Massimo Castaldo: Balcani occidentali, cuore pulsante dell’UE
"I Balcani occidentali non sono e non dovranno mai essere una periferia sconfitta dell’Occidente, ma sono e devono restare il cuore pulsante del presente e del futuro della grande famiglia europea". Intervista con Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo
Il processo di allargamento sembra giunto a un punto morto: si tratta solo di un accantonamento temporaneo oppure di uno stop definitivo?
Escluderei senza dubbio dal campo l’ipotesi dello stop definitivo, e non parlerei neanche di accantonamento, quanto piuttosto di lentezza e imperfezioni di un processo storico che non può che andare avanti se si vuole veramente realizzare l’ideale europeo dei Padri Fondatori dell’Ue.
Certo, il processo di allargamento dell’Unione europea ai Balcani occidentali ha subito diverse battute d’arresto negli ultimi anni, e anche quelli che sembravano dover essere momenti di svolta positivi non sono stati in grado di tenere fede alle promesse fatte e alle ambizioni espresse. Penso principalmente al Consiglio europeo dell’ottobre 2019, caricato di tante aspettative e poi risoltosi con un buco nell’acqua dovuto all’inamovibile veto di Francia, Danimarca e Paesi Bassi all’apertura dei negoziati con Albania e Macedonia del Nord. Credo che questo sia stato uno dei momenti nei quali il banco, ossia la credibilità della prospettiva europea per i Balcani occidentali, è stato più vicino a saltare definitivamente. Ci sono voluti gli sforzi diplomatici di nove Paesi, con l’Italia in prima fila grazie all’operato dell’allora Primo Ministro, Giuseppe Conte, per ritrovare l’unità d’intenti tra gli Stati membri dell’Ue e per rassicurare Tirana e Skopje sul fatto che questa impasse non sarebbe stata insormontabile. A seguito delle mediazioni tra le posizioni del gruppo degli “intransigenti” e quello dei “possibilisti” è stata elaborata una nuova metodologia che incrementa la credibilità del processo di allargamento, razionalizzando i capitoli negoziali e racchiudendoli in cluster, così come la prevedibilità delle azioni di ambo le parti tramite un sistema di premialità per “ricompensare” gli sforzi effettuati dai singoli Paesi, e un insieme di misure atte a sanzionare le situazioni di stagnazione grave e perdurante, o persino di arretramento, rispetto al raggiungimento degli obiettivi preposti, anche tramite la riduzione dei fondi allocati.
Credo che questa nuova metodologia, la quale si applica di default ad Albania e Macedonia del Nord e, su loro richiesta, anche a Montenegro e Serbia, possa davvero rappresentare un valore aggiunto per velocizzare il processo di adesione. Appare chiaro che, contrariamente a quanto affermato dalla Commissione europea nel 2018, il 2025 non rappresenta più un orizzonte temporale credibile, ma, almeno dal lato delle istituzioni comunitarie, potremmo aver imboccato la strada giusta. Quello che sarà necessario, però, è un impegno politico serio e coerente da parte degli Stati membri dell’Ue, soprattutto alcuni che talvolta sono apparsi troppo inclini a indulgere in mere considerazioni tattiche di natura elettorale interna: la ricerca di consenso a buon mercato nel breve periodo è spesso foriera di danni gravissimi che si pagano molto salati nel medio e lungo termine.
È necessario abbandonare logiche d’interesse legate meramente alla dimensione economica o a dispute vecchie di secoli che non trovano alcun effettivo riscontro nella contemporaneità. Occorre, pertanto, che si aprano i negoziati con Albania e Macedonia del Nord quanto prima, e che si vada avanti anche con Belgrado e Podgorica. Ciò non significa negare il fatto che dal lato dei Paesi balcanici molti altri sforzi saranno necessari su tutti gli aspetti, dai principi fondamentali al lato economico, dall’adozione di un modello produttivo più sostenibile all’allineamento con la politica estera dell’Unione. Questi sforzi, però, devono essere condotti, e ricondotti, all’interno di un processo di allargamento che sia credibile e che porti a risultati tangibili, proprio come previsto dalla nuova metodologia. Solo così si potrà dare attuazione a quanto auspicato dalle istituzioni unionali, Parlamento europeo in testa, e dai molti Stati membri che supportano convintamente e senza ambiguità l’accesso degli Stati balcanici occidentali all’Unione.
