Mine Land: paese sott’ostaggio
Un progetto fotografico racconta il dramma delle mine in Kosovo. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Quando un paese deflagra ciò che rimane sono frammenti di terra dispersi tra mille nazioni e sprangati in mille nazionalismi. Per difendersi si costruiscono barriere, muri di intolleranza e pareti fatte di preclusioni, odio e rivendicazioni. Per difendersi si finisce asserragliati nei propri pregiudizi, accerchiati dalle proprie paure ed ossessioni. Per difendersi si finisce per aggredire. Quando un paese deflagra, i suoi cocci sono frammenti di mine che sconquassano la carne e devastano l’anima dei singoli e dei popoli.
Quando un paese deflagra in un’acre nuvola di fumo, ci si sveglia disorientati e sgomenti, percossi dal fragore, increduli prima e attraversati da un dolore lancinante poi per la mutilazione subita. Mine che spezzano vite e strappano gambe, braccia, mani. Mine che rimangono a falcidiare anche dopo la fine delle guerre e dei combattimenti, monito e segno della divisione, subdola traccia, ombra di un conflitto cinico che vuole protrarsi nel tempo, intrattabile, cronico, maligno.
É questo il caso della Jugoslavia, che prima dal 1991 al 1995 con la guerra in Slovenia, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, e poi nel 1999 con il conflitto del Kosovo, ha visto i suoi confini interni cambiare e intere popolazioni essere massacrate e derubate, cacciate e respinte dalle proprie terre dalle propagande nazionaliste, dall’opportunismo di politici senza scrupoli, dai deliri di grandezza e dalle pulsioni etniche fomentate tra le folle. E dopo tutta questa distruzione, 120.000 morti e molti di più gli sfollati e i rifugiati, in tutti i Balcani rimangano 2 milioni di ordigni inesplosi, nascosti nei campi, nei boschi, tra le zone di confine. Ordigni messi e lanciati, da tutti gli eserciti, dalla NATO ai paramilitari.
Vittime di mine, campi minati, protesi, storie di uomini e donne, sono questi i soggetti del progetto fotografico che Caritas Italiana e Caritas Kosovo stanno promuovendo con il fotoreporter Rocco Rorandelli del Collettivo TerraProject al fine di informare la popolazione rispetto ai rischi ancora attuali dei campi minati, ma anche, e sopratutto, per sensibilizzare la società sulle conseguenze drammatiche, perduranti e permanenti dei conflitti. Non a caso è stata scelta la fotografia per raccontare queste storie di guerra perché è la forma d’arte che, oggi più che mai, è un ausilio fondamentale alla memoria. E se l’attimo congelato è l’immagine di un trauma, di una mutilazione, di un campo di morte, ecco che alla fotografia viene affidato il compito scomodo non solo di rievocare la memoria di quel trauma, di quella tragedia, ma anche di condividerla.
Il percorso narrato è iniziato in Kosovo, lì dove, parafrasando Paolo Rumiz, “tutto ha avuto inizio e tutto doveva concludersi”. Il progetto ha così cercato di raccontare la brutalità dei campi minati attraverso immagini di terre apparentemente innocue fotografate dal drone. I volti ritratti sono testimonianza di un dolore inenarrabile. Nel reportage viene dato rilievo, anche alle protesi. E ancora, altri soggetti di difficile decifrazione: i resti di mine esplose. Indecifrabili perché sembrano per lo più giocattoli vecchi e arrugginiti, di quelli persi per strada e corrosi dal tempo.
Del resto per molte vittime tutto è iniziato per gioco come per Avni Lubovci che ha perso la gamba nel 1999 quando aveva solo 15 anni: al momento dell’esplosione non ha sentito nulla, ma ha avvertito un dolore acuto solo quando si è reso conto di aver perso l’arto e questa è un’esperienza comune a tutti i mutilati. Ma il suo calvario non è finito in quell’anno: la sua protesi gli ha causato un’infezione tale da dover amputare un’altra parte del ginocchio nel 2011.
Oggi è il presidente di una piccola NGO la Association for wonded people from mines che raccoglie fondi e fa attività di lobby per le vittime. Lo stato kosovaro non le riconosce come tali e ricevono solo una piccola pensione di 135 euro mensili e nessun supporto per gli arti prostetici. Inoltre, nonostante nel 2006 le Nazioni Unite dichiararono il paese completamente sminato oggi in Kosovo sono presenti ancora campi minati non segnalati.
Alla fine del 2014 il Kosovo contava 77 aree minate che si trovano principalmente al confine tra Albania e Macedonia e in alcuni territori del sud e centro e sono circa 500 i casi di vittime, di cui un centinaio di morti e circa 400 feriti. Nel 19991 quando la convenzione internazionale di Ottawa proibiva l’uso, stoccaggio, produzione e vendita di mine antiuomo, durante i 78 giorni del conflitto in Kosovo, la NATO ha bombardato 333 zone rilasciando 1,392 bombe e 295,700 munizioni: decine di tonnellate sono rimaste inesplose.
Durante la guerra diventa infatti cruciale rallentare l’avanzata del nemico. Le mine antiuomo sono designate appositamente per ferire e/o mutilare perché sul campo di battaglia un soldato ferito è maggiormente d’intralcio di un soldato morto.
Se da una parte in Kosovo le mine sono state disposte in file ordinate, perciò più facilmente rintracciabili seguendo, lì dove disponibili, le mappe, dall’altra parte, essendo stato minato in tempi relativamente recenti, sono state utilizzati nuovi materiali come la plastica impossibili da rilevare con il metal detector. Infatti i metodi di sminamento sono pressoché gli stessi di vent’anni fa con lo sminatore che deve scavare a mano una volta rilevato l’ordigno. Venti volte più veloci dei metal detector sono i cani addestrati a rilevare mine. Il tutto ha costi elevatissimi, 1.000 euro a mina, senza considerare il dispendio di tempo. Inoltre anche dopo il completo sminamento dell’area, è necessario eliminare le erbe infestanti con diserbanti talmente velenosi che son necessari anni per rendere nuovamente il terreno adatto alla coltivazione. La mina più temuta è la Prom-1, prodotta in Jugoslavia. Una volta innescato il detonatore, salta dal terreno per circa 50 cm e poi esplode, uccidendo nel raggio di 10 metri, e ferendo nel raggio di 50 metri.
I più esposti esposti al pericolo delle mine sono gli abitanti delle zone rurali che non possono coltivare né pascolare i propri animali, oltre ad essere le prime vittime.
Note:
1 La convenzione internazionale di Ottawa non è ancora stata ratificata da 34 paesi tra cui USA, Cina e Russia.
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