Microcosmi. Sarajevo centro del mondo
Il quarto di una serie di racconti che prendono spunto dal percorso formativo “Ex Jugoslavia, una guerra postmoderna. Viaggio nel cuore dell’Europa” realizzato nel settembre scorso dall’Istituto storico di Modena
(Pubblicato in concomitanza con il blog www.michelenardelli.it)
«… Sarajevo è diventata ben presto metafora del mondo.
Il luogo in cui differenti volti del mondo si sono raccolti in un punto
come nel prisma si concentrano i raggi di luce dispersi …
È diventata un microcosmo,
centro del mondo che, come ogni centro secondo l’insegnamento degli esoterici,
contiene tutto il mondo»
Dževad Karahasan
Questo breve racconto non è dedicato ad una persona ma ad una città. Una città che è fatta di tante cose che nel tempo sono diventate genio del luogo: ambiente, storia, cultura, tradizioni, saperi e, ovviamente, persone.
Quelle che ho incontrato e attraverso le quali ho amato e amo una città del tutto speciale che si è presa un posto di rilievo nella storia, in quella più lontana con la S maiuscola, come in quella ancora da elaborare di un infinito presente.
Scrivere di Sarajevo può risultare retorico, perfino banale. Un fiume d’inchiostro è stato versato per descrivere “la polveriera d’Europa” o per altro verso “la culla della cultura europea”, per confermare gli stereotipi o per celebrarne il fascino malgrado ciò che le ha riservato il Novecento. Cosa potrei mai aggiungere di nuovo a quanto già scritto?
Eppure c’è qualcosa che mi spinge a scriverne, perché a ben vedere del suo cuore balcanico (e dunque di sé) questa nostra Europa conosce ben poco. Tanto che ancora oggi, proprio nei giorni del centenario della fine della Prima guerra mondiale, sentiamo voci autorevoli affermare stoltamente che l’Europa da settant’anni non avrebbe più conosciuto la tragedia della guerra.
Un’amnesia che ci dice molto, che sa di rimozione. E non parlo solo dei quattro anni di assedio di una capitale europea trascorsi nell’indifferenza dei più. Penso a quel vuoto di conoscenza verso la complessità delle proprie radici che ci porta ad espungere dal nostro immaginario quel microcosmo che – come ci spiega Dževad Karahasan – contiene in sé tutto il mondo1.
Il delirio identitario – che ha avuto con l’avvento degli Stati–Nazione il proprio apogeo – ha fatto sì che verso questi microcosmi, come in genere verso ogni manifestazione di sincretismo, si esprimesse diffidenza se non proprio aperta avversità. Vale per il cosmopolitismo delle città, nell’emergere di un antico conflitto con le aree rurali tutt’altro che arcaico, tanto da farne uno dei tratti della postmodernità. Figuriamoci per Sarajevo.
Qui non si tratta semplicemente di cosmopolitismo, in questi luoghi non si rispecchia il mondo o l’Europa: Sarajevo è l’uno e l’altra. Lo è costitutivamente, come Gerusalemme, come Damasco. Per questo le nuove guerre le vorrebbero piegare, omologare, cancellare.
Parlare di questi tratti costitutivi richiederebbe ben più di un racconto breve. Una storia che va dai “patarini bosniaci” – come Karahasan definisce l’eresia bogomila che segnò questa parte d’Europa analogamente ai loro fratelli della Linguadoca – , alle origini sincretiche dell’islam europeo. Che riprende quel fil rouge che dalla Damasco degli Omayyadi arriva allo splendore di Cordoba, non a caso la città più grande d’Europa nell’anno mille. Che, dopo quel fatidico 1492, dall’Andalusia (e da Sefarad) giunse a Salonicco e a Sarajevo attraverso migrazioni forzate da antiche pulizie etniche le quali, pur senza intenzione, rappresenteranno l’onda lunga di quel movimento delle traduzioni a cui dobbiamo gran parte delle nostre conoscenze filosofiche e scientifiche. Tanto che ancora agli inizi del Novecento la seconda lingua parlata nella capitale bosniaca era lo spagnolo, ovvero l’antico ladino degli ebrei sefarditi.
