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Mile Kekin: è tempo che la gente si ricordi

Alcune canzoni di Mile Kekin, poeta e cantautore, frontman della band punk-rock zagabrese Hladno pivo dovrebbero stare, secondo  Božidar Stanišić, nei libri di testo. Ma non solo croati, in quelli europei

31/03/2016, Božidar Stanišić -

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L’estate scorsa ricevetti un messaggio dalla Svezia mandatomi da un mio ex studente di quando insegnavo letteratura in Bosnia. Un messaggio inaspettato, poiché egli, di solito, si fa vivo a dicembre, giusto per farmi gli auguri di fine anno, accompagnandoli, così en passant, con qualche parola sul suo essere straniero nel Nord Europa. Quella volta, invece, mi scriveva perché vivamente interessato a sapere cosa ne pensassi io, “un insegnante fuori dal comune”, di un brano del gruppo punk-rock zagabrese Hladno pivo. Bastava che io fossi minimamente capace di navigare su internet, mi rassicurò il mio vecchio studente, per riuscire a trovare, oltre al testo del brano in questione, intitolato Firma, anche il video che lo accompagna. “E’ proprio così, è così che ci hanno fregati! Firma la dice tutta, in modo chiaro… Cavolo, sono fortissimi! Gente positiva!” Con queste parole concluse il suo messaggio.

Gli Hladno pivo cantano Firma

Persino i navigatori maldestri come me ce la fanno a solcare il mare del web. E dopo aver visto il video, perché non sembrare un insegnante che non fa altro che insegnare, a quel mio ex studente risposi brevemente: “Grazie dell’informazione, decisamente interessante!” Contemporaneamente sul mio taccuino scrissi: “Mi sembra che quel corridoio della fabbrica, spettralmente vuoto, dove gli Hladno pivo cantano Firma, brano tratto dal loro ultimo album intitolato Dani zatvorenih vrata (Giorni delle porte chiuse) – con in sottofondo gli ex lavoratori delle fabbriche Gredelj, Dioki e Kamensko che raccontano la loro verità – non rappresenti una realtà esclusivamente croata né tanto meno un semplice dettaglio dello jugo-spazio, è piuttosto un simbolo della transizione che, una volta caduto il Muro, stravolse l’intero est europeo, gravando tuttora sulle spalle di intere generazioni".

 

Stando alle parole dei lavoratori che emergono dal video, i sopracitati giganti dell’industria croata non sono andati in fallimento perché poco competitivi o tecnologicamente obsoleti, ma esclusivamente per via del fatto di essersi lasciati derubare da criminali, vestiti in giacca e cravatta e desiderosi che si facesse “spazio a duecento famiglie”. [Il riferimento è al progetto tudjmaniano di affidare la gestione della ricchezza nazionale, compreso il processo di privatizzazione, a una ristretta cerchia di famiglie, ndt]

L’autore di Firma non è un cantautore bensì un poeta, per di più uno di quei rari che cercano di stare dalla parte degli ultimi e abbandonati. Se potessi farlo, io proporrei che questo brano venisse inserito nei libri di testo delle scuole. Una proposta che, ne sono certo, difficilmente passerebbe senza un referendum. Scrivo stupidaggini, lo so, cose “fuori dal comune”, perché la gente non si reca più alle urne nemmeno per le elezioni, figuriamoci quanti lo farebbero per esprimersi su un immaginario referendum riguardante le canzoni da inserire nei libri di testo! Comunque sia, a me piacerebbe vedere Firma nei libri scolastici da Lubiana a Skopje, e poi tradotta in ungherese, ceco, polacco, slovacco, russo, albanese, rumeno, bulgaro, e così via. Se non altro, questa satirica elegia rock’n roll riuscirebbe, probabilmente, a prendere il posto di almeno una di quelle canzoncine patriottiche che tuttora invadono i libri di testo. Il protagonista di Firma, un lavoratore disoccupato, ogni giorno, per dare meno fastidio a se stesso, fa una passeggiata fino a quella che una volta era la sua fabbrica, accompagnato dal seguente pensiero:

Magari stasera confesso loro/ come siamo caduti senza neanche uno sparo/ nel vecchio trucco del nuovo inizio:

E una volta giunto al portone e alla barriera chiusa

Mi tolgo il cappello in segno di rispetto per tutti noi che ricordiamo ancora

Quel giorno in cui, scesi da limousine nere fermatesi davanti all’azienda, ci dissero:

Dio, patria, nazione

Tutti giù per terra questa è la privatizzazione!

