Memorie divise: la Serbia a 15 anni dai bombardamenti
A 15 dalle incursioni della NATO, la società serba si confronta con un passato recente segnato da narrazioni divergenti. Che cosa raccontano i palazzi bombardati di Belgrado a questo riguardo?
Se i palazzi di Belgrado potessero parlare, la storia della travagliata transizione democratica della Serbia prenderebbe la forma di un racconto a tre voci. La voce del grattacielo Ušće, che svetta tra i casermoni di Novi Beograd e che fu sede della Lega dei Comunisti di Jugoslavia. La voce del palazzo della televisione di stato (RTS), incastonato dietro alla chiesa di S.Marco a pochi passi dal parco Tašmajdan. E la voce del Generalštab, il maestoso edificio in stile modernista che fu sede del ministero della Difesa e quartier generale dell’esercito (prima jugoslavo, poi serbo), le cui due ali sovrastano uno degli incroci nevralgici del centro cittadino.
I tre palazzi esordirebbero parlando della funzione prestigiosa che ciascuno svolgeva nel passato jugoslavo. Poi, arrivati agli anni ‘90, le loro tre storie convergerebbero in una narrazione uniforme, ovvero quella di come Slobodan Milošević li avesse piegati alla propria brama di potere trasformandoli in bastioni del regime. Il racconto culminerebbe nell’aprile del 1999, quando tutti e tre i palazzi furono bombardati dagli aerei della NATO nel corso dell’operazione Allied force, mirata a costringere il regime di Milošević a negoziare la cessazione dell’offensiva serba in Kosovo, limitando così la catastrofe umanitaria che ne era scaturita.
Da quel punto in poi, però, il racconto si scinderebbe di nuovo in tre storie differenti, legate ai diversi percorsi di memorializzazione di cui i tre edifici sono stati oggetto. Il grattacielo Ušće, trasformato interamente in centro commerciale nel 2005, parlerebbe di sé come simbolo dell’abolizione del passato socialista e dell’ingresso della Serbia nel sistema liberale-capitalista. Il palazzo della RTS, nel cui bombardamento rimasero uccise 16 persone tra impiegati e giornalisti, mostrerebbe la sua facciata ancora sventrata candidandosi a luogo ufficiale del cordoglio e della contestazione. Il Generalštab, infine, farebbe rimbombare i suoi vuoti; il vuoto dei due crateri che ancora oggi ne marchiano le ali, e il vuoto di memoria dalla mancata monumentalizzazione. Il palazzo stesso, infatti, non reca alcuna targa commemorativa.
Anniversario controverso
Sono passati esattamente 15 anni dai bombardamenti della NATO, i cui aerei nel 1999 per quasi tre mesi sganciarono bombe sulle principali postazioni militari della Serbia, ma anche su obiettivi ritenuti strategici quali ponti, fabbriche ed edifici pubblici. L’operazione ottenne il risultato previsto, quello di costringere Milošević a ritirare l’esercito dal Kosovo, ma costò la vita a circa 500 civili. La legittimità dell’intervento armato, non ratificato dalle Nazioni unite, e il suo bilancio politico complessivo continuano a essere ancora oggi oggetto di aspre controversie.
Pochi giorni fa si è celebrato il giorno della memoria alle vittime civili e militari del bombardamento. Le élite politiche serbe non hanno mancato questo importante appuntamento. Il presidente Nikolić si è recato a Varvarin, un paese della Serbia centrale dove 10 civili morirono a seguito del bombardamento di un ponte. L’ex premier Dačić, cui è da poco subentrato Aleksandar Vučić, ha deposto una corona di fiori presso il colle di Stražević, uno degli obiettivi militari colpiti più duramente. Numerosi ministri, rappresentanti dei governi locali e autorità dell’esercito hanno partecipato a cerimonie di commemorazione in varie località del paese.
Il caso RTS
La cerimonia più drammatica e toccante si è tenuta presso il palazzo della RTS, una delle tre voci del nostro racconto. Alle 2:06 del mattino, l’ora in cui il missile sfondò l’edificio il 23 aprile 1999, i dirigenti della televisione e i parenti delle vittime si sono raccolti attorno alla lapide e hanno acceso candele in memoria dei caduti. La lapide porta l’iscrizione “Zašto?” (Perché?), una domanda secca che da anni riceve risposte equivoche e discordanti. L’associazione dei giornalisti di Serbia (UNS) l’ha ripetuta ancora una volta, esigendo a gran voce che venga finalmente portata a termine l’indagine sulle responsabilità di quello che molti non esitano a definire un ‘crimine di guerra’.