Non è dunque affatto casuale che il delirio destinato a ricoprire di sangue il Novecento europeo inizi, almeno sul piano simbolico, proprio nelle vie di Sarajevo, in quel 28 giugno 1914 che rappresentò il grande pretesto per quella terrificante carneficina nel nome della supremazia nazionale. Come non è casuale che quel secolo finisca proprio lì, nell’assedio urbano più lungo che la storia moderna abbia conosciuto.
Avremmo dovuto comprendere che quanto avveniva in quei 1425 lunghissimi giorni non era un atto di guerra come altri, ma il tentativo di cancellare ciò che Sarajevo rappresentava ben oltre il perimetro di quella città. Avremmo dovuto capire che ad essere assediata, insieme alla città, era l’Europa, in quegli stessi anni alle prese con una Costituzione che mai avrebbe visto la luce, inchiodata proprio sul nodo delle sue radici culturali e sulla menzogna dello “scontro di civiltà”. E, con lo sguardo di ora, anche un’idea di futuro.
Il disegno non era la conquista o la spartizione di Sarajevo (al di là che qualcuno possa averci pensato e anche provato). Si voleva demolirne l’essenza, il suo valore culturale, la sua dimensione simbolica, il suo essere – appunto – microcosmo.
Questo avveniva certo anche attraverso la distruzione materiale e l’assassinio sistematico, ma forse ancor più importante per gli assedianti (e per i loro mandanti più o meno consapevoli) era quella che sempre Dževad Karahasan definisce “distruzione metafisica”, la distruzione che lascia macerie immateriali, che non si possono vedere se non come mancanza.
Questo era il valore “militare” della devastazione della Vijesnica2 e dell’Istituto Orientale3, avvenuti proprio all’inizio dell’assedio. Altro che barbari. C’era una terrificante lucidità nella scelta dei luoghi da colpire come nel lavoro sistematico di cecchinaggio: cancellare e sfiancare l’incontro di civiltà che quei simboli e quelle persone nell’assedio continuavano ostinatamente a rappresentare. E, attraverso la sua militarizzazione, omologarne i comportamenti. Per questo ascolto con scetticismo le storie sulla difesa militare della città.
Con la stessa retorica, potremmo dire che la città ha vinto, ma così non è stato. Lo si vedrà, eccome, tanto nell’assedio come nel lungo e difficile dopoguerra: nel prendere corpo di dinamiche di natura criminale all’interno della città che, dopo Dayton, diverranno la struttura organizzata del turbocapitalismo, come nell’affermarsi di una nuova classe dirigente che si contrapporrà in forme scioviniste allo sciovinismo serbo. Una metamorfosi che, proprio grazie all’assedio, con il tempo si era impadronita oltre che del potere anche del racconto.
Pur nell’orgoglio di essere sarajevesi, lo sanno bene le persone care che in questi anni mi hanno fatto conoscere questa città. Storie e sguardi molto diversi fra loro. Chi con il suo approccio contemplativo come Dževad Karahasan, professore dell’Accademia delle arti teatrali della città dove insegna drammaturgia, “lo scrittore dell’assedio” come l’ha definito l’amico Piero Del Giudice4; chi con il proprio orgoglio urbano come Kanita Fočak, il cui fascino ha ispirato storie e ballate; chi come Azra Nuhefendić ci ha fatto conoscere con i suoi racconti straordinarie pagine di vita di questa città. E tante altre.