Ritieni possa esserci a Bruxelles un piano B che non prevede più l’inclusione a pieno titolo dei Balcani occidentali nell’Ue contrariamente a quanto promesso a questi paesi nel 2003 al vertice di Salonicco?
A mio avviso non può e non deve esserci assolutamente alcun piano B alternativo rispetto ad una piena adesione dei Balcani occidentali in seno all’Unione europea. Come ricordato dalla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione del 2020, l’Ue e i Balcani occidentali non condividono solo la stessa storia, ma anche lo stesso destino. Questo destino è basato sulla messa in comune di risorse e valori, e sulla presa di decisioni comuni per l’interesse collettivo: i Balcani occidentali non sono e non dovranno mai essere una periferia sconfitta dell’Occidente, ma sono e devono restare il cuore pulsante del presente e del futuro della grande famiglia europea.
Da anni i processi di approfondimento e allargamento dell’Ue sono citati e usati in antitesi. I sostenitori del primo sono spesso contrari al secondo. Pensi sia possibile riformare l’Ue continuando il cammino di espansione?
Quello tra approfondimento, ossia maggiore integrazione tra i 27 Stati membri attuali su vari ambiti di competenze e questioni politiche, e allargamento ai Paesi candidati e potenziali candidati è stato spesso presentato come un dilemma senza un’apparente soluzione. A mio avviso, l’intera vexata quaestio si basa su un assunto errato, ovvero che l’allargamento possa in qualche modo impedire una maggiore integrazione. La fallacità di tale assunto è dimostrata dalla storia stessa. Infatti, in concomitanza e in seguito alle varie “ondate” di allargamento, tra le quali la più cospicua rimane quella del 2004 con ben 10 nuovi Paesi membri, molti dei quali appartenenti allo spazio ex-comunista ed emersi solamente pochi anni prima da un modello statuale basato su democrature e un’economia fortemente dirigista, abbiamo assistito ad una progressiva cessione di sovranità dagli Stati nazionali al livello sovra-nazionale rappresentato dall’Ue. Si pensi, ad esempio, a quella che è da molti considerata come la prerogativa assoluta degli Stati nazionali, ossia la difesa. Ad oggi abbiamo la Politica di Sicurezza e Difesa Comune, la PSDC, che rappresenta un pilastro fondamentale dell’azione esterna dell’Unione e, dunque, dei suoi Stati membri, garantendo così il mantenimento di pace e stabilità nel vicinato europeo come, ad esempio, attraverso la missione ALTHEA in Bosnia Erzegovina che ha contribuito al rafforzamento delle istituzioni statuali in un contesto estremamente volatile e complesso come quello disegnato dagli Accordi di Dayton. Certo, tanto rimane ancora da fare per raggiungere una vera integrazione europea in questo ed altri settori, ma appare evidente come dal 2004 ad oggi siano stati compiuti innumerevoli passi in avanti, che mi fanno pensare più a un bicchiere più mezzo pieno che mezzo vuoto.
Inoltre non dobbiamo mai dimenticare che l’integrazione europea si basa su un progetto di pace, stabilità e prosperità continentale e per queste ragioni il processo non può esimersi dal coinvolgere quanto prima i paesi dei Balcani occidentali, con i quali non condividiamo solo la vicinanza geografica, ma anche storia, valori e tradizioni millenarie. L’allargamento può senza dubbio aumentare la complessità nell’adozione di un modello più sovranazionale, ma al contempo esso incrementa la diversità dell’UE. Il nostro motto è “uniti nella diversità”: non possiamo avere timori nel dargli piena attuazione. Anzi, proprio l’adesione di nuovi Paesi potrebbe rappresentare l’impulso necessario ad aprire, durante la Conferenza sul Futuro dell’Europa, quel processo di riforme sul funzionamento dell’Unione di cui si avverte così tanto il bisogno, anche per far fronte alle contingenze storiche della contemporaneità, dalla lotta alla pandemia e alle altre minacce impellenti come il cambiamento climatico e il deterioramento ambientale che richiedono risposte multilaterali e globali, al confronto sempre più aperto e a tutto campo tra modelli democratici e paradigmi autoritari che si staglia minacciosamente all’orizzonte.
È un dato di fatto che le incertezze europee nei Balcani hanno trasformato questa regione in un’area di competizione geopolitica. Russia, Cina e Turchia stanno occupando il vuoto lasciato dall’Europa. È ancora possibile invertire la tendenza e se sì cosa dovrebbe fare l’Ue?
