Milan Konjović, il miracolo della pittura
Omaggio a Milan Konjović, pittore serbo e jugoslavo, nel ventennale della morte. Il viaggio dell’ultimo dei fauves da Sombor a Parigi e da Parigi a Sombor, la suggestione della Galleria a lui dedicata nella cittadina della Vojvodina
Milan Konjović, nato a Sombor il 28 gennaio 1898, vi è morto il 20 ottobre 1993
Negli anni settanta, quando studiavo lettere slave a Sarajevo, avevo per amici alcuni studenti dell’Accademia, anche loro nativi di Visoko. Eravamo pendolari sui treni locali della linea Zenica-Sarajevo-Zenica; pareva che si fermassero ad ogni casa bianca. Nella magia della lentezza del treno non ci mancava il tempo per alcune discussioni sull’arte.
Ricordo bene le parole di uno di loro. Se qualcuno gli avesse chiesto chi era il più grande pittore contemporaneo, Ismet Mujezinović o Milan Konjović, lui si sarebbe arreso. “Non lo so! La linea vibrante del disegno di Ismet è irripetibile, ma il movimento di pennello di Konjović… Ah, ah!” E i suoi occhi luccicavano di gioia.
Lui, per la tesi di laurea, scelse la fase rossa di Milan Konjović. Io gli feci da dattilografo. Quell’estate precoce del 1977, nel frutteto della mia casa nativa, sotto l’albero di melo sunlija (qualità locale), battendo sulla tastiera della museale macchina da scrivere biserka, sentii per la prima volta che Konjović aveva realizzato oltre 5.000 opere, e che instancabilmente andava avanti. E che nacque alla fine del diciannovesimo secolo a Sombor, la città della Pannonia nota per le belle canzoni “starogradske” Fijaker stari (Il vecchio fiacrè) e U tom Somboru (“In quella Sombor tutto c’è, in quella Sombor, è la verità, pure che le donne vi bevono il vino…”)
E’ la stessa città del grande poeta del romanticismo serbo Laza Kostić, autore della poesia più bella di quel periodo, Santa Maria della Salute. E di un altro poeta, ma della pallacanestro, Radivoj Korać, tragicamente morto all’apice della sua carriera sportiva nel 1969.
Da Sombor a Parigi, da Parigi a Sombor
In tutte le biografie su Konjović è sottolineata la data del 22 Maggio 1924, quella del suo arrivo a Parigi da Praga, con la moglie Ema: “Siamo arrivati la mattina presto. Conoscevo così bene Parigi dalla letteratura che, mentre percorrevamo a piedi il Boulevard de Sébastopol, avevo la sensazione di essere arrivato a casa.”
Parigi ha rappresentato il luogo finale della sua ricerca artistica. A Praga, nel 1919, dove conobbe Ema Maštovska, sua moglie, era scontento degli studi nella classe del professor Vlaho Bukovac, e si era trasferito nell’atelier del pittore di avanguardia boema Jan Zrzavỳ. Lasciando la capitale boema, interessato brevemente da Monaco e Berlino, si diresse poi verso Vienna, da cui erano già stati attratti i pittori Jovan Bijelić, Petar Dobrović, Branko Popović e dove, nel periodo 1921-22, aveva incontrato la pittura di Oskar Kokoschka, che allora stava a Dresda, a cui scrisse una lettera (il grande artista austriaco non rispose mai a Konjović).
Da Vienna, inquieto per le vicende della vita e dell’arte, torna a Praga e decide infine, pensando “per sempre”, di spostarsi a Parigi…
Il suo primo studio era a Montrouge. Dal 1929 abitava nel XIV arrondissement, vicino al Parco Montsouris, di cui ha cantato Prévert. Qui Marcel Zielinski, architetto polacco discepolo di Le Corbusier, costruì la casa per il pittore. La casa aveva tre atelier, ciascuno di sei metri d’altezza. Zielinski costruì pure la casa del grande André Derain, vicino a quella di Konjović.
E’ evidente: Konjović pensava di fermarsi a lungo a Parigi, dove nacque sua figlia Vera; in quella casa, dicono, voleva realizzare un’accademia per i giovani artisti provenienti dal suo paese. Però la sua avventura parigina, malgrado alcune mostre di successo (era presente pure alle mostre del Salon d’Automne nel Grand Palais, 1926-29) e l’amicizia dei pittori serbi e jugoslavi allora presenti nella capitale francese, finì nell’anno 1932 e il pittore, insieme alla famiglia, tornò a Sombor.
Il ritorno da Parigi, dove abbandonò definitivamente la breve esperienza cubista e si dedicò in modo ascetico e solitario alla ricerca della perfezione del suo stile espressionista incline a quello dei fauves, fu causato secondo alcuni ricercatori dalla crisi e la depressione economica. Alcuni invece pensano che si sia trattato della semplice volontà dell’artista di tornare a Sombor, dove cominciò ad uscire dall’atelier mescolando in vivo le sensazioni, la scala dei colori e le mosse intense del pennello sotto il cielo aperto della Pannonia.
