Mihajlov, una dissidenza insolita
Mihajlo Mihajlov è conosciuto come il ‘dissidente n.2’ nella Jugoslavia di Tito. Docente e autore di numerosi saggi sulla letteratura russa venne più volte incarcerato, poi emigrato all’estero e privato della cittadinanza jugoslava. A ottant’anni dalla sua nascita ripercorriamo la sua storia
“Lo dico onestamente, non sono contento della mia vita. Ho lavorato e viaggiato, tanto e senza interruzioni, ma non mi sento molto realizzato. Direi che vedo tutto questo solo come l’abbozzo di una vita. Se Krusciov non fosse caduto, se Tito non mi avesse attaccato, la mia vita sarebbe stata diversa. Oppure, se avessi taciuto quando mi hanno imprigionato la prima volta e mi hanno licenziato dal lavoro forse, più tardi, mi avrebbero permesso di insegnare al ginnasio. Adesso probabilmente sarei professore, nella splendida città di Zara. Ma io, tutto ciò, non ho potuto farlo…”.
I tre “se” e un “ma” di questo frammento dell’intervista a Mihajlov apparsa sul settimanale serbo NIN nel 2001, rappresentano la chiara sintesi della scelta esistenziale del “dissidente n. 2” della Jugoslavia di Tito. La dissidenza non l’aveva cercata, come invece fece Milovan Đilas, il cosiddetto “dissidente n.1” con cui coltivò una lunga amicizia. Né ne aveva goduto, come fecero quei dissidenti che a Tito e alla Lega comunista servivano come facciata del “comunismo liberale”.
Mihajlov, figlio di emigranti russi, nato a Pančevo, docente di letteratura russa alla Facoltà di filosofia di Zara, era un non comunista che dalla dissidenza, letta in chiave fatalista, venne scelto. Di certo, all’inizio degli anni sessanta, quando tornava spesso a Belgrado commetteva già dei “delitti ideologici” incontrando amici legati al gruppo artistico d’avanguardia “Mediala”, fra i quali lo scrittore Danilo Kiš, il pittore Leonid Šejka, l’architetto Pedja Ristić e altri.
Un’estate a Mosca
A metà del 1964 Mihajlov, beneficiario di una borsa di studio, si trovava a Mosca. Era il periodo dell’apice del liberalismo cruscioviano e Mihajlov ricorda nell’intervista a NIN che la capitale moscovita era invasa da musicisti e cantanti jugoslavi. Allora collaborava con la rivista “Telegram” di Zagabria e decise di intervistare alcuni scrittori sovietici. La segreteria dell’Unione degli scrittori gli diede il permesso di farlo solo con due ma lui si mosse da solo e ne intervistò ben venticinque, tra i quali Leonid Leonov e Ilja Erenburg. Il giovane borsista non si fermò alle interviste con semplici mortali: telefonò alla segreteria di Krusciov per ottenere un’intervista anche da lui.
Prima della partenza per Mosca, Mihajlov aveva pubblicato una recensione sul libro firmato da Krusciov “Sull’alto ruolo dell’arte e della letteratura”. Secondo l’autore “lo scricchiolio del carro che porta il pane all’umanità affamata è più artistico delle note musicali di Mozart o dei versi di Pushkin” e Mihajlov criticò apertamente il terzo dittatore dell’Urss per la sua bassa comprensione dell’arte.
Ciò non gli impedì di ottenere l’intervista, di cui cui lui stesso si sorprese, a patto che l’Ambasciata jugoslava a Mosca desse il suo consenso. Ma quando Mihajlov si rivolse all’Ambasciata gli venne detto che era un pazzo e che con l’intervista avrebbe provocato un incidente diplomatico. Krusciov però insisteva, pronto a rilasciare l’intervista a patto che gli venisse garantita la pubblicazione sulla rivista “Telegram”. Mihajlov non ottenne però il benestare del direttore della rivista e da lì a poco dovette rientrare in patria.
Fu solo molto più tardi che Mihajlov capì l’insistenza del premier sovietico nel voler essere intervistato. Il racconto del viaggio in Unione Sovietica venne completato da Mihajlov in ottobre, proprio nel periodo in cui Krusciov scese dal trono e in Urss ricominciò la stalinizzazione guidata dal triumvirato Breznev–Kosygin–Podgorny e nel febbraio del 1965 la rivista letteraria belgradese “Delo” (“Opera”) ne pubblicò la prima parte dal titolo ”Estate moscovita 1964”.
Le reazioni dell’ambasciatore sovietico e di Tito
L’ambasciatore sovietico Puzanov reagì immediatamente alla pubblicazione e mandò una nota di protesta a Tito. Quando “Delo” pubblicò la seconda parte del racconto di viaggio, ad un convegno di magistrati Tito accusò la rivista di mancata vigilanza, dichiarando che “Mihajlov è un reazionario che ha infangato la grande idea della rivoluzione di Ottobre”. Il 4 marzo, nel giorno della comparsa del discorso di Tito sulla stampa, uno degli studenti di Mihajlov bussò alla porta del suo ufficio e disse: “Professore, è tempo!”. Degli agenti di polizia erano venuti ad arrestarlo.
