Tipologia: Intervista

Tag: ECPMF

Area: Serbia

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Media in Serbia, c’è chi dice no

Linciaggi mediatici, aggressioni fisiche, minacce. Sono queste le pressioni che subisce, nella Serbia di Vučić, chi si occupa di giornalismo investigativo. Un’intervista con Branko Čečen, direttore del Centro per il giornalismo investigativo della Serbia (CINS)

29/11/2016, Luka Zanoni - Belgrado

Il Seemo Forum di quest’anno – evento dedicato alla libertà di stampa nel sud-est Europa – si è svolto a Belgrado dal 21 al 23 novembre. La sera del 21 novembre, poco dopo l’apertura ufficiale del Forum, è intervenuto il premier serbo Aleksandar Vučić. Con delusione e disapprovazione di molti dei circa 200 giornalisti presenti in sala, è stato fin da subito chiarito che sarebbe stato possibile rivolgere al premier, alla fine del suo intervento, solo 3 domande e solo da parte di giornalisti stranieri. Ai giornalisti locali non è stata data voce. Alcuni di loro, compreso Branko Čečen, direttore del Centro per il giornalismo investigativo della Serbia (CINS), hanno abbandonato la sala in segno di protesta, ancora prima che il premier intervenisse.

Quando la sera del 21 novembre scorso al SEEMO Forum di Belgrado è arrivato Vučić tu e altri giornalisti avete lasciato la sala. Perché?

Aleksandar Vučić è il premier della Serbia ed è il maggior responsabile del fallimento dei media di questo paese. E’ lui il primo a umiliare e offendere i giornalisti. Vučić ha sostenuto e pubblicamente lodato quei media che fanno propaganda e che in modo inaccettabile attaccano singole persone distruggendo le loro vite. Così facendo priva questo paese del diritto costituzionale dei cittadini ad essere informati in modo tempestivo, obiettivo e corretto. Lo fa in continuazione, e le cose vanno sempre peggio.

Vučić è alla guida di un paese dove non esistono media di peso che possano avere una seria influenza sul pubblico. E cosa fa? Viene ad una conferenza promossa dai giornalisti sul giornalismo e si deve starsene seduti a sentirlo raccontare come vanno le cose. Questo non è soltanto umiliante ma è anche senza senso. Più volte noi giornalisti abbiamo provato a parlare con il premier di libertà di stampa e ogni volta abbiamo ricevuto solo promesse e dopo il premier rincarava la dose, offendendo ancora di più del passato i miei colleghi.

Il mio è stato un atto di protesta, al quale si sono uniti una decina di colleghi e con il quale ho voluto mostrare di non accettare quanto stava avvenendo.

Credi che questo gesto simbolico abbia contribuito alla libertà di espressione e alla libertà della stampa?

Non mi aspettavo nulla da questo gesto, da questa protesta. Pensavo al contrario che non se ne sarebbe accorto nessuno. Alla fine abbiamo abbandonato la sala in dieci, sui duecento giornalisti presenti al Forum. Tuttavia la frustrazione, non solo dei giornalisti ma anche dei cittadini, causata dal comportamento del premier e dalle sue continue offese nei confronti dei giornalisti è tale che il nostro atto simbolico è esploso sui social media.

A questo si è aggiunto l’interesse a coprire l’episodio di quei pochi media che sono relativamente oggettivi e indipendenti. Così, d’un tratto, questo gesto, anche se non l’avevo pianificato, ha ricevuto una visibilità che mi ha letteralmente sorpreso. Il tweet che ho immediatamente twittato, senza pensarci molto, è stato visualizzato da 17.000 persone.

Speri che in futuro la situazione dei media possa migliorare?

Non mi occupo più di speranze. Mi impegno affinché la mia organizzazione possa svolgere un giornalismo investigativo secondo gli standard internazionali, in modo oggettivo, neutrale e professionale. E l’unica cosa che posso dire è che finché esistiamo possiamo essere il seme da cui un giorno, quando sarà possibile, potrà nascere un giornalismo corretto.

A mio avviso i media sono la conseguenza di un clima politico, di un quadro legislativo, dell’applicazione o meno della legge, della  volontà sociale e alla fine del successo economico di un paese. Affinché i media in Serbia possano agire correttamente occorre garantire un certo livello di stato di diritto, ed è un lavoro immenso. Anche nel caso vi fosse una seria intenzione di andare in questa direzione è un processo che durerebbe decenni.

I politici dovrebbero capire che l’unico modo per far sì che un paese inizi a svilupparsi è che i media non siano strumenti nelle loro mani e non siano mezzi di propaganda nella loro lotta per il potere. I media devono al contrario rappresentare un ambiente nel quale non solo si danno informazioni vere ai cittadini su quello che accade, sui fatti, ma dove si possa esprimere la propria opinione.

Inoltre, dovrebbero sviluppare maggiormente le istituzioni e lasciare che facciano il loro lavoro. I cittadini della Serbia non credono molto ai media perché spesso sui media non possono leggere cosa è veramente accaduto e perché, anche rispetto a fatti di grande importanza, anche perché le istituzioni non sono in grado di scoprire cosa è accaduto. Spesso non ci riesce né la polizia, né la magistratura. E quando i giornalisti lo fanno al posto loro, ecco che per anni vengono perseguitati dalla mafia che vuole ucciderli e sono costretti a vivere con la scorta o a fuggire dal paese.