La Commissione d’inchiesta che indaga sugli omicidi di giornalisti, forse la piaga più profonda della storia serba recente, ha promesso che si impegnerà a far luce sulla vicenda. L’ex direttore della RTS Dragoljub Milanović ha già scontato 10 anni di prigione per non aver ordinato per tempo l’evacuazione del palazzo. Ora l’attenzione si concentra sulle presunte responsabilità dei vertici dell’esercito e del ministero della Difesa, sospettati di aver taciuto l’avviso dell’imminente attacco e di avere quindi di fatto incastrato Milanović, come egli stesso ha sempre sostenuto.
Il destino incerto del Generalštab: uno sguardo semiotico
“Il costruttore staccò un pezzo dalle montagne in cui si era consumata la lotta decisiva per il destino delle popolazioni della Jugoslavia e lo portò al centro della capitale.” È con queste parole che Nikola Dobrović, partigiano jugoslavo e illustre architetto modernista, descrisse il significato del Generalštab, la sua opera più grandiosa. Si riferiva con tutta probabilità alla famosa battaglia della Sutjeska, o piuttosto al suo ancor più celebre monumento, che ‘congela’ la breccia dei partigiani jugoslavi accerchiati dalle potenze dell’Asse.
In un recente saggio dedicato al Generalštab, lo studioso Vladimir Kulić scrive che il ‘vuoto’ tra due ali del palazzo intendeva simboleggiare il progetto jugoslavo, rappresentandone l’energia creatrice e l’apertura verso il futuro. Dopo il 1999, a questo vuoto fecondo si è sostituito un vuoto negativo, quello dei crateri formati dalle bombe. Oggi, scrive Kulić, il Generalštab pone il dilemma di quale vuoto ricordare, con quale vuoto identificarsi: quello creato da Dobrović o quello creato dalla NATO?
Il semiotico Francesco Mazzucchelli, studioso di architettura in zone di conflitto presso l’Università di Bologna e autore di Urbicidio, il senso dei luoghi tra distruzioni e ricostruzioni in ex Jugoslavia (2010), si è occupato a fondo di questo dilemma. Osservatorio gli ha chiesto di riflettere sul legame tra il destino incerto del Generalštab e la fatica della società serba nel confrontarsi con i traumi del passato recente.
“Il bombardamento ha trasformato il Generalštab in una sorta di ‘monumento naturale’ di Belgrado”, dice Mazzucchelli. La sua collocazione in via Kneza Miloša, sulla quale si affacciano molte ambasciate, lo ha reso il perno di uno specifico spazio simbolico, ovvero “lo spazio del confronto e del conflitto tra il popolo serbo e la comunità internazionale”. Un perno che funziona come “una metaforica cicatrice urbana che in occasioni particolari si rimette a sanguinare”, come successe nel 2008 con le proteste contro l’indipendenza del Kosovo.
Tra ambiguità semantica e memoria culturale
Il Generalštab, continua il semiotico, è un luogo “carico di ambiguità semantica” che resiste tenacemente sia alla monumentalizzazione che a ogni tentativo di riqualificazione urbana. Se da un lato mancano targhe commemorative, dall’altro si parla da anni di trasformarlo in un hotel di lusso, ma i lavori non sono ancora cominciati.
Che cosa si nasconde dietro a questa inerzia? “Io non credo alla scusa degli impedimenti burocratici e della mancanza di fondi”, dice Mazzucchelli, “visto lo zelo con cui sono stati ristrutturati molti altri edifici”. Piuttosto, “questa inerzia riflette l’atteggiamento ambivalente delle élite serbe, che per anni hanno evitato con cura di mettere mano a una materia così sensibile e delicata, consapevoli del rischio che si corre a giocare con due narrazioni difficilmente conciliabili, quella che interpreta le rovine come un simbolo dei crimini di Milošević e quella, ben più diffusa, che le considera un atto di denuncia dell’aggressione dell’Occidente nei confronti della Serbia”.
Alla domanda se il Generalštab sia destinato a rimanere uno spazio irrisolto, un vero e proprio ‘vuoto di memoria’, Mazzucchelli risponde: “Resterà tale fino a quando le guerre degli anni ‘90 non troveranno una forma narrativa condivisa da gran parte dell’opinione pubblica serba. In ogni caso, l’idea che il Generalštab possa diventare un hotel di lusso mi mette a disagio, poiché significherebbe privare la società serba non solo di uno dei più notevoli esempi di architettura jugoslava, ma anche di un’opportunità preziosa di creare memoria culturale”.
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