Migranti armeni in Turchia, una storia al femminile
Secondo stime non ufficiali tra i 10 e i 20mila immigrati armeni lavorano in Turchia senza i permessi necessari. In gran parte si tratta di donne. A farne le spese maggiori, però, sono i figli degli immigrati, ai quali non è garantita nemmeno l’istruzione. Nostro reportage
Istanbul, cortile della chiesa armena Surp Hovhannes. Ogni sera il via-vai si fa intenso col calare del sole. Giovani donne armene, lavoratrici immigrate, si avvicendano per riportare a casa i figli all’uscita dalla scuola elementare situata nel seminterrato della chiesa. Una scuola “clandestina”, frequentata da 105 bambini privi per la maggior parte di una carta d’identità, perché nati in Turchia da genitori senza permesso di soggiorno. Una situazione che, in tutta la Turchia, interessa circa mille bambini e che rappresenta uno dei problemi più seri per gli immigrati armeni che si trovano in condizione di “irregolarità”.
Secondo stime non ufficiali, tra i 10 e i 20mila immigrati armeni lavorano in Turchia senza i permessi necessari. In gran parte si tratta di donne. Le difficoltà economiche riscontrate in Armenia le hanno portate a spostarsi all’estero per cercare lavoro. Istanbul, per la vastità delle possibilità offerte, è diventata la destinazione principale per molte di loro. Hanno trovato impiego in fabbriche, atelier tessili, oppure commerciano tra i due paesi. La maggioranza di loro, però, lavora in casa come donna delle pulizie, badante per anziani e malati e baby-sitter.
Storie di immigrati
Gli uomini, invece, molto spesso restano senza lavoro: per loro l’occupazione principale è badare affinché alla propria famiglia non accada nulla di male. Alcuni immigrati armeni, però, lavorano presso gli orafi del Gran Bazaar, oppure fanno i calzolai negli atelier di Gedikpaşa. E’ il caso di A. “Siamo qui per lavorare. Cosa ci starei a fare se ci fosse lavoro in Armenia?”. In poche parole l’uomo, che preferisce non dare le proprie generalità, riassume il motivo per cui si trova a Istanbul con la moglie e la figlia. A. ci tiene a precisare che, comunque, non si lamenta di niente.
“Ho tre figli, e lo stipendio da insegnante che mi veniva dato in Armenia non ci permetteva di mantenerci”, spiega una delle responsabili della scuola elementare di Surp Hovhannes, laureata, come molte altre donne che hanno scelto di lasciare il proprio paese. “Viviamo a Istanbul da sette anni. All’inizio, prima di iniziare a lavorare a scuola, per qualche mese ho fatto la domestica, ma non ho potuto continuare perché mi pesava molto non essere trattata alla pari”.
Le famiglie armene vivono prevalentemente raccolte nel quartiere di Kumkapı, uno dei quartieri storici degli armeni “autoctoni” di Istanbul, la cui comunità conta oggi 60mila persone. Qui le economiche e poco decorose “camere per celibi” destinate qualche decennio fa ai migranti provenienti dall’Anatolia, si sono trasformate nel tempo negli alloggi per i migranti provenienti dall’estero, che si trovano a condividere spazi ristretti anche in più persone.
“Sono qui dal 2002 e vivo assieme a mio marito, mia figlia e mia suocera. Quando siamo arrivati non era facile trovare un alloggio. A noi è andata bene, perché c’era già mia suocera qui. Ora invece c’è un passaparola sulle stanze disponibili che inizia fin dalla stazione dei pullman”, ci dice Y., madre di una bambina che frequenta la sesta classe.
La stazione di cui parla Y. è la Emniyet Otogar dove una volta a settimana partono e arrivano gli autobus tra Istanbul e Yerevan. Dato che la frontiera tra la Turchia e l’Armenia è chiusa, il viaggio viene compiuto attraverso la Georgia. Per arrivare, ci vogliono almeno 36 ore di viaggio. Il biglietto di andata e ritorno costa 100 dollari, un affare a confronto del biglietto aereo Yerevan-Istanbul che può raggiungere i 750 dollari.
Perché la Turchia? Molti immigrati danno la stessa risposta: “Era la destinazione più vicina, aveva una popolazione armena locale e poi effettuare il primo ingresso era più facile rispetto ad altri paesi come Ucraina e Russia. Per entrare ci vuole solo un visto turistico acquistabile alla frontiera, che costa 15 dollari ed è valido per un mese”.
E’ una volta in Turchia, però, che iniziano i problemi. Perché se di lavoro ce n’è, è quasi sempre in nero. Fino allo scorso febbraio uno straniero, se aveva i mezzi economici, poteva rinnovare il visto turistico uscendo per un giorno dal territorio turco per rientrare di nuovo. Ora, secondo la nuova legge per contrastare il lavoro irregolare degli immigrati, si impone che il “turista” dopo un periodo di permanenza massima di tre mesi non possa rientrare prima di 90 giorni trascorsi fuori dalla Turchia.
