Mediterranea 18, l’arte contemporanea in Albania
Protestare facendo, più che boicottando. Abbiamo incontrato Driant Zeneli, direttore artistico di Mediterranea 18, biennale di arte contemporanea che apre i battenti oggi a Tirana
Dal 4 al 9 maggio l’Albania ospita per la prima volta Mediterranea 18 – Young Artist from Europe and Mediterranean, biennale che dal 1985 promuove l’arte contemporanea come uno strumento di comprensione reciproca, collaborazione e dialogo interculturale, arte per superare confini e conflitti. Circa 300 artisti da Europa, Medio Oriente e Africa si danno appuntamento tra Tirana e Durazzo, chiamati a ragionare sul tema della Casa, passando per quattro elementi centrali: Storia, Conflitto, Sogno e Fallimento.
Alla vigilia di questa diciottesima edizione della manifestazione, Tirana si copre del turchese delle locandine e lo spot comincia a fare il giro dei megaschermi, “ma non sarà un evento di luci, fumo o solo divertimento, per noi è importante riflettere e propore una discussione”, avverte Driant Zeneli, Direttore Artistico di questa edizione albanese di Mediterranea.
Sentirsi a casa, un concetto che va ridefinito
Classe 1984, giunto alla direzione della Biennale dopo anni di lavoro tra Milano e Tirana, giovane ma con una partecipazione alla Biennale di Venezia all’attivo, per Mediterranea Driant si mette per la prima volta nei panni del direttore. “La parola Casa era già nel programma di questa edizione, ma non mi convinceva come era collocata. L’ho voluta tenere, una Casa intesa come colonna fondamentale della società in ogni epoca. Ma mi sembra che il sentirsi a casa divenga sempre più vago e il concetto di casa debba essere ridefinito”, spiega.
Nella sfida con la realtà, nel fondamentale confronto che l’arte contemporanea deve avere con la contemporaneità, nelle intenzioni del suo direttore, questa Biennale non vuole né sostituirsi ad un reportage, né riproporre formule già viste. Prova piuttosto a mettere in discussione quelle strutture politiche, sociali ed economiche che ora stanno rivelando confini che per un certo periodo di tempo erano divenuti invisibili. Oggi più che mai diventa necessario – attraverso l’arte – mettere in discussione e ridefinire questi confini. Toccare alcune realtà ed emergenze, i fallimenti di questa società intesa come una casa comune, dei propri sogni, che sono i sogni di ogni persona nella propria casa. “Di quanti milioni di storie sono fatte queste case e quanto conflitto c’è in queste case e in questi territori?”, si è chiesto Driant nella concezione del tema di questa edizione.
Nei cinque giorni della manifestazione sono previste mostre e performance, proiezioni di film ed eventi musicali, incontri e talk. “Partiremo tutti i giorni, a mezzogiorno, con ognuna delle quattro tematiche che abbiamo individuato. Cominceremo parlando di storia dall’ex residenza del dittatore Enver Hoxha per concludere con un picnic en plein air all’anfiteatro romano a Durazzo, un luogo affascinante anche perché dove finiscono le rovine iniziano le case, sopra gli scavi ci sono i balconi. Architettonicamente è una follia, ma artisticamente è irresistibile.”
Una sfida ancora da vincere
Artisticamente, le contraddizioni dell’Albania di oggi possono effettivamente offrire molte suggestioni e spunti di riflessioni, ma se a Tirana i ristoranti sono sempre pieni e le gallerie d’arte deserte significa che la sfida con l’arte contemporanea è ancora tutta da vincere. Chiedo allora che senso possa avere organizzare una manifestazione mastodontica come questa nella città in cui il numero degli artisti invitati non è molto diverso da quello delle persone interessate all’arte contemporanea. Ma Driant mi invita a individuare l’emergenza andando oltre i numeri della manifestazione.
“Se Tirana riesce ad accogliere questi artisti è anche grazie alla rete internazionale che negli anni si è venuta a creare, altrimenti non sarebbe sostenibile. Se lo facciamo è per gridare un’emergenza sociale e come farlo meglio se non con l’arte. Sono artisti provenienti da paesi diversi, rappresentano un’infinità di culture, ma soprattutto portano ognuno la propria storia. Portare questa energia è un’azione politica, se vogliamo anche una forma di protesta. Certamente un invito a fare, a resistere e non arrendersi. Non c’è dubbio che i finanziamenti pubblici a disposizione per l’arte sono pochi, e distribuendoli in maniera paritaria fra tutti, si rischia di non accontentare nessuno. Un sostegno non deve diventare un contentino, così si finisce per mettere l’artista in un angolo. So quanto è difficile, ma credo che sia fondamentale protestare proponendo azioni, occupando spazi”.
Sulla necessità di protestare “facendo” piuttosto che “boicottando”, come molti artisti invece hanno scelto di fare per non essere parte di un meccanismo – quello della scena artistica istituzionale – in cui non si riconoscono, potremmo stare a discutere per ore con Driant. Certo è che quando si decide di fare, bisogna anche fare bene. E prima di affrontare il problema della qualità degli eventi, su cui il pubblico di Tirana ha imparato col tempo anche ad abbassare l’asticella, gli chiedo una manifestazione con 300 artisti e 30 location come risponde al timore dell’insorgere di inevitabili problemi organizzativi e tecnici, dagli eventi che saltano ai video che non partono.
