Media capture: toolkit per autocrati del 21mo secolo
OBCT parteciperà il 12 dicembre 2019 alla conferenza "Newsocracy", organizzata a Budapest da ECPMF per discutere di come proteggere i media del servizio pubblico dalle interferenze politiche. Alcuni spunti sul nostro intervento
Dopo la guerra fredda, la libertà di espressione sembrava essere emersa vittoriosa in molti luoghi. E se i potenti stessero invece sfruttando “l’abbondanza di informazioni” per trovare nuovi modi per soffocarti, rovesciando i principi della libertà di espressione per schiacciare il dissenso e agendo in modo sufficientemente anonimo da poter rivendicare il contrario?
Peter Pomerantsev (This Is Not Propaganda – Adventures in the War Against Reality)
Inizia con questa inquietante domanda il primo capitolo del nuovo libro di Peter Pomerantsev, This Is Not Propaganda: Adventures in the War Against Reality, con cui l’autore britannico di origini sovietiche ci porta in prima linea nell’era della disinformazione e del dissenso pilotato, dove “niente è vero e tutto è possibile”, per citare il titolo della sua precedente fatica. Un mondo in cui la realtà viene sistematicamente rimodellata per plasmare a sua volta populismi 3.0 e democrazie fatiscenti, un mondo in cui nuovi autoritari leader mascherano un’inedita versione di oppressione attraverso un sofisticato ed elusivo controllo dei mezzi di informazione.
La copertina del libro allegorizza in modo perfetto questa grottesca realtà: un unicorno bianco che scorrazza in una soleggiata prateria con tanto di arcobaleno sullo sfondo. Un’iconografia che mette in luce la strisciante ingannevolezza causata da quella che viene definita "media capture", ovvero una situazione in cui i sistemi di informazione vengono controllati “o direttamente dai governi o da interessi strettamente connessi alla politica”, per citare l’esperta Alina Mungiu-Pippidi. In poche parole, un fenomeno in cui politica e informazione si legano in modo talmente subdolo da pilotare la percezione su ciò che è vero o non vero, giusto o sbagliato, possibile o impossibile.
Niente di nuovo, verrebbe da dire, se non fosse che per questi nuovi “autocrati dell’informazione”, come vengono definiti da Guriev e Treisman in un recente studio, è molto più utile asservire i meccanismi democratici che ricorrere alla “vecchia censura in stile sovietico”. E infatti, si chiedono gli autori, come potrebbero sopravvivere queste compiacenti autocrazie, ormai prive degli strumenti repressivi del ventesimo secolo, se non attraverso una chirurgica “distorsione dei flussi di informazione”?
“Controlla i media, assicurati di avere molte voci, tutte uguali e avrai il tuo junk-yard dog”, è così che Florian Bieber istruisce ironicamente questi aspiranti leader autoritari nel suo nuovo The Rise of Authoritarianism in Western Balkans.
Europa centro-orientale
È nell’Europa centro-orientale dei primi anni 2000 che i sintomi di media capture hanno iniziato a farsi sentire: un contesto in cui già fragili sistemi mediatici, freschi di ristrutturazione e appena lanciati nell’economia di mercato sono stati prima sconvolti dalla rivoluzione digitale e infine colpiti dalla crisi finanziaria globale, entrando nelle mire di oligarchi che si sono affrettati, con il beneplacito dei relativi governi, a riempire il vuoto lasciato dall’esodo forzato dei media stranieri che avevano contribuito a smantellare i monopoli statali nel difficile processo di transizione seguito al crollo dei sistemi socialisti.
Facilitati quindi dal decadimento dei meccanismi di sussistenza tradizionali – compromessi dalla rivoluzione tecnologica e dalla conseguente migrazione degli inserzionisti dal cartaceo al digitale – i governi hanno iniziato non solo ad estendere pericolosamente la propria influenza tramite oligarchie compiacenti, ma ad attuare una serie di ‘pratiche innovative’ per assicurarsi un controllo sempre più pervasivo, sia a livello pubblico che a livello privato, dei nuovi sistemi mediatici ‘nazionali’ Come riporta Alina Mungiu-Pippidi: “Sussidi di stato, salvataggi in caso di debiti, distribuzione preferenziale della pubblicità da parte dello stato e agevolazioni fiscali nei confronti di media compiacenti” divennero presto nuove e subdole modalità attraverso le quali manipolare politicamente il consenso.
