Miljenko Jergovic: Momo Kapor
Nella sua rubrica settimanale (Sarajevski Marlboro) sul settimanale DANI, lo scrittore di Sarajevo, Miljenko Jergovic, di tanto in tanto tratteggia abilmente la storia passata, prendendo spunto dall’attualità. In queste poche righe Jergovic prende in esame la parabola letteraria di Momo Kapor, noto scrittore serbo
Di Miljenko Jergovic, 16 settembre 2005, DANI, (tit. orig. Momo Kapor)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Ivana Telebak
Una sera alla televisione BK, Momo Kapor si era messo a parlare in modo prolisso. L’intervista durava e durava, non meno di due ore, si è parlato di tutto, e per lo più della guerra passata, durante la quale Momo visitava le postazioni del popolo serbo armato in Bosnia e in Croazia, e scriveva bellicosi reportage. Qualche volta era andato anche a Pale, dove si sedeva da parte, sbevazzava e ascoltava come Koljevic, Karadzic e Krajisnik negoziavano con lord Owen e con gli altri. Nonostante sia passata una decina di anni da allora, lo scrittore è ancora pieno di impressioni, si vede che non ha ancora raccontato e scritto tutto, e in realtà non si può nemmeno raccontare fino in fondo l’apice della propria vita. E quella guerra è stata l’apice della vita di Kapor. Lo riconosce lui stesso.
Racconta che in una occasione era arrivato a Trebinje, su invito del generale Grubac, e si era messo a guardare la gente in uniforme, gente presa a casaccio qua e là, e ascoltava il rimbombo dei cannoni in lontananza. Sono stato due tre volte a Trebinje, mi ricordo di quella città (carsija) durante alcune deserte giornate estive, quando il sole bruciava ovunque, e mi prendeva una sorta di tristezza e di malinconia perché mi ero lasciato Dubrovnik alle spalle, e perché non avrei visto il mare fino all’estate successiva, così in qualche modo posso immaginare Kapor che, nonostante la ressa di gente armata, sentiva qualcosa di romantico. Purtroppo, posso capire anche il fatto che l’insieme del suo romanticismo, la sua cartolina di Trebinje, fosse determinato dal rimbombo dei canoni in lontananza. Per Kapor quei canoni sono la sincope della bellezza, del desiderio e della tristezza per la patria e di tutto ciò che per un reporter di guerra potrebbe significare una parola romantica. Senza i canoni Trebinje sarebbe come una melodia senza ritmo.
Momo Kapor sembrava sincero. E si vedeva che non gli era passato per la testa che potesse essere ascoltato da qualcuno per il quale il rimbombo dei canoni non era per niente romantico. Per esempio, non è romantico per coloro i quali non l’hanno mai sentito in lontananza, ma l’hanno sentito sempre da vicino. Quando si tratta della prospettiva di Trebinje, tali persone sono, naturalmente, la gente di Dubrovnik. Ma si potrebbe trattare anche di gente di una decine di altre città bosniache o croate. Persino se dovesse cambiare la sorte della guerra, e si potesse sentire veramente il rimbombo dei canoni in lontananza, per tali persone ciò non sarebbe mai la sincope di una cartolina romantica. Perché avevano già le orecchie guaste e spaventate da giorni, mesi e anni di rimbombi da vicino. Ma non spetta a Kapor pensarci su, e non sta a lui pensare che lo stanno ascoltando anche le persone con un punto di vista spaventosamente diverso dal suo. Tanto in una serie di suoi libri degli anni novanta ha dimostrato insistentemente che tale gente non lo riguarda affatto.
L’episodio romantico di Trebinje è un piccolo dettaglio nella grande storia delle prospettive modificate, che non possono più trovare posto in una sola, comune. Negli anni settanta e ottanta Momo Kapor aveva un grande editore di Zagabria, passava le estati a Dubrovnik, scriveva prosa vestito di jeans ed era uno dei principali rappresentanti della cosiddetta generazione rock della cultura popolare e di élite. Se è stato Goran Bregovic a inventare, o almeno a massificare, il rock’n’roll jugoslavo, come affermano tante persone serie, allora Kapor era il Bijelo dugme della letteratura. Un po’ più urbano, più asfaltato e più fine, ma sempre Bijelo dugme.
E poi, poco prima della guerra, si era entusiasmato con i contadini, i salonicchesi, i cetnici, con l’etica e l’estetica di Dragan Zivkovic-Tozovac, e alla fine col popolo in uniforme che si è ribellato contro la preannunciata oppressione degli ustascia e dei mujahedini. Si è entusiasmato con le gusle (tradizionale strumento ad arco monocorde, ndt.) e la fisarmonica. Cos’è successo a Momo Kapor? Cosa è successo alle persone che conoscevamo meglio di lui, alla gente delle nostre vite intime, per entusiasmarsi degli opanci (calzature tradizionali, ndt.)? E’ facile capire la parte etica della storia, l’uomo è una creatura difettosa si concede facilmente a tante porcherie, includendo anche lo sgozzamento dei propri vicini, ma sembra che sia un po’ più difficile capire l’estetica di queste trasformazioni. Come è possibile che colui che per metà della sua vita ha ascoltato Ray Charles (come Kapor), o i Doors (come tanti altri), trovi il suo finale e definitivo senso nei versi: "Volentieri il serbo fa il militare, dove raccoglie il lauro maturo, per lui la battaglia è un divertimento caro, ancora di più spaccare il diavolo"?
La risposta, purtroppo, è più che semplice. Semplicemente, un giorno si decide di farlo. Capisci che la tua vita passa in solitudine, che non hai nulla di buono dal rock’n’rloll, che fatto così nessuno ti prende sul serio e non ti prendono in considerazione, così ti sposti dall’altra parte e abiuri, e sei stupito che tutti all’improvviso ti apprezzino e ti amino. Ti lasci solo andare e tutto ti è facile. Da tale prospettiva i narodnjaci (popolari) sono il veleno peggiore. Ma non solo i novokomponovani (neo-composti), ma anche quelli autentici, dove, come dicono i kaporesi, giace e si annida l’anima di un popolo. Tali canzoni sono le formule perfette della collettività, il mantra in cui diventi uno dei tanti che sono peggio di te, soffri insieme a loro, per una donna che ti ha tradito, per la tua cara che è morta all’improvviso, per l’esercito morto, per la guerra persa… Sono state scritte decine e centinaia di canzoni dei novokomponovani narodnjaci combattive, di incitamento e di patriottismo, e altre centinaia di quelle in cui l’intero popolo è stato proclamato come vittima collettiva, ma per quanto ne so io non ne è stata scritta nemmeno una anti guerra, pacifista, pacificatrice. E nessuna che parli dal punto di vista della coscienza sporca, nessuna che si dispiaccia per l’altro, nessuna con la quale si possa negare la romantica cartolina di Trebinje, con il rimbombo dei cannoni in lontananza.
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