Negli ultimi anni, e anche grazie al parziale immobilismo europeo su alcuni aspetti, altri attori regionali e internazionali hanno messo i Balcani occidentali al centro della propria agenda geopolitica con l’obiettivo di incrementare la propria influenza nella regione. Tra questi attori vi sono Paesi che hanno da sempre un’elevata influenza sulle dinamiche regionali per via di legami storici, tradizionali e religiosi, come la Russia, tradizionalmente ertasi a paladina del panslavismo e dell’ortodossia, e la Turchia, sedotta dal recupero della propria proiezione dell’era ottomana, o che l’hanno recentemente inserita tra i propri spazi d’interesse geopolitico, come gli Stati del Golfo Persico, principalmente gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, a partire dal sostegno ai mujaheddin nelle guerre degli anni ‘90, ma, soprattutto, la Cina. Indipendentemente dalla possibilità di contare anche su fattori “tradizionali” o meno, tutti questi attori stanno cercando di incrementare il proprio status geopolitico nella regione attraverso due metodi che potremmo definire come “proattivo” e “distruttivo”. Il metodo proattivo si basa su cospicui investimenti diretti in molteplici settori, i quali creano sempre dipendenze economiche, ma solo a volte sono portatori di effettivi vantaggi per le popolazioni locali. L’approccio distruttivo, invece, si basa sulla diffusione di notizie false e sulla messa in piedi di vere e proprie campagne di disinformazione atte a screditare l’occidente (inteso come Ue e, in alcuni casi, NATO e Stati Uniti) come un partner inaffidabile, moralmente decadente, disinteressato e incapace di mantenere gli impegni presi, mentre vengono glorificate le iniziative messe in campo dal “mandante” della campagna di disinformazione stessa.
Sicuramente le distrazioni dell’Ue hanno colpevolmente lasciato loro sin troppo campo libero. Negli ultimi 15 anni, le risorse finanziarie e, soprattutto, l’energia politica che l’Unione avrebbe potuto destinare all’allargamento sono state drenate da quattro grandi crisi: quella economico finanziaria del 2008-2009, quella dei debiti sovrani del 2011, quella migratoria del 2013-2015 e, infine, quella pandemica che affligge il mondo intero e l’Europa dal febbraio 2020. In ognuna di queste crisi la percezione dei Paesi balcanici è stata quella di un parziale disinteresse e abbandono da parte dell’Ue, quando essi non venivano addirittura additati come una delle concause del problema, specialmente per la crisi migratoria. Questa situazione ha lasciato ampissimi margini di manovra agli attori terzi intenzionati ad incrementare l’influenza nei Balcani occidentali, i quali hanno compiuto azioni consone al perseguimento dei propri interessi geopolitici. Per ragioni di prossimità temporale, è sufficiente guardare a che cosa è accaduto e sta accadendo con la distribuzione di vaccini anti-coronavirus. Con l’Ue incapace o, comunque, in forte ritardo nel fornire dosi sufficienti, e in virtù del fatto che i Balcani occidentali non erano considerati nelle contrattazioni effettuate dalla Commissione europea con le singole case farmaceutiche, i Paesi balcanici si sono trovati costretti ad affidarsi all’iniziativa internazionale Covax, fortemente in ritardo anch’essa, o a negoziare privatamente gli acquisti, con tutte le difficoltà del caso. In questa fase hanno trovato alleati potenti e propensi al supporto, come la Russia e la Cina (ma non solo, si pensi alla Turchia attraverso le forniture di vaccini cinesi all’Albania) che hanno inviato centinaia di migliaia di dosi dei vaccini “nazionali”, ossia Sputnik V e Sinovac, senza perdere occasione per ricordare alle autorità politiche e alle popolazioni locali quanto il loro supporto fosse tempestivo e superiore a quello di un’Ue che vaccinava solo la propria popolazione, lasciando fuori i Paesi balcanici nonostante avesse promesso di trattarli come “partner privilegiati”. In buona sostanza, l’opinione pubblica ha avuto la sensazione di essere cittadini non di un futuro Stato membro dell’UE, ma piuttosto di un Paese terzo… per non dire “quarto”.