Senza tutto questo non ci si può aspettare media funzionali. Ecco perché dico che, con il lavoro del Centro per il giornalismo investigativo della Serbia, sto conservando il seme per il giorno in cui funzioneranno come si deve almeno alcune di queste cose. Datemi almeno una magistratura indipendente e professionale!

Qual è il maggiore ostacolo che incontri nel tuo lavoro di giornalista investigativo?

Noi gli ostacoli li superiamo e riusciamo a fare del giornalismo investigativo. Il problema è che poi i media letteralmente seppelliscono le nostre scoperte. In un paese di semianalfabeti la televisione nazionale è totalmente controllata attraverso il mercato della pubblicità dal partito politico al potere. Quindi hai voglia a fare giornalismo investigativo… Invano lo fanno BIRN, KRIK, Insajder, tutte organizzazioni che svolgono giornalismo investigativo con grande successo e secondo i più alti standard internazionali. Tutti noi lo stiamo facendo invano.

Noi non abbiamo soldi, siamo indifesi, molto spesso minacciati, sotto pressioni legali, abbiamo grossi problemi con le istituzioni che non vogliono collaborare con noi, nonostante viga un’ottima legge sull’accesso alle informazioni, le maggiori istituzioni non ci forniscono i documenti più rilevanti. Ma sono tutte cose che noi in qualche modo riusciamo a superare, ci arrangiamo. Tuttavia loro hanno trovato una formula fantastica: voi continuate pure a lavorare, tanto il vostro lavoro non raggiungerà mai i cittadini di questo paese.

Hai mai ricevuto minacce, tu o qualcuno della vostra redazione?

Sì, alcune volte abbiamo ricevuto delle minacce, ma non ci siamo preoccupati troppo. In un sondaggio realizzato negli Usa sugli attacchi fisici contro i giornalisti, nel 70% dei casi sono avvenuti senza alcuna minaccia preventiva, perché quando uno ti vuole fare del male non viene certo a dirtelo.

Nel nostro caso tutti gli attacchi che abbiamo subito, ad eccezione di quelli irrazionali, quando per esempio i giornalisti incontrano qualcuno fuori dal tribunale e si beccano un pugno, sono arrivati dopo che erano state preventivamente raccolte informazioni sui movimenti e comportamenti dei giornalisti poi aggrediti.

Alcune giornaliste di CINS nel mese di ottobre, mentre lavoravamo ad alcune storie delicate, sono state seguite da alcuni uomini robusti dall’aspetto truce che in modo più o meno evidente le riprendevano con il cellulare o si piazzavano senza andarsene molto vicino a loro: l’intento era evidentemente quello di intimorirci ed eventualmente costringerci a mollare le indagini.

In questi casi noi possiamo fare soltanto due cose: una è di rendere la cosa pubblica, e lo abbiamo fatto, denunciando quanto accaduto alla polizia – che nell’ultimo caso citato, con nostra sorpresa, ha iniziato a fare seriamente delle indagini, e ora vediamo se andranno fino in fondo. La seconda cosa che possiamo fare è promettere ai lettori che porteremo a termine le inchieste su cui lavoriamo. Siamo una squadra e non basta che impediscano ad uno di noi di rivelarla per far sì che la storia non venga alla luce. Quindi le violenze non convengono. Dovrebbe essere chiaro a tutti.

Sono le sole possibilità d’azione che abbiamo, oltre ai diversi protocolli relativi alla sicurezza che in alcuni casi attiviamo, per poter diminuire almeno un po’ i rischi riducendo il più possibile la quantità di tempo che i nostri giornalisti passano da soli. Nessuno va più in giro da solo, non esce alla sera, non si infila in strade poco illuminate. Se la situazione è proprio difficile, mandiamo i nostri giornalisti e giornaliste per un periodo di tempo fuori dal paese, presso colleghi di organizzazioni simili, come la rete internazionale OCCRP.

Ma oltre alle violenze c’è di più. Abbiamo scoperto nel nostro sistema elettronico un software che raccoglie meta dati, li classifica, li reindicizza e li rispedisce a qualcuno. E questo ci spaventa.

Recentemente la polizia ha arrestato un ragazzo, un hacker, colpevole di aver attaccato alcuni portali, tra cui, è emerso poi, anche il nostro. E’ un ragazzo di Belgrado ma aveva pubblicato una frase che inneggiava all’Uck e alla Grande Albania, evidentemente per sviare l’attenzione e le colpe su altri, sugli albanesi. Si è inoltre scoperto che questo ragazzo era in possesso di tutte le nostre password dal 2014 ad oggi.

Per spaventarmi mi hanno anche fatto sentire al telefono la registrazione di una conversazione che avevo avuto con mia moglie, una conversazione avvenuta a casa nostra.

Ecco queste sono le cose che dobbiamo affrontare. Questo è l’ambiente sociale in cui lavoriamo e dove Aleksandar Vučić sostiene che i media sono liberi.

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