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Area: Ucraina

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Michajlo Draj-Hmara: la poesia ucraina nei gulag di Stalin

Michajlo Draj-Hmara, vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, è una figura poco nota del panorama letterario dell’Ucraina. Accusato di attività controrivoluzionaria e di nazionalismo morì in Siberia, nei gulag di Stalin

22/04/2020, Martina Napolitano -

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(Pubblicato in collaborazione con EastJournal )

Poeta, traduttore, filologo, professore, mirabile poliglotta (o, piuttosto, iperpoliglotta, a conoscenza di ben 19 lingue): Michajlo Draj-Hmara (1889-1939) è una figura poco nota del panorama culturale, storico e letterario ucraino, soffocata, come tante altre, tra le pieghe della storia dal clima socio-politico in cui si ritrovò a vivere. A differenza di diversi volti, poi riemersi, conservati nella memoria culturale, per lo meno da quella clandestina, la figura di Draj-Hmara è ancora tutta da scoprire – e non solo fuori dall’Ucraina. A Kiev solo nel novembre del 2014 si è apposta una targa in suo onore in via Sadova 1/14, dove abitava, e se non fosse stato per l’indefesso lavoro di raccolta, studio e commento della figlia Oxana, professoressa emigrata negli USA nel 1951, la sua produzione sarebbe per molti versi ancora ignota.

A partire dal 1933 divenne un personaggio sempre più scomodo all’interno del mondo sovietico e come molti altri fu presto arrestato, condannato sulla base di prove dubbie quando non fabbricate. Venne inviato in Siberia, più precisamente nella Kolyma, la terra dell’oro e del terrore, magistralmente – e tragicamente – immortalata nella prosa di Varlam Šalamov (I racconti della Kolyma). La vita qui era così dura che “un anno conta per due, perciò spero di essere liberato prima”, scriveva a casa Draj-Hmara, ancora speranzoso, nel giugno del 1936; “la temperatura raggiunge i 45 gradi sotto zero, ma non la sento; è come stare a -15 gradi a Kiev”, raccontava. Il poeta morì nell’inverno del 1938-39 in circostanze mai del tutto chiarite. Le fonti ufficiali parlano di arresto cardiaco, ma i ricordi di un compagno internato, Michail Dobrovol’skij, raccontano una versione differente: sfidò delle guardie apparentemente alticce che stavano sparando agli internati, mettendosi davanti a un compagno più giovane.

Poeta fin dalla tenera età, Michajlo Draj-Hmara studiò filologia slava all’università di Kiev nei primi anni Dieci. Per studio e ricerca si recò in quegli anni a Zagabria, Budapest, Belgrado, Bucarest. Durante il Primo conflitto mondiale era già professore universitario a Pietrogrado: qui, se da un lato si appassionò alla poesia di Mandel’štam e al simbolismo di Blok (evidente nella sua produzione poetica), dall’altro “scoprì” in un certo senso la propria identità fieramente ucraina. Fu allora che aggiunse, accanto al suo cognome originario Draj, la parola ucraina Hmara: assieme all’assonante drei tedesco, il suo nuovo cognome prese a significare “tre nubi”.

A Pietrogrado il giovane studioso partecipava alle riunioni degli altri ucraini, studiò con passione la storia ucraina: come racconta la figlia, tornò a Kiev nel maggio del 1917 “pensando e vivendo in maniera nuova”. Il suo rientro in Ucraina era in fondo legato a questo suo cambiamento: era interessato a prendere parte attiva al risveglio nazionale. Si trattava di un’idea diffusa nell’ambiente dell’università di Kam"janec’-Podil’s’kyj dove Draj-Hmara prese a insegnare filologia slava, slavo ecclesiastico, storia delle lingue e letterature polacca, serba e ceca tra il 1918 e il 1923, prima di tornare a lavorare a Kiev. In questi anni si mise anche a tradurre la Divina Commedia, lavoro che finì sequestrato dalla polizia segreta sovietica e andò così perduto (la prima traduzione integrale in lingua ucraina uscì solo nel 1976, a cura di Evgen Drob’jazko). Nel 1926 venne pubblicata l’unica sua raccolta poetica edita in vita, Prorosten’; altre due uscirono postume nel 1969.

Michajlo Draj-Hmara fece parte, come poeta, della pleiade dei cosiddetti “neoclassici”, un gruppo di poeti che nella Kiev degli anni Venti sviluppavano linee e forme (neo)classiche nella letteratura ucraina: tra loro Mykola Zerov, Osval’d Burghardt (più noto come Juriy Klen), Maksym Ryl’s’kij e Pavlo Fylypovič.