Tuttavia, rovesciare questa tendenza non solo è possibile, ma è anche una necessità. Sul lato pratico e connesso alla distribuzione di vaccini anti-coronavirus, per fare un esempio concreto, l’Ue ha recentemente stanziato un pacchetto di 70 milioni di euro per facilitare lo “scale-up” nelle campagne di vaccinazione dei singoli Paesi balcanici, e ha messo a disposizione 651.000 dosi del vaccino Pfizer/BioNTech, circa la metà delle quali sono già state consegnate. Questi numeri superano già da ora quelli dei rifornimenti inviati dagli altri attori terzi, dimostrando ancora una volta come l’Ue sia il primo e più efficace partner dei Paesi della regione. Oltre a iniziative concrete occorrerà anche contrastare la diffusione di fake news e campagne di disinformazione, e l’Ue ha già elaborato una strategia su questo punto. Il punto più importante, però, sarà legato alla capacità di dare una prospettiva europea concreta ai Balcani occidentali, utilizzando appieno le potenzialità offerte dalla nuova metodologia per l’allargamento. Come ricordato in precedenza sarà necessario un maggior impegno politico da parte degli Stati membri dell’Ue, ma sono convinto che non appena questo si concretizzerà saremo in grado di procedere con i negoziati per l’accesso dei singoli Paesi in modo molto più rapido ed efficace rispetto al passato.
Vorrei inoltre aggiungere che l’Ue non può e non deve giocare la partita con gli attori terzi nella regione secondo le regole che essi vorrebbero imporre, altrimenti ne uscirà sicuramente sconfitta. L’Unione deve continuare a proporre il suo modello, che è ciò che dagli altri la contraddistingue, basato su un’offerta che va oltre il mero aspetto economico ma presenta un insieme olistico di strumenti di cui nessun altro attore dispone. L’intero progetto europeo è basato sul rispetto dei diritti umani, dello stato di diritto, delle pratiche di buona governance e, soprattutto, sulla promessa di far parte di qualcosa di più grande, di un progetto politico unico al mondo. Il cammino verso l’Ue, a differenza di quanto si possa dire rispetto alla creazione di interdipendenze con Russia e Cina, non è un gioco a somma zero ma la costruzione di una comunità basata su valori comuni e dalla quale tutti beneficeranno.
Qual è la tua opinione sul documento fantasma del primo ministro sloveno Janša che ipotizza di ridisegnare i confini dei paesi balcanici secondo linee etno-nazionali per risolvere le controversie pendenti nella regione? Non credi che parlare ancora di Grande Serbia, Grande Albania e Grande Croazia sia riportare indietro le lancette della storia e negare i valori su cui si fonda la stessa Ue?
Ad oggi, non ci sono conferme ufficiali sull’esistenza di questo documento. Tuttavia, qualora l’esistenza di questa proposta dovesse essere provata, saremmo di fronte ad un campanello d’allarme non indifferente. Per la situazione in cui versa la Bosnia Erzegovina una frammentazione su linee etniche, i cui confini sarebbero difficilmente identificabili visto il complesso mosaico di etnie, culture e religioni che contraddistingue il Paese, ci esporrebbe al rischio concreto di una riapertura di vecchie ferite ancora non del tutto lenite. È senz’altro vero che quanto previsto dagli Accordi di Dayton possa essere ad oggi parzialmente obsoleto, così come si è sempre saputo dei limiti dell’accordo stesso, ma non si può pensare di cancellarlo e ripiombare in una situazione pre-1995. Gli Accordi di Dayton, o i nuovi trattati che si renderanno necessari, vanno certamente migliorati per non ricommettere gli stessi errori del passato e non giungere di nuovo alle stesse impasse, ma questo non può essere fatto attraverso una nuova partizione e spartizione di territori nel nome di ideologie che possono riportare in auge vecchi nazionalismi.
Ciò detto, è importante sottolineare come il futuro dei Balcani occidentali non possa essere deciso a tavolino da nessuno, ma dovranno essere i popoli stessi dei paesi balcanici a determinare il proprio futuro. Sicuramente l’Ue, gli Stati Membri e i loro rappresentanti devono tenersi ben lontano da quest’attitudine paternalistica e dal credere di avere in mano una ricetta pronta e facile che a loro avviso porterebbe migliorie alla regione. Si tratta di una forma mentis del passato, la quale ha già fatto molto male alla regione, e che non può più essere accettata e riportata in auge per nessuna ragione.
Da più di un anno Miroslav Lajčák è stato nominato inviato speciale dell’Alto Rappresentante Josep Borrell per il dialogo fra Belgrado e Pristina. Fino ad oggi non si registrano sostanziali progressi. Il dialogo, tuttavia, non può continuare all’infinito. Il riconoscimento reciproco dovrebbe essere l’obiettivo finale ma i negoziatori europei evitano l’argomento. Non credi che l’Ue, in caso di fallimento, si stia giocando la faccia?