Quanto alle emittenti pubbliche, se durante la transizione post socialista si era tentato di smantellare il monopolio mediatico statale a suon di liberalizzazioni, come ricorda Mungiu-Pippidi, in buona parte dell’Europa orientale la riforma degli ex media statali non solo è rimasta incompiuta, ma ha di fatto favorito la nascita di quelli che sono stati a più voci definiti “media al servizio del partito”. “Interferenze politiche nella linea editoriale delle emittenti pubbliche, garanzie insufficienti a livello legislativo o la mancanza di finanziamenti adeguati per garantire l’indipendenza delle emittenti – si legge in un commento di Nils Muiznieks, allora Commissario europeo per il Diritti Umani – sono solo alcune delle sfide che i servizi radiotelevisivi nazionali si ritrovano ad affrontare nell’era della disinformazione – e non solo in Europa orientale".
Media capture in azione
Il rapido processo di centralizzazione dell’ambiente mediatico nell’Ungheria a guida Orbán è forse l’esempio più eclatante di media capture: nel giro di un solo ciclo parlamentare l’ambiente mediatico è stato plasmato ideologicamente, politicamente ed economicamente tramite un sistematico processo di acquisizioni, distorsioni normative e attacchi ai media d’opposizione. Come riferisce Freedom House, "il contenuto e la comunicazione elettronica dei soggetti affiliati al governo sembrano essere controllati direttamente dall’ufficio del gabinetto del primo ministro guidato dal capo di gabinetto Antal Rogán”, ribattezzato dai critici – sempre secondo Freedom House – “il ministero della propaganda”.
Non si può dire che in ambito balcanico le cose vadano meglio. Mentre in Croazia numerose fonti riportano pesanti pressioni sulla televisione pubblica (HRT), in Serbia le condizioni in cui versano i media hanno assunto sfumature drammatiche: secondo Reporters Without Borders, da quando Aleksandar Vučić è al potere, “i gruppi investigativi BIRN e CINS, il sito web investigativo KRIK, il quotidiano Danas e il settimanale Vreme sono spesso presi di mira. I media ostili sono sottoposti a frequenti ispezioni finanziarie e amministrative arbitrarie”.
Quanto all’Europa occidentale, se è vero che “non possiamo osservare i meccanismi di media capture che caratterizzano l’area post socialista, questo non significa che non ci siano tentativi di esercitare controllo politico”, afferma Iva Nenadic, ricercatrice al Centre for Media Pluralism and Media Freedom (CMPF). Un’opinione che trova conferma nelle parole di Marius Dragomir, direttore del Center for Media, Data and Society di Budapest, secondo il quale “ci sono segnali che tali meccanismi stiano pian piano emergendo, come dimostrato dagli attacchi ai media pubblici in Austria e in Danimarca o la media capture da parte delle banche in Spagna”.
Tra capitalismo di sorveglianza, media non convenzionali e democrazia
Nell’epoca di quello che Shoshana Zuboff ha definito come un pervasivo “capitalismo di sorveglianza” – in cui media non convenzionali sempre più stanno deformando e customizzando il nostro modo di metabolizzare l’informazione e, di conseguenza, la realtà – la media capture si inserisce di diritto nel discorso, assumendo le sembianze di una governance illiberale in cui la violenza viene ridotta ai minimi termini proprio grazie ad una estensiva manipolazione dei meccanismi innescati dalle nuove tecnologie.
Che fare quindi di fronte a queste nuove sfide?
La prima cosa, suggerisce Mark Nelson, direttore del Center for International Media Assistance di Washington, è quella di riconoscere il fenomeno della media capture come “grave rischio strategico”. Senza questo fondamentale passaggio, sarà impossibile riuscire a strutturare una nuova e “reale governance dei media”, un processo dinamico e di lungo termine capace di liberare i sistemi di informazione dalla trappola odierna.
A tal fine, se la regolamentazione si configura ancora come una delle soluzioni imprescindibili, nuove e sostenibili forme di finanziamento devono essere messe in atto. Inoltre – cosa forse ancor più importante – la società civile dovrebbe essere posta al centro di questo dibattito. “Ampi movimenti sociali – scrive Nelson – non solo aiutano a spingere la politica nazionale nella direzione delle riforme, ma espongono le carenze nella governance dei media, aiutano a costruire le reti locali necessarie per vincere la lotta per politiche efficaci e incoraggiano i proprietari dei media ad agire come cittadini socialmente responsabili nel contribuire al bene pubblico".
Senza queste imprescindibili misure, le già numerose pratiche in essere – come ad esempio la media literacy – rischiano di essere uno sforzo vano. In un mondo in cui fabbriche di trolls, fake accounts, populismi digitalizzati e bolle informative ridefiniscono sistematicamente la realtà, il potente ha la possibilità di “spingere cinicamente il pubblico a dubitare delle ragioni altrui, convincerlo che dietro ogni motivazione apparentemente benigna ci sia una trama nefasta, anche se impossibile da dimostrare, così da far perdere la fiducia nella possibilità di un’alternativa”, scrive Pomerantsev.
Ed è così che il potente può vincere la sua partita: soffocando il dissenso prima ancora che questo possa nascere.
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