Venne accusato per “offese a carico di una potenza straniera (URSS) e la divulgazione illegale di un articolo” e condannato a cinque mesi di reclusione. L’ulteriore distribuzione di quel numero di “Delo” venne vietato e il caporedattore della rivista pubblicò un articolo in cui chiese perdono ai lettori.
L’arresto di Mihajlov coincise con la preparazione del primo congresso dell’associazione PEN International organizzato in un paese comunista, che doveva tenersi a Bled a giugno. Il famoso drammaturgo e scrittore americano Arthur Miller, allora segretario del PEN, inviò alle autorità un messaggio secco: “Mihajlov in prigione? Allora non veniamo in Jugoslavia!”. Il risultato fu che la Corte suprema della Croazia si affrettò a cambiare la sentenza di condanna, riducendola con la condizionale.
Un’anima che non si spezza
Mihajlov perse il lavoro, gli venne ritirato il passaporto e gli venne proibito di pubblicare i suoi scritti, mentre “Estate moscovita 1964” veniva tradotta in diverse lingue europee e pubblicata all’estero. Schiacciato dal muro di silenzio e conformismo, dopo che l’11 luglio del 1966 Tito minacciò i nemici del socialismo Mihajlov gli rispose da Zara con una lettera aperta: “Essere contrari al monopolio del Partito comunista non vuol dire essere nemici del socialismo… Noi non vogliamo vivere nella paura!”.
La legge in vigore prevedeva che bastassero cinque intellettuali per fondare una rivista. Mihajlo decise di farlo, a Zara, assieme a un gruppo di persone che come lui erano convinte che la libertà di pensiero fosse un diritto in ogni società civile. Così, assieme a una decina di intellettuali e artisti non comunisti, annunciò per agosto l’incontro di fondazione di una pubblicazione “indipendente e democratica”. Tre giorni prima della riunione, Mihajlov venne nuovamente arrestato e condannato a 4 anni e mezzo di carcere. Dopo di lui, altri del gruppo pagarono con la prigionia la “Dichiarazione di Zara”, documento di fondazione della rivista che non riuscirono mai a registrare, scritta mentre Mihajlo era già in carcere.
Ciò che negli anni ’70 cominciò ad accadere nella vita di Mihajlov assomigliava alle vicende subite da altri dissidenti dell’Est: la prigionia e l’isolamento; le conseguenze su famiglia, amici e sostenitori; il sequestro dei beni materiali; gli attacchi subiti dalla stampa di regime e, infine, l’emigrazione all’estero. Inoltre, in comune con gli altri dissidenti, tenne una densa corrispondenza con lettori e intellettuali all’estero, come lo scrittore giornalista Arturo Capasso che in Italia sul “caso Mihajlov” sensibilizzò molti intellettuali tra i quali Ignazio Silone.
Dopo un’altra condanna al carcere venne rilasciato nell’ottobre del 1977, a circa metà della pena nel giorno della riunione a Belgrado della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (ndr: poi divenuta OSCE). Chiese a ripetizione il passaporto, che gli fu concesso solo nel marzo dell’anno successivo. Decise di partire per gli Stati Uniti, dove era stato invitato a tenere delle lezioni nelle università, con l’idea di tornare sei mesi dopo. Ma mentre era all’estero, venne emessa un’altra condanna e gli venne tolta la cittadinanza jugoslava.
Negli USA tenne subito una serie di conferenze sulla “Jugoslavia ieri, oggi e domani” basate sulla sua tesi – da considerasi oggi profetica – secondo la quale se la Jugoslavia non si fosse democratizzata avrebbe subito un totale fallimento. In patria lo attaccavano per le sue idee “reazionarie”, dove il suo spirito riformista venne qualificato in maniera dispregiativa come “mihajlovismo”, mentre l’emigrazione jugoslava di destra lo considerava apologeta del comunismo. Negli anni della sua vita americana, pur ricevendo dall’FBI l’avvertimento che la polizia segreta jugoslava voleva liquidarlo, Mihajlo tenne lezioni in diverse università americane ed europee. I suoi saggi su grandi scrittori russi furono tradotti in varie lingue e per diversi anni fu collaboratore di Radio Free Europe. Unico dissidente jugoslavo privato della cittadinanza, che gli venne riconfermata all’inizio degli anni ’90 con la cancellazione del reato, Mihajlov fece definitivamente ritorno a Belgrado nel 2001.
Al rimpatrio, Mihajlov raccontò scherzando (ma non troppo) che era rientrato perché gli mancavano i ćevapčići, soprattutto quelli della kafana “Zora” di Belgrado. Da accompagnare con quella che definì “la vodka dei dissidenti” che beveva durante i tempi duri per liberarsi dalla tensione e di cui condivise la ricetta con gli amici belgradesi: in mezzo litro di vodka aggiungere due etti di rafano tagliato a piccoli dadi, dopo otto ore togliere il rafano e servire con limone. E poi brindare: “Nazdrovje!”.
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