si ricorda che, da ragazzo, in esilio, entrò in casa e trovò la madre in lacrime. Pensava che suo padre fosse stato ucciso, ma la madre tra i singhiozzi ripose: “Qualcosa di peggio, hanno demolito il Vecchio”.
“Ho saputo della notizia mentre stavo in trincea, in prima linea. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse colpito allo stomaco con una mazza da baseball”, dice Goran O. “Ho pianto perché ho capito che avevo perso non solo il Vecchio, ma anche la mia città, e per sempre”.
Željko, un croato, tenuto prigioniero dall’esercito della Bosnia Erzegovina, ha dei ricordi drammatici: “Ero prigioniero dell’esercito della BiH. Non sapevo del crollo del ponte, che amavo, il Vecchio era anche mio. Alcuni membri dell’esercito della Bosnia Erzegovina, furiosi, mi hanno preso a pugni, mi hanno pestato e rotto una gamba”, si vendicavano per quello che avevano fatto i croati al Vecchio.
Io, quel 9 novembre 1993, ero in visita dal pittore Emir Dragulj, a Zemun, un sobborgo di Belgrado. Dragulj mi aprì la porta piangendo. Credevo che fosse successo qualcosa a suo fratello rimasto nella Sarajevo assediata, ma il pittore mi disse che la radio aveva appena confermato la notizia che il Vecchio era stato distrutto.
Il giorno dopo la distruzione del Ponte Vecchio, il 10 novembre 1993, l’ex presidente croato Franjo Tuđman incontrò i suoi più stretti collaboratori. Secondo le trascrizioni, Tuđman chiese: “Detto tra noi… in termini militari, chi ci guadagna di più dalla distruzione?”
“Noi”, gli ripose il ministro e presidente della Repubblica di Herceg Bosna, Mate Boban.
La ricostruzione
Undici anni dopo la guerra, lo Stari Most è stato ricostruito. Splende oggi come l’originale dei precedenti cinque secoli. Durante la notte le luci (regalate dal governo italiano come contributo per la ricostruzione) lo rendono spettacolare. Il ponte di Mostar è l’attrazione più visitata dell’Erzegovina, dopo Medjugorje.
Ogni anno, secondo la tradizione iniziata nel 1968, audaci e ben addestrati giovani si esibiscono saltando dal Ponte, da un’altezza di 27 metri.
A parte questi simboli eccellenti, però, a Mostar ha trionfato la politica della distruzione e della divisione. La popolazione prebellica della città, dopo gli orrori della guerra, è scappata, principalmente nei paesi scandinavi, così come in Croazia e in Serbia. La città oggi ha circa 120.000 abitanti, la cui maggioranza è costituita da croati, arrivati da altre parti della BiH.
Mostar oggi è fatta di due città, tutti i servizi comunali sono doppi: due poste centrali, due stazioni centrali, due sistemi educativi, due università, due fornitori d’acqua, due imprese comunali per la pulizia pubblica, due corpi di vigili del fuoco.
Sulla sponda destra del fiume Neretva c’è la “Mostar croata”, ben tenuta, con pochi segni della guerra. Secondo un’indagine, l’ottanta per cento dei giovani croati di Mostar non ha mai visto né attraversato il Ponte Vecchio. Per loro, con l’abbattimento del ponte, “è sparito dai Balcani l’ultimo turco”, come scriveva all’epoca dei fatti la stampa croata.
Sulla sponda sinistra la maggioranza è costituita dai bosgnacchi. Quella parte, durante la guerra, fu quasi rasa al suolo. Là furono uccisi nel 1994 i tre giornalisti italiani (Ota, D’Angelo, Luchetta) da una granata sparata dalle postazioni croate, mentre i giornalisti stavano facendo un servizio sui bambini di Mostar.
I croati e i bosgnacchi delle due Mostar non vivono insieme o gli uni accanto agli altri ma, come ha notato un giornalista locale, gli uni contro gli altri. Se s’incontrano, passano senza guardarsi o rivolgersi una parola.
Gli anni hanno dimostrato che la distruzione del Vecchio non fu dovuta a una negligenza o a un incidente involontario. Fu un atto premeditato, un forte messaggio da parte di barbari criminali che miravano alla completa divisione delle etnie, delle due sponde, dei due mondi.
Lo Stari Most oggi ha perso la sua funzione principale. Non unisce più, è diventato la metafora dell’opposto. Bello e splendente com’è, il Ponte Vecchio ci illumina su dove porta l’odio e la disumanità.
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