Mondo ex
Pubblicata una nuova edizione del celebre "Mondo ex", di Predrag Matvejević, uscito nel 1992. La versione rivisitata e aggiornata è arricchita dalla prefazione di Rossana Rossanda e dalla postfazione di Claudio Magris. Riceviamo e volentieri pubblichiamo una recensione
I Balcani sono un’area dell’Europa in cui da sempre la "geografia non coincide con la Storia". Terra di interposizione tra Occidente e Oriente, in politica, religione, cultura, arte. Era qui che l’impero romano d’occidente lasciava la sovranità a quello d’oriente. In "Mondo ex" Predrag Matvejević ripercorrere quindici anni di dissolvimento di un paese nato mettendo insieme popoli e territori. In epoca di vorticosità dell’informazione e di parallelo degrado della capacità di non dimenticare, nomi quali Sarajevo, Vukovar, Srebrenica, Krajina, cominciano a sfocarsi nella memoria collettiva.
Già nei primi mesi del 1990 c’era una strana atmosfera in Europa. Quanto accaduto poche settimane prima aveva cambiato il corso della Storia. Il 9 novembre dell’89, con modalità che sapremo poi essere state alquanto bizzarre, venne aperto il confine tra le due Germanie e abbattuto il muro di Berlino. Il mondo diviso in due blocchi egemonici e l’incubo del "day after" post atomico, da quel momento si apprestarono a diventare antiquariato. Prima e dopo caddero i governi filo sovietici degli stati dell’Est Europa e di seguito l’Urss, da cui si sganciarono tante repubbliche e regioni autonome, molte delle quali – ricorda Matvejević – più che democrazie diventarono "democrature".
La Storia aveva voltato pagina. Ma non ci rendemmo conto che la nuova pagina non era la successiva: era la precedente. Un po’ ovunque cominciarono a sorgere partiti e movimenti politici che riprendevano dalla soffitta carte geografiche di un secolo prima, per rivendicare sovranità statali di cui si era persa memoria e appartenenze etniche dimenticate dopo un secolo di normalizzazione ideologica (sovietica / occidentalista). In Italia e in Europa ci illudemmo di essere solo spettatori. Invece non potevamo esserlo, perché l’onda d’urto politico-culturale colpì anche noi. Resistemmo, a tratti a stento, perché quarant’anni di democrazia avevano rinforzato le istituzioni.
L’anello debole era la Jugoslavia, stato non catalogabile tra i "satelliti" dell’Urss. La sua crisi solo in parte è riconducibile al crollo di credibilità del socialismo sovietico come metodo di governo. L’inizio della fine risaliva al 4 maggio 1980, quando morì Tito. La repubblica di Jugoslavia nasceva dal precedente Regno di Jugoslavia (Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), mosaico realizzato nel 1918 dalle potenze occidentali vincitrici della Prima guerra mondiale, per gestire quanto lasciato in eredità dalla fine dell’Impero austro-ungarico.
La costruzione era destinata a sfaldarsi nel momento in cui fosse venuta meno una forte direzione interna o la supervisione esterna. Così avvenne durante la Seconda guerra mondiale. La ricomposizione avvenne sulla base della ideologica sovietica che in quel momento aveva ciò che oggi si definirebbe una "immagine" molto migliore e più accattivante delle ideologie fondate sul nazionalismo. In Jugoslavia però non era sufficiente. L’abilità di Tito consistette nella capacità di ingabbiare le varie componenti nazionali in una struttura non repressiva quanto quella stalinista. Tito la tenne insieme in forza di una congiuntura storica che impediva spostamenti significativi sullo scacchiere geopolitico, cristallizzato dopo la conferenza di Yalta nel 1945 in cui Stalin e Roosevelt, con la mediazione di Churchill, stabilirono le rispettive sfere di influenza.
Lo strappo più clamoroso fu proprio quello della Jugoslavia. Nel 1948 Tito la sganciò dall’orbita sovietica, ovvero dalla supervisione di Stalin, che conosceva e di cui non si fidava, anche perchè erano caratterialmente molto lontani. Belgrado non passò agli americani e Tito si trovò a occupare uno spazio che gli permetteva margini di manovra nella definizione di una ideologia interna e in politica estera. Al posto del socialismo sovietico, Tito applicò il socialismo federale fondato sul principio dell’autogestione, in cui le nazionalità trovarono un meccanismo di compensazione. Quella Jugoslavia ebbe un effetto notevole sugli equilibri internazionali. Tito promosse il movimento degli stati "non allineati". Aderirono coloro che non stavano nè con l’Urss nè con gli Usa, tra cui l’India e gli stati africani affrancatisi dal colonialismo tra gli anni ’60 e ’70.
Oltre quarant’anni di storia comune vennero spazzati via in pochi mesi. Il fiume impetuoso del nazionalismo di vario colore non era stato prosciugato durante gli anni di Tito. Si era solo inabissato. Adesso tornava in superficie con tutta la potenza originaria. All’interno di ogni stato vi erano – e vi sono – parti di territorio in cui è maggioranza "l’altro". Nella implosione ognuno sventola la bandiera della propria etnia contro tutti.