È proprio con Azra che condivido un giorno di agosto per le vie di Sarajevo. Da oltre vent’anni Azra vive e lavora a Trieste, in quella città il cui nome privo di consonanti, Trst, da bambina si divertiva a pronunciare con la bocca piena di latte in polvere, che divenne il mito delle cose lussuose e colorate che non si trovavano nella vecchia Jugoslavia come ad annunciarne la sconfitta, che la faceva sentire a casa grazie a quell’espressione “ai bei tempi di Franz Josef” che il nonno materno soleva pronunciare, al pari di tanti triestini nostalgici del mito asburgico. Dopo Sarajevo, Azra si trasferisce a Belgrado dove lavora negli anni ’80 come giornalista facendo la spola con la sua città natale fin quando le sarà possibile, per poi ritrovarsi come tanti altri orfana di un paese scomparso dalle carte geografiche. Non più jugoslava, ma nemmeno italiana. Ed ora quando nella sua Sarajevo ci ritorna, fatica ogni volta un po’ di più a riconoscerla. Anche lei “cittadina del nulla”5.
Condizione diffusa fra gli apolidi. Una vita spesa immaginando il ritorno in un luogo dal quale sei dovuto andar via, per il quale ti sei speso mettendo in gioco la tua stessa vita, di cui hai parlato in mille conferenze e che poi, rientrando, non riesci più a riconoscere. Penso al racconto del Signore di Lifta6 o al libro della sua prima vita che un caro amico regista afghano ha voluto concludere rendendo omaggio a Walter Benjamin in quel promontorio affacciato sul mare di un luogo di frontiera7 dove – stanco di confini e di filo spinato – decise che il suo tempo era finito.
«Guerra è sempre» esclama Mordo Nahum, il greco, rivolgendosi al giovane Primo Levi ancora convinto che il Lager fosse un’anomalia8. Apolidi, stanchi di sentirsi ovunque fuori posto. Anche in questa città dove prima o poi Azra forse tornerà a vivere.
Chissà, il futuro è davvero incerto ed il presente ancora così ingombro di macerie. Oggi la Vijesnica appare in tutto il suo splendore, ma così diversa da quella di cui Azra ci ha raccontato in “Neve nera”. «Nella Vijesnica c’era un’atmosfera affascinante. Ci piaceva l’ambiente, ci dava la sensazione di far parte di un mondo importante, saggio e bello. Eravamo convinti che lì si aprivano le porte dell’ignoto – diverso, lontano – insomma tutto quello che poteva essere un futuro migliore. Era il luogo dove nascevano e si sviluppavano le simpatie, gli amori e le passioni non solo per la conoscenza o per il sapere, ma anche per un’altra persona»9. Che ora si debba pagare per entrarci la fa arrabbiare, anche se non lo dice.
Visitare Sarajevo insieme ad Azra è un privilegio, laddove i luoghi s’intrecciano con il vissuto di questa donna che è un po’ come la sua città e che s’inalbera di fronte ad un gesto maleducato, come a far rivivere una saggezza e una gentilezza scomparse.
Ricordo con commozione l’espressione «Srce moje»10 che mi disse una signora di Sarajevo alla quale chiesi un’informazione in una delle mie prime visite nel dopoguerra. Un dopoguerra nel quale ho avvertito sempre più nitidamente l’onda lunga dell’assedio o, per essere più veri, della sconfitta. Quella che leggi negli occhi delle persone anziane che s’aggirano nelle bancarelle dei mercati per vedere quel che si possono permettere con le loro pensioni da fame, che puoi rintracciare nei vestiti di un tempo e diventati lisi un po’ come i loro volti rassegnati, che puoi scorgere nelle persone che si sforzano timidamente di chiedere l’elemosina dopo aver messo da parte quel che rimaneva della loro dignità, nella prostituzione che in passato non avevo mai visto, persino nell’insorgere sfacciato dei centri commerciali in dispregio dei luoghi e del loro valore simbolico.
E, nonostante tutto questo, nelle tracce di raffinatezza nel portamento dei sarajlija, nelle persone che ancora ricordano antichi modi di vita, nelle viuzze della Čaršija e nei caffè che non si sono arresi alla Coca Cola e ancora ti propongono lo smreka11.