Fate largo a ‘duecento famiglie’! 

 

Io non sono uno di voi

Il cantautore – pardon, poeta – e musicista in questione si chiama Mile Kekin. Non lo si trova nei libri di testo. Se un giorno vi comparirà, sarà un segno, un segno che all’Est – da Zagabria a Vladivostok, da Tirana a Danzica – sta accadendo qualcosa di nuovo. Nuovo nella misura in cui un uomo, musicista e poeta sia in grado di trasmettere agli altri quel grande, semplice “qualcosa”, poiché “la storia non conosce neanche un singolo caso in cui un’arte o un artista, in nessun tempo e in nessun luogo, siano mai riusciti a esercitare un’influenza diretta sulla sorte del mondo – ed è da questa triste verità che deriva la conclusione che dobbiamo essere modesti, consapevoli della limitatezza del nostro ruolo e potere” (Zbigniew Herbert).

 

   

Ad ogni modo, lui, Mile Kekin, merita un posto nei libri di testo. E questo non solo per via del brano Firma, ma anche per uno più recente, una miniatura acustica intitolata Ja nisam vaš (Non sono uno di voi). Nella notte tra il 3 e il 4 marzo scorsi, quest’uomo si è appoggiato ad un muro, ha preso la chitarra in mano e, apparentemente con leggerezza, come se stesse cantando una ninna nanna, ha sputato fuori alcuni versi. I quali, come del resto nemmeno l’intera poesia mondiale, né l’arte in genere, non cambieranno il mondo, ma potranno pur sempre penetrare nella mente e nel cuore di coloro che cercano di osservarlo, quel mondo, con i propri occhi. Chissà, magari riusciranno anche a risvegliare più di qualche giovane testa dalle sue nazi-illusioni. Perché quei versi sono chiari, così chiari che non potrebbero esserlo di più – come tutte le cose semplici ma profonde.

Pertanto, ci si aspetterebbe che solo le menti piccolo-borghesi cercassero di collocarli in un contesto esclusivamente locale, cioè croato. Eppure, a parte qualche semplice e sincero “bravo, fratello”, si sono già accumulate, e continuano ad accumularsi, migliaia di rimproveri e offese nei confronti di Mile Kekin. Gli stanno arrivando accuse “fraterne” da ogni dove, come si diceva un tempo, “dal Vardar al Triglav”.

Internet è un miracolo: si può sputare fango sugli altri, nascondendo la propria ottusità dietro un soprannome o in modo anonimo, senza alcuna conseguenza. E a sputare, di certo non limitandosi a fare solo questo, sono di nuovo quei “neri”, i quali, ovviamente, pensano di essere “bianchi”, lumi di un futuro “migliore, nero”. Non sono forse quegli stessi cavalieri neri di cui parlava Branko Ćopić? Nel suo testamento poetico, intitolato Pismo Ziji (Lettera a Zijo), egli già presagiva il loro arrivo: Nel mondo si stanno moltiplicando cavalli e cavalieri neri, vampiri notturni e diurni.

Branko ormai da tempo non c’è più, mentre i cavalieri neri, benché vinti nel ’45, sono tornati a moltiplicarsi – da Ohrid alle Caravanche – e le loro orchestre a strimpellare la stessa musica di sempre, lodando Dio, il popolo e la nazione (che è anche la patria), in maniera assordante: scuoti-batti-che si sappia, cosicché non si capisca più nemmeno chi, a “quel tempo” riempiva i vagoni merci di persone e prelevava i ragazzi dalle scuole per fucilarli. Poiché tutto è da sottoporre a revisionismo, soprattutto il passato.

No, nemmeno Kekin poteva sapere che agli inizi di questo stesso mese di marzo in Slovacchia, per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, otto cittadini su cento avrebbero dato il proprio voto ai “neri”. Sicché Bratislava, tra non molto, vedrà insediarsi un nuovo parlamento di cui faranno parte anche deputati, democraticamente eletti, del partito filonazista “La Nostra Slovacchia”. C’è bisogno di ricordare quanti “neri”, di tutte le sfumature, già occupino un seggio nei parlamenti da Atene a Stoccolma? E che ciò non rappresenta più un “semplice” populismo di destra, di carattere endemico solo in certe versioni, come ad esempio quella zagabrese e belgradese? È un fenomeno europeo, eccome!

Quest’uomo, poeta e musicista, ci ha regalato una canzone, breve ma grande, così grande quanto dovrebbero esserlo le nostre pupille davanti alla Memoria e alla Storia in movimento.

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