“È quello che mi preoccupa di più,” ammette lui. “Ma è successo anche nell’ultima edizione della Biennale di Venezia. All’inaugurazione il pubblico ha trovato gli scatoloni ancora da aprire. Noi faremo di tutto per avere le opere esposte nel modo giusto. Per me non è l’artista al primo posto, ma l’opera.”
Lo stimolo di Venezia
E proprio da Venezia arriva quest’anno quella che è stata definita un’espressione della passione per la figura dell’artista. “Viva Arte Viva” – titolo dell’edizione di quest’anno – vuole essere una biennale che mette al centro la figura dell’artista. Eppure, sono proprio manifestazioni di grandi dimensioni che rischiano di lasciare in ombra proprio gli artisti, di cancellare l’individualità e abbattere quel confronto necessario tra artista e curatore.
“È una riflessione importante quella che Christine Macel propone in questa edizione della Biennale di Venezia, l’emergenza di ridare all’artista il suo ruolo e la sua posizione. Il sistema dell’arte ci ha abituati in questi ultimi decenni a vedere l’artista come qualcosa che va a riempire uno spazio vuoto. Abbiamo visto il curatore anche arrivare a sostituirsi e prendere il posto dell’artista. Il messaggio è importante, ma il paradosso rimane. Le biennali sono strutture complesse e certamente politiche, affermare di volerle dedicare all’artista è un azzardo, me ne accorgo in pieno ora che navigo in queste acque. In Mediterranea abbiamo 60 paesi partner, ma per caso quest’anno Isreale non ha partecipato. Un’assenza importante – come si fa a parlare di Mediterraneo senza Israele – che mi è stata giustamente segnalata. Allora abbiamo invitato noi degli artisti israeliani. Io sono contento perché sono un ammiratore del loro lavoro, ma sia chiaro, vengono a riempire uno spazio lasciato vuoto, a giustificare un ruolo, una posizione geopolitica. Come vedi, neppure io, l’artista, sono immune alle dinamiche di una biennale. Inconsciamente non pensi alle nazioni, ai confini, ma devi fare attenzione nella ricostruzione delle mappe. Dov’è la libertà, dunque, se stai sempre dentro ad un circuito politico che devi rispettare?”
Ragionamento ineccepibile quello di Driant che allora mi porta a chiedergli che valore possa avere oggi una biennale, soprattutto quando sembra che ne nasca una ogni anno. “Una volta qualcuno mi ha detto che sarebbe interessante avere una biennale ogni anno”, scherza, ma battute a parte, ammette che un certo deprezzamento è evidente, “più ne facciamo e meno effetto fanno sul nostro portfolio”, ma va bene finché la formula funziona. “Offrono possibilità di incontro e sono importanti per il sistema, come anche le fiere d’arte, non c’è sottrazione di merito e comunque per un artista non sono certo le biennali la priorità”.
Non è la festa della birra
E come si trova allora l’artista nei panni del direttore di una biennale? “È come essere un direttore d’orchestra, ma speriamo che non vada come in Prova d’orchestra di Fellini,” risponde ridendo. La speranza insomma è quella di arrivare ad un suono unico, puntando sulla collaborazione e vedendo ogni persona come tassello fondamentale di questo lavoro, unico e insostituibile come appunto gli strumenti di un’orchestra. “Ho cercato di attivare la città, perché questa biennale prima di tutto è dei suoi cittadini. La risposta che ho avuto sia dagli amici che dagli sconosciuti è straordinaria. Proviamo a dimostrare che la città non è passiva, che ha voglia di fare e quando qualcosa si muove poi la gente risponde. Quelli interessati ovviamente, alla fine questa non è la festa della birra.”
Soddisfazioni e timori a parte, oltre l’attesa e chiaramente la stanchezza degli ultimi mesi di intenso lavoro, è evidente anche che Driant ha voglia di tornare presto a fare solo l’artista. “Mi tolgo la fascia di direttore artistico e metto le ali per volare verso nuove avventure, per me è una necessità.”
E le ali di cui parla mi fanno venire in mente il video in cui si ispira a Icaro e vola su un parapendio per provare a creare una nuvola o quell’altro in cui si lancia con il bungee jumping per toccare la luna nel giorno in cui si trova alla minima distanza dalla terra. Gli chiedo allora se è più difficile volare, cercare di toccare la luna oppure organizzare una biennale. “Ti rispondo come ho risposto alle preoccupazioni della mia gallerista quando decisi di accettare questa sfida: è più difficile muoversi nel mondo dell’arte”.
Mediterranea 18 prenderà il via tra qualche giorno e la domanda ineluttabile è che traccia potrà lasciare sul pubblico e soprattutto sulla scena artistica albanese. Driant Zeneli si augura che non sia “un uragano che passa solo per far sventolare alcune bandiere”, che si arrivi a costruire qualcosa, “perché è ora, è questa l’urgenza”. Altrimenti una volta finiti, i grandi eventi lasciano dietro solo un grande vuoto, l’ennesima delusione. “Ma dove va la musica quando non suoni più?” verrebbe allora da ripetere con l’arpista dell’orchestra nel film di Fellini. Ma sono domande, continua lei, di quelle che fanno solo i bambini.
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