Sicuramente la normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina è una conditio sine qua non per una stabilizzazione dell’intera regione che sia sostenibile e duratura e, dunque, anche per le prospettive di allargamento dell’Ue. È pertanto vero che questo rappresenta un punto di primaria importanza e che un naufragio delle trattative non sia accettabile, ma credo che l’Unione abbia dimostrato nel recente passato tutto il suo interesse e spirito proattivo. Pensiamo alle azioni dell’Unione quando Kosovo e Serbia stavano per raggiungere un accordo sotto la guida degli Stati Uniti e del Presidente Trump, il quale era certamente più interessato ai ritorni elettorali che all’effettiva normalizzazione delle relazioni come dimostrato dai contenuti della bozza d’intesa. Ecco, in quel momento l’Unione ha usato appieno tutto il suo soft-power per ribadire il suo ruolo centrale come negoziatore tra le parti, rendendo chiaro che ciò che conta non è la rapidità con la quale l’accordo sarà raggiunto (benché la lentezza delle trattative stia iniziando a diventare estenuante), ma i suoi contenuti. Pertanto, non parlerei di un’Ue immobile sull’argomento.
Quello che appare evidente, però, è che non basta farsi garante delle negoziazioni, occorre anche dargli sostanza e qui dovremmo migliorare. La necessità primaria per dare legittimità al ruolo dell’Unione come broker dell’accordo è il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte dei cinque Stati membri dell’Unione che, per un motivo o per l’altro, non l’hanno ancora fatto, ossia Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna. Il Kosovo ha voglia di farsi stato, e lo sta gridando al mondo anche attraverso la trasformazione della Kosovo Security Force da forza di sicurezza civile, come dovrebbe rimanere secondo gli accordi del 1999, in una vera e propria forza di difesa con inquadramento militare. Non possiamo continuare ad ignorare questa volontà popolare, e dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere per facilitare il riconoscimento di Pristina come autorità statale indipendente. Questo passa attraverso un’azione diplomatica interna all’Ue per convincere i cinque Stati membri di cui sopra, e attraverso un maggiore impegno per facilitare il dialogo bilaterale tra i due Paesi, senza però sostituirsi in alcun modo a questi.
Il 9 maggio si apre la Conferenza sul Futuro dell’Europa. L’Europarlamento ha chiesto di individuare gli strumenti più appropriati per includere i sei paesi dei Balcani occidentali nella conferenza. Hai dei suggerimenti o proposte in merito? Prenderà delle iniziative il Pe nel caso la richiesta non venisse accolta?
Sono stato tra i primissimi, e purtroppo tra i pochi, a denunciare questa grave mancanza e a chiedere a gran voce che i sei Paesi dei Balcani occidentali siano inclusi nel processo sin dalle prime fasi della conferenza, proprio perché parto dalla granitica convinzione che non sono né semplici vicini né utili partner, ma i futuri membri dell’Ue e, pertanto, è giusto e doveroso renderli pienamente partecipi e protagonisti delle discussioni sul futuro della grande famiglia della quale entreranno a far parte. Nello specifico, e di fronte alle difficoltà incontrate nell’inclusione di autorità nazionali e leader politici, abbiamo spinto per l’inclusione di rappresentanti della società civile e, soprattutto, dei giovani. Questo sarebbe un passo dovuto anche per dare voce alle migliaia e migliaia di giovani che sognano un futuro europeo in ognuno dei sei Paesi balcanici. Ma non basta: anche i loro parlamentari dovrebbero avere una rappresentanza nella plenaria della Conferenza, quantomeno come osservatori.
Eppure, non è ancora chiaro se e in che misura queste richieste saranno accolte: io continuerò a cercare di sensibilizzare i colleghi per esercitare la maggiore pressione possibile sull’Executive Board e soprattutto sul Consiglio, che si conferma, una volta di più, l’organo della conservazione e della miopia politica, a fronte di un Parlamento europeo ben più ambizioso, sensibile e coraggioso. Il momento di riflessione connesso alla Conferenza durerà un anno: non possiamo e non dobbiamo perdere l’ennesima occasione per contrastare la pericolosa narrativa del disinteresse, che potrebbe presto sfociare in una vera e propria “sindrome dell’abbandono”.