Se per molti immigrati uscire dalla Turchia ogni mese era già fuori questione, con stipendi che oscillano tra i 550 e gli 800 dollari, oggi le cose diventano ancora più complicate. E la prospettiva che i datori di lavoro assumano regolarmente, versando i 780 dollari previsti dalla legge, resta quasi sempre una chimera. E infatti, niente di concreto sembra cambiato nella vita dei diretti interessati: “Viviamo sempre con l’ansia del visto e della deportazione”, ci confessa preoccupata M.
Secondo R., invece, che due anni fa ha raggiunto il marito e la suocera (che hanno regolare permesso di soggiorno) “la polizia sa distinguere le persone. Non toccano le persone per bene che lavorano”. Suo marito ha subito tre interventi chirurgici, ma ha diritto a essere ricoverato negli ospedali turchi. Chi invece è “irregolare” quando si ammala viene seguito nell’ospedale Surp Pırgiç della comunità armena a Istanbul.
Per R. il dolore più grande è non riuscire a vedere i genitori. La madre è venuta una volta a trovarli, ma la figlia più piccola di un anno non ha mai conosciuto i nonni. “Se andassimo noi non riusciremmo a tornare tanto facilmente…”. Chi viene individuato all’uscita dalla frontiera può rientrare solo versando una penale di 15 dollari per ciascun giorno trascorso illegalmente nel paese, oppure accettando di non rientrare più in Turchia per 5 anni. “Ho tutti i parenti in Armenia”, racconta S. “Quando c’è un matrimonio o un funerale, non possiamo muoverci e questo ci fa soffrire molto. Non ci consola nemmeno il fatto di riuscire a mandare soldi a casa”.
Fortemente penalizzati i figli degli immigrati
Sono però i più piccoli ad essere maggiormente penalizzati da questa situazione. Quando una coppia “irregolare” di immigrati armeni ha un figlio in Turchia non può chiedere la cittadinanza alle autorità per il nuovo nato. Ma anche l’assenza di relazioni diplomatiche tra Ankara e Yerevan rende tutto ancor più complicato. Il bambino non può ottenere un passaporto se non andando in Armenia, ma non viene fatto passare alla frontiera se non ha alcun documento di identificazione. “Mia figlia non riesce a immaginarsi l’Armenia, quando gliene parlo. Per lei è una realtà molto distante”, ci dice un’altra immigrata. E’ un serpente che si morde la coda. Ma non finisce qui.
Il groviglio di divieti e difficoltà si ripercuote direttamente sul diritto dei bambini ad avere un’istruzione. I figli degli immigrati armeni, con un passaporto armeno o senza documenti d’identità, non possono frequentare le scuole pubbliche turche. A partire dall’anno scorso un regolamento ha concesso a questi ragazzi di potersi iscrivere alle 17 scuole delle minoranze armene locali in qualità di “ospiti”, ossia permettendo loro di frequentare le lezioni senza però che gli venga rilasciato alcun diploma valido a livello nazionale.
Pochi gli iscritti quest’anno, perché, a detta degli interessati, per le famiglie c’è sempre il rischio di venire esposti e in buona parte perché il programma scolastico, pur trattandosi di scuole armene, è interamente modellato su quello turco, senza alcun riferimento al popolo armeno e alla sua storia. Un programma che ad ogni modo non consentirebbe ai ragazzi di inserirsi nelle scuole armene se tornassero indietro. C’è poi anche il problema della lingua: l’armeno dell’Est (parlato in Armenia) è infatti una variante diversa da quello usato in Turchia.
La scuola elementare di Surp Hovhannes
La scuola elementare di Surp Hovhannes cerca, da dieci anni, di rimediare a questa difficile situazione, mentre le autorità turche, data l’assenza di alternative valide, chiudono un occhio sulla sua “clandestinità”. Sei classi gestite da sette maestre volontarie seguono il programma delle scuole armene.
“All’inizio avevamo appena sette bambini. Ora sono oltre un centinaio, inclusi quelli della materna. Quest’anno siamo riusciti ad aprire anche la sesta classe, ma per l’anno prossimo non c’è più spazio”, ci spiega una delle responsabili scolastiche.
Sono diverse iniziative congiunte a mantenere in piedi la scuola: “La chiesa ci dà gli spazi e si accolla tutte le bollette. La Caritas, a partire dal terzo anno, ha iniziato a fornirci i pasti per i bambini e ci ha messo a disposizione due persone per le pulizie, così non dobbiamo occuparci anche di quello, mentre i libri ce li manda il ministero della Diaspora dall’Armenia. Il comune di Bakırköy, poi, l’anno scorso ha organizzato attività sportive per i bambini fornendo dei pulmini per il trasporto. Una volta hanno anche previsto una visita dentistica”.
Dove andranno i bambini quando non ci sarà più posto? “Due miei amici sono tornati in Armenia dai nonni” dice N.,12 anni, “altri due hanno iniziato a frequentare le scuole armene locali, ma raccontano che è tutto diverso rispetto a qui”.
La madre è però ancora incerta sul da farsi. Sembra sicura solo su una cosa: “Un giorno, anche da vecchi, ritorneremo in Armenia. I bambini devono poter mantenere il legame con il loro paese d’origine”.
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