L’addio definitivo a Parigi venne dato dal pittore nel 1937, con la mostra nella Galleria Mouradian-Vallotton. La critica seguì questo evento con entusiasmo. “Konjović è tornato con temi del tutto nuovi”, scrisse Maurice Betz, poeta e critico d’arte. Così a Parigi finì la sua fase blu e in patria cominciò la fase rossa, durata fino all’inizio della guerra, con opere che presentavano le vie di Sombor, i campi di grano, i girasoli, i volti della gente del paese, e poi il mare di Dubrovnik e Cavtat…
Il movimento di pennello
Il periodo fra il 1940 e il 1952 dell’arte di Konjović viene definito la fase grigia, caratterizzata da colori abbastanza spenti, privi dei fuochi del blu e del rosso. Ci sono due principali ragioni del passaggio a questa fase: all’inizio della Seconda guerra mondiale finì nel lager di Osnabrück, da dove tornò nel 1943; finita la guerra, il pittore non si piegò davanti alle richieste di aderire alla poetica socialrealista.
In occasione della mostra di Konjović a Belgrado (1949), Jovan Popović, scrittore e uno degli ideologi di questa dottrina, lo criticò perché non esprimeva “l’idea dell’uomo nuovo che per la sua umanità e il suo progresso è alla pari con l’uomo dell’Unione Sovietica…” Il pittore però resistette a tutte le critiche e nel 1951, di nuovo a Belgrado, realizzò La gente, mostra rimasta mitica nella storia dell’arte serba e jugoslava come uno spartiacque fra dettato ideologico e libertà creativa. E quel movimento di pennello di Konjović, autentico nel colorismo potente, a modo suo, secondo uno dei suoi migliori critici, si trasformò in uno specifico “espressionismo del colore e del gesto”.
Anche nelle fasi successive la difesa dell’autonomia della pittura ebbe un posto importante nel suo concetto della libertà assoluta dell’arte. Alcuni critici pensano infatti che nella sua fase colorista (1953-59) la pittura astratta fosse soltanto un appoggio ai pittori jugoslavi di questo orientamento, criticati dall’“alto”. Konjović era inoltre attivo nelle colonie d’arte e in alcuni gruppi di artisti in Vojvodina. La fase associativa (1960-84) è caratterizzata da una vera eruzione paesaggistica, ed è l’insieme di tutte le sue esperienze creative. Dopo la grande mostra parigina nel Grand Palais (1985), il vecchio Konjović si dedicò ai motivi bizantini, realizzando un ciclo di una trentina di quadri che lasciano l’impressione di una sintesi estetica, libera e serena, tra il blu bizantino e giottiano e quello dei cieli della Pannonia.
La Galleria Milan Konjović
Appena entrato nella Galleria, il visitatore incontra la dedica del pittore: “Regalo con amore questi quadri, i miei cari preferiti, a questa città, loro appartengono solo a lei.” Alla proposta del Comune di Sombor, nel 1966, di creare uno spazio stabile ed esclusivamente dedicato alla sua opera, Konjović, emozionato da questo gesto, disse che Sombor capì quello che sfuggì alla Aix-en-Provence di Cézanne, quando il grande artista propose alle autorità locali di offrire un edificio per il suo museo. Konjović regalò allora a Sombor 500 delle sue opere. Quel numero, grazie ai regali della figlia Vera, di amici e semplici cittadini, è salito a 1.084. In realtà si tratta solo di un sesto di tutte le sue opere (olio, acquarello, disegno, pastello, tappezzeria, schizzi per costumi teatrali). In tutti questi anni la Galleria è stata visitata da mezzo milione di persone, e quest’anno lo Stato l’ha proclamata bene di alto valore culturale. In questo c’è il contributo di Irma Lang, studiosa d’arte e ottima conoscitrice dell’opera di Konjović, direttrice della Galleria per 42 anni.
A chi intende visitare questo particolare luogo d’arte raccomando di farsi accompagnare da uno dei custodi. Non sono solo persone gentili, sono persone esperte e appassionate della loro attività. Ogni anno nella Galleria vengono presentate due mostre tematiche, ogni tre anni una retrospettiva. Il racconto dell’opera e della vita di Konjović, dai suoi primi passi d’artista al liceo fino al suo ultimo respiro, accompagnano il visitatore. Osservare le sue opere dal vivo, soprattutto quelle con i colori infuocati che mi ricordavano le parole del mio amico dei tempi lontani – sul movimento del pennello – possono ancora provocare un sussurro: Konjović, ultimo dei fauves?
E il visitatore che si fermi a lungo davanti al pannello dell’artista condividerebbe un suo pensiero: “La pittura è un miracolo. Se non fosse così, da tempo mi sarei fermato. E’ infinito e imprendibile, come la pianura. Pensi: la fine è là. Ma l’orizzonte si muove sempre.”
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