Nel dibattito sulle relazioni per l’Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Serbia dello scorso marzo sei stato l’unico eurodeputato italiano ad intervenire in aula. Da Alexander Langer a Marco Pannella c’è una lunga tradizione italiana di impegno verso i Balcani in ambito europeo. È stato solo un caso o c’è purtroppo un disinteresse manifesto da parte degli eurodeputati italiani di oggi nei confronti di una regione a cui la diplomazia italiana ha sempre guardato con un occhio di riguardo?
Lì per lì, durante il dibattito, non me ne ero neanche reso conto. Ma quando mi è stato fatto notare, ho capito che non si tratta purtroppo di una casualità: è sintomatico di un dibattito politico italiano, traslato alle latitudini bruxellesi, decisamente e malauguratamente concentrato sul proprio ombelico nazionale, per non dire romano, di una classe dirigente che, salvo lodevoli eccezioni (come la Conferenza interparlamentare organizzata dal Presidente Fassino alla Camera dei deputati il 26 aprile 2021, alla quale ho partecipato attivamente con grande piacere insieme al Ministro Di Maio), ha smarrito la bussola della proiezione strategica italiana e delle potenzialità insite in una nostra azione di diplomazia parlamentare più coerente e sistemica, tanto nel quadro europeo quanto a livello bilaterale: abbiamo ancora tante frecce al nostro arco nella regione, tanto politiche quanto economiche, commerciali e culturali, ma forse manca la volontà politica di investire tempo e risorse nell’imparare a incoccarle correttamente.
Eppure a livello governativo l’attenzione profusa ha prodotto risultati positivi e concreti, ed è lecito affermare che questa si sia addirittura acuita negli ultimi anni. A riprova di ciò basta citare il grande impegno da sempre profuso dall’Italia all’interno delle varie iniziative intergovernative formatesi nel corso delle scorse due decadi, ossia l’Iniziativa Centro-Europea (InCE), l’Iniziativa Adriatico-Ionica (IAI) e il cosiddetto Processo di Berlino. Tutti questi fora garantiscono un supporto concreto e continuo ai processi di riforma dei Balcani Occidentali sia attraverso iniziative bilaterali che con un respiro regionale, e rappresentano una sorta di tappa intermedia nel cammino verso l’adesione all’Ue dei singoli Stati. Troppo spesso dimentichiamo che i primi due fora hanno sede in Italia, rispettivamente a Trieste e Ancona, due città che incarnano perfettamente lo spirito e le tradizioni comuni tra l’Europa continentale, quella mediterranea e quella balcanica che si fanno sintesi nel progetto comune di Unione europea. Ed è stato proprio grazie agli sforzi dell’Italia se si è realizzato l’ingresso della Macedonia del Nord nella EUSAIR, avvenuto al Vertice di Catania del maggio 2018, un passo capace di contribuire alla distensione delle relazioni tra Skopje e Atene e di favorire la dinamica che ha condotto al felice esito degli Accordi di Prespa, superando l’annosa disputa sul nome e permettendo al Paese di accedere alla NATO.
In maniera similare, in ambito Processo di Berlino, gli esiti del Vertice di Trieste del 2017 hanno permesso la creazione della Comunità dei Trasporti dell’Europa Sud-Orientale, step fondamentale per garantire l’integrazione nel settore dei trasporti e propedeutica all’inclusione dei Balcani occidentali nel progetto Trans-European Transport Network: questo atteggiamento proattivo si somma a quello già ricordato in precedenza relativo all’impegno del Governo precedente verso il superamento dell’impasse creatasi in seguito al Consiglio europeo dell’ottobre 2019.
Sono tutti risultati importanti, che dovrebbero spronarci a credere di più nelle nostre potenzialità e nel nostro ruolo, perché la naturale propensione, stima e simpatia di cui gode l’Italia, anche grazie allo straordinario lavoro della nostra cooperazione sin dagli anni ’90, è condizione necessaria ma non sufficiente per assurgere a punto di riferimento, a vero e proprio “fratello maggiore” nel loro cammino verso l’integrazione, un obiettivo strategico tanto loro quanto nostro. Da parte mia, non mancherò di promuovere un diverso approccio parlamentare in questo senso, con tutti coloro che vorranno collaborare in modo serio e concreto, e non propagandistico e strumentale, a prescindere dalle casacche politiche. Perché un’Europa unita, democratica, sovrana e federale sarà sempre monca e incompiuta senza i nostri sei fratelli dell’altra sponda dell’Adriatico.
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