Si trattava, appunto, essenzialmente di una questione di forma, mentre il contenuto, più o meno allegorico, era squisitamente loro contemporaneo. La stessa scelta di rifarsi a forme del passato era qualcosa di legato in fondo all’assordante “rumore del tempo”: nel mondo rivoluzionario, in cui il nuovo doveva essere accolto, supportato, foraggiato, questa presa di posizione stilistica prendeva facilmente una piega anche politica, ostile alla nuova realtà sociale, statale. Ma non era solo una questione di forma: si pensi alla lingua, quell’ucraino che Draj-Hmara voleva vedere fiorire come una tra le tante lingue slave, una come tutte, temendo invece quella russificazione che poi si sarebbe effettivamente realizzata – e i cui esiti, soprattutto per quanto riguarda la lingua ucraina, si sentono ancora oggi. Con aspra durezza il poeta reagì al veto di Maksim Gor’kij posto sulla traduzione del suo La madre in ucraino:

«Di un “dialetto” noi vogliamo fare una “lingua”! Che orrore questo per un intellettuale russo! Secondo Gor’kij, costruendo assieme ai moscoviti la Torre di Babele (non è poi una Torre di Babele questa “lingua universale”?), dobbiamo rinunciare alla nostra lingua, alla nostra cultura, cui un popolo di 40 milioni ha dato vita nel corso di un millennio, e tutto ciò soltanto per non dar fastidio ai nostri “fratelli”».

Nella nuova realtà statale sovietica e sovranazionale non c’era spazio per voci discordanti, potenzialmente secessioniste, che minavano la realizzazione del progetto politico, sociale ed economico, che ostacolavano il nuovo corso storico in questa parte di mondo. Ogni nucleo intellettuale presente sul territorio della neonata Unione Sovietica andava vagliato: non vi erano forse degli spiriti “controrivoluzionari” al suo interno? Fu così che in Ucraina, ma anche, ad esempio, nel Caucaso e in tutte le aree popolate da gruppi nazionali non russi, come la Crimea, l’Udmurtia o i paesi baltici dopo la loro annessione post-bellica, si procedette a una soppressione sistematica dell’espressione nazionale – una storia autobiografica romanzata, ma non troppo, splendidamente da Levan Berdzenišvili in La santa tenebra , “forse l’unico libro sui Gulag sovietici che è impossibile leggere senza ridere”.

L’Ucraina in questo contesto fu forse tra le quindici repubbliche quella cui fu destinata la storia più tragica, con deportazioni di massa a partire dal 1931 che raggiunsero i due milioni di persone nel secondo dopoguerra; l’accusa più diffusa era quella di “nazionalismo”. Oltre alla pesante russificazione e alla carestia forzata del 1932-33 (holodomor ), si registrò una progressiva cancellazione dell’identità nazionale e di qualsiasi forma di opposizione, i cui esiti, come per la questione linguistica, si ripercuotono tutt’oggi. Poeti e artisti non possono però che essere voce del loro tempo, Draj-Hmara tra loro. Questa è l’Ucraina che descrisse allora:

Quale mare ingiallito:

la segale ancora da falciare,

vuota di spighe,

nell’attesa dei falciatori,

ma di questi

non c’è traccia.

È deserto qui:

nessuna fattoria,

nessun albero:

steppe,

steppe,

senza fine.

Tanta partecipazione, inevitabilmente politica, però non poteva essere tollerata in epoca staliniana. Fu così che tra il 1933 e il 1934 i neoclassici di Kiev finirono nel mirino delle autorità sovietiche; venne aperto l’affaire Zerov, in cui finirono i membri del gruppo. L’accusa era, in generale, di attività controrivoluzionaria e di nazionalismo. Come commentò lo stesso Draj-Hmara, “tra me e la rivoluzione sociale a lungo ci fu il nazionalismo, che io interpretavo, evidentemente sbagliando, come servizio verso il mio popolo”. Una delle sue poesie in particolare disturbava le autorità, I cigni (Lebedy, 1928), un sonetto che, “dedicato ai compagni”, richiama i versi di Mallarmé e si conclude con questa terzina:

Osate, cigni: dalla cattività, dal nulla

Vi fa venire alla luce la chiara costellazione della Lira,

dove ribolle l’oceano di fervente vita.

Nel 1936 Draj-Hmara fu definitivamente accusato di spionaggio a favore di agenti stranieri e preparazione di attentati contro le autorità sovietiche. Scrive Benson Bobrick in Siberia: “Fra le accuse specifiche che gli furono mosse c’era quella di aver ricevuto corrispondenza dall’estero, in base a una cartolina con il francobollo bulgaro trovata nel suo appartamento. Draj-Hmara fece notare che la data della cartolina era 1912, quando non esisteva ancora il governo sovietico, ma gli fu risposto: ‘Non ha importanza che esistesse o no; resta il fatto che lei era in corrispondenza con la Bulgaria, nostra nemica’” (1995, p. 422). Il poeta venne condannato a cinque anni di Kolyma. Anche la famiglia non restò, come accadeva di regola, indenne: la moglie e la figlia furono trasferite forzatamente da Kiev in Baschiria. In una delle ultime lettere alla famiglia, scrive sempre Bobrick, il poeta chiese loro di recitare per lui, con lui, le quartine iniziali di Amore autunnale di Aleksandr Blok.

 

* Alle traduzioni dall’ucraino ha collaborato Claudia Bettiol

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