Nel 1991 la Slovenia dichiarò la sua indipendenza. L’esercito inviato per reprimere la protesta tornò indietro dopo pochi giorni. Il governo centrale accettò la decisione di Lubiana, che probabilmente si aspettava. La Slovenia, la più settentrionale delle sue repubbliche al confine con l’Austria. Dopo l’89 era rientrata nella sua dimensione mitteleuropea e più concretamente nell’area del marco tedesco. Di tutt’altro segno lo sganciamento della Croazia. Belgrado non accettò la secessione perché avrebbe rappresentato la fine costituzionale della Jugoslavia. L’esercito e i suoi comandi generali, in quel periodo ancora più jugoslavi che serbi, tentarono di impedirlo.
Parallelamente si formarono eserciti paramilitari su base etnica. In Croazia riapparirono gli ustascia, con l’ideologia che aveva caratterizzato lo stato di Croazia messo in piedi da Hitler e Mussolini. In Serbia ricomparvero i cetnici, alternativa nazionalista e monarchica all’esercito partigiano di Tito. Nel 1992 il regista Pawel Pawlikowski girò "Serbian Epics" uno dei migliori film-documentari sulla guerra in Bosnia. Descrive la quotidianità di un gruppo di cetnici, nelle fasi che precedono una battaglia. Matvejevic ricorda quando al tempo della Jugoslavia appena costruita, i ragazzi si davano appuntamento al ponte di Mostar e le differenze etniche non erano motivo di divisione. Nel ’93 quel ponte è stato abbattuto dai paramilitari croati. E’ stato poi ricostruito e riaperto nel 2004.
Forse l’esperienza che più ha segnato l’autore si è verificata durante il viaggio nella Sarajevo sotto assedio. Un giorno gli si avvicinò una donna malconcia con i capelli grigi e arruffati. Dopo un attimo interlocutorio, ricordò. Stava osservando quella che era stata la ragazza più bella e corteggiata della sua classe. Non resistette all’emozione: cercò un luogo appartato e senza farsi vedere pianse, per la sventura che aveva colpito quella gente.
I protagonisti di quella storia – Tudjman, Izetbegović, Milosević – sono morti. Altri sono in prigione all’Aja o braccati. I tre stati in cui erano a capo sono avviati verso l’adesione alla Unione europea. La Croazia potrebbe già entrare nel 2010. La Bosnia Erzegovina deve prima diventare un vero stato unitario. Per la Serbia invece le condizioni sono più dure, se non punitive, poiché l’accordo di associazione con la Ue, primo passo per la candidatura, è stato bloccato nel maggio 2006. La Commissione europea ha accusato Belgrado di scarsa collaborazione alla cattura del generale Mladić. Il nuovo banco di prova per l’Europa e la comunità internazionale è la definizione dello status del Kosovo.
Uno dei passaggi più importanti di "Mondo Ex" è quello sul rapporto tra intellettuali e Potere nella Jugoslavia dopo Tito e soprattutto sulle responsabilità di alcuni di loro, che hanno sostenuto la propaganda dei capi. Per questa accusa, sviluppata in uno scritto, il prof. Matvejević è stato condannato a cinque mesi da un tribunale di Zagabria. La mobilitazione in suo sostegno da parte di tanti intellettuali europei ha rappresentato un boomerang per l’immagine della Croazia che vuole aderire alla Ue.
In questa circostanza Matvejević ha fatto un parallelo tra quanto accaduto a lui e quanto accaduto in Turchia al romanziere Orhan Pamuk, recente vincitore del premio Nobel per la letteratura. Pamuk in quegli stessi giorni finiva sotto inchiesta in Turchia per aver ricordato in una intervista il genocidio del popolo armeno commesso dai turchi tra il 1915 e il 1923. Più ancora di una difesa del principio della libertà di espressione, queste due vicende ricordano che tuttora persiste la volontà di alcuni stati di non confrontarsi con le proprie responsabilità storiche, sebbene questo sia un passaggio essenziale verso una cultura democratica compiuta.
Non sappiamo quale sarà il destino dei Balcani. Faremo bene però a non distrarci perchè é qui si è consumato il destino dell’Europa. Quanto accaduto negli anni ’90 diventerà un tragico ricordo solo se chi oggi decide le sorti dell’Europa non dimenticherà che la Storia non è merce di scambio.
* Ninni Radicini collabora con "Orizzonti Nuovi" (www.orizzontinuovi.org), quindicinale di informazione e analisi di Italia dei Valori. Altri articoli sono stati pubblicati in "Osservatorio sui Balcani", "Mondo Greco" (www.mondogreco.net) e "Akhtamar on line" (www.comunitaarmena.it). E’ autore della newsletter Kritik (kritik.135.it)
editor's pick
latest video
news via inbox
Nulla turp dis cursus. Integer liberos euismod pretium faucibua