Corre frenetica Azra, fra le via della Baščaršija, in turco il “mercato principale”, fermandosi di continuo per descrivere l’anima profonda di questa città, raccontando delle abitudini dei suoi abitanti o dei suoi vecchi mestieri di cui ancora si rintracciano gli ultimi artigiani, oppure per parlarci degli anni ’90 nel visitare il monte Trebević da dove l’artiglieria dei nazionalisti serbi teneva sotto scacco la città. Un tempo c’era la vecchia funivia, un luogo caro a tutte le generazioni di sarajevesi, perché era da lì – come scrive Azra – che i ragazzini scendevano d’inverno con la slitta o con gli sci. Poi con la guerra venne distrutta e la stazione in quota usata dai criminali per colpire il cuore della città. Ora ci si arriva con una nuova funivia, inaugurata il 6 aprile scorso, nell’anniversario della liberazione di Sarajevo dal nazifascismo.
Mentre guardo Sarajevo dall’alto, scorgendone palazzi e vie conosciute, mi vengono in mente le parole con cui si chiudeva il film “Valter difende Sarajevo”12, quando il colonnello tedesco rivolto all’agente della Gestapo che vorrebbe sapere l’identità di Valter (il leggendario partigiano che si oppose all’occupazione) indica la città sottostante con le parole «Das ist Walter ». Che ne è oggi di Valter?
Corre frenetica Azra, la voglia di partire, il desiderio di ritornare, le valigie sempre pronte: «Noi non sappiamo ancora dove siamo diretti, né quali saranno le fermate»13.
Metafora del nostro presente. Il fatto è che siamo piuttosto distratti. Se avessimo saputo leggere per tempo i messaggi che questa città ha continuato ad inviarci, forse oggi l’Europa non sarebbe così malandata.
Sarajevo, ottobre 2018
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1 Dževad Karahasan, Sarajevo, centro del mondo. Diario di un trasloco. ADV, 2012
2 Si tratta della Biblioteca nazionale universitaria di Sarajevo. Realizzata alla fine dell’Ottocento come sede del Municipio di Sarajevo, nel secondo dopoguerra divenne la Biblioteca universitaria. Il 25 agosto 1992 e nei giorni immediatamente successivi venne colpita con bombe incendiarie per distruggerne il grande patrimonio di libri e manoscritti e ciò che quell’edificio rappresentava sul piano culturale ed affettivo per i cittadini di Sarajevo. Dopo il suo restauro è tornata ad essere la sede del Municipio della città.
3 Venne distrutto deliberatamente il 17 maggio 1992. Oltre ad una biblioteca, conteneva 5.268 manoscritti in lingua araba, persiana, turca, ebraica che testimoniavano degli intrecci migratori attraverso i quali è formata l’Europa.
4 Ho conosciuto Dževad Karahasan grazie a Piero Del Giudice, caro amico recentemente scomparso che del poeta e drammaturgo sarajevese è stato editore ed amico.
5 Cittadini del nulla è il titolo di un film di Soheila Javaheri e Razi Mohebi.
6 Il riferimento è a Ali Rashid e al suo racconto dedicato al ritorno a Gerusalemme dopo 25 anni di esilio.
7 Mi riferisco a Port Bou, al confine fra Francia e Spagna, dove Benjamin si suicidò il 26 settembre 1940.
8 Primo Levi, La Tregua, Einaudi, 1963
9 Azra Nuhefendić, Neve nera in Le stelle che stanno giù. Edizioni Spartaco, 2011
11 Smreka è una bevanda tradizionale molto dissetante a base di ginepro e limone
12 Valter brani Sarajevo (Valter difende Sarajevo)
13 Azra Nuhefendić, Il treno in Le stelle che stanno giù. Edizioni Spartaco, 2011
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