Luoghi del cuore: la cicala di Belgrado
Vivere altrove dal luogo in cui si è nati e cresciuti. Vivere i ricordi. Tornare e vedere il cambiamento. Diego Zandel guarda a “La cicala di Belgrado” di Marina Lalović tracciando un parallelo col vissuto dei propri genitori
Quando ti trasferisci dal luogo dove sei nato e cresciuto in un’altra parte del mondo, qualsiasi sia la motivazione del trasferimento, il luogo da cui sei partito ti resta sempre dentro. E’ il sentimento che cerca di trasmettere, e lo fa molto bene nel suo libro “La cicala di Belgrado”, edita da Bottega Errante, Marina Lalović, oggi giornalista RAI, arrivata 22 anni fa in Italia da Belgrado, dove è nata e cresciuta.
E’ un sentimento che ho conosciuto molto bene nei miei genitori, esuli dall’età di ventun’anni da Fiume, morti entrambi, a un anno esatto di distanza, a 84 anni, sessantatre dei quali vissuti a Roma, ma che, posso dirlo con certezza, è come se non fossero esistiti, gli anni intendo: il loro cuore, la loro mente, i ricordi erano rimasti fermi a quei primi ventun’anni (venti per mia madre) a Fiume. Poi, sì, avevano avuto modo di tornare a Fiume, ma il cambiamento radicale della città, svuotata della loro gente, abitata da altri, la lingua corrente cambiata – soprattutto per mia madre che non conosceva una parola di croato, come sarebbe stato per sua madre, una rimasta, che era morta anch’essa ottantenne, senza mai impararlo – aveva finito per fissare la topografia e l’anima della loro città agli anni in cui loro l’avevano vissuta. Non esisteva altra Fiume.
“La cicala di Belgrado” trasmette, seppur solo in parte questo. Anche Marina Lalović si porta dietro la sua Belgrado e ogni volta che ci ritorna la trova cambiata. I suoi ricordi più vivi, ben rappresentati nel libro, sono riferiti agli anni Novanta, gli anni di Milošević, dei quali ha ricordi indelebili che riguardano la spaccatura che i serbi vivevano tra chi stava con il regime e chi contro. Spaccatura visibile nella scelta della musica da ascoltare, i filo Milošević votati al turbo-folk e i contrari al rock, così nell’abbigliamento, nei locali che si frequentavano, dei quali peraltro, per quanto riguardava i suoi preferiti, fa descrizioni ricche di fascino (regalando la voglia di andarci) come i locali di Zemun. Così come ricorda le difficoltà degli approvvigionamenti nel periodo dell’embargo, la vita che vi si svolgeva, le furbizie per gli accaparramenti da una parte, la solidarietà dall’altra, la speranza con la caduta di Milošević e la vittoria elettorale di Zoran Đinđić. E, per quanto riguarda l’oggi, la critica ai grandi cambiamenti urbanistici introdotti con le demolizioni e costruzioni per Belgrade Waterfront, “la nuova Belgrado 3.0 in veste araba” che rischia di stravolgere il volto della capitale, per altro interdetta economicamente alla gente comune per il costo alto degli appartamenti. “In un paese dove la busta paga media non supera i 300 euro mensili, questo quartiere è ben lontano dalle aspirazioni di un cittadino comune. Un appartamento di 23 metri quadri costa 100.000 euro e supera di tre, quattro volte il prezzo medio degli appartamenti in città. ‘Belgrado sull’acqua’ (il cantiere è sulle rive del fiume Sava n.d.r) è diventata la casa di molti calciatori e di altri sportivi di fama”.
E’ molto suggestiva anche la topografia della città vista attraverso gli occhi, i ricordi, le emozioni dell’autrice che, in questo modo, riesce a dare vita, un’anima, alle cose che descrive, anche quelle legate al passato che non c’è più, come quando fa riferimento all’hotel Slavija, metafora di “uno scontro di civiltà”. “Da una parte ospitava l’albergo, imponente, e dall’altra le baracche con le specialità roštilj, carne alla brace. Se sentivi il profumo di carne grigliata e vedevi il fumo mescolato ai fili dei filobus che passavano per la rotonda della piazza, sapevi di stare a Slavija”.
Ma c’è anche una malinconia in tutto questo: la perdita, con i cambiamenti, di parte della città dove siamo nati e cresciuti, produce una sorta di contraddizione dentro di noi, sentendo qualcosa che ci lascia e, nello stesso tempo, però, si fortifica nel ricordo. E’ il “come eravamo” che diventa immanente nel nostro cuore, rifugio ormai di un tempo, di cose, luoghi, odori, sapori, colori, persone, che vivono solo con noi e, magari, in chi quel tempo, quei luoghi, odori, sapori, persone, le ha vissuto come te, se non addirittura condivise con te. L’amica Kristina, ad esempio, ritorna spesso nel libro di Marina Lalović. Sono certo che, quando s’incontrano, il loro mondo riprende corpo, anima, attraverso e al di là delle parole.
Ho ben presente mio padre e i suoi amici esuli fiumani quando s’incontravano nella cantina romana – uno scantinato – di uno di essi, chiamata il “bunker”, e tra un bicchiere e l’altro di vino, tra i loro canti che innalzavano, rivivevano le immagini della loro città perduta. Che rimaneva intatta solo da lontano.
A riguardo, Marina conclude bene il suo libro, cogliendone il senso quando scrive: “Mi sono resa conto che ‘sentirsi a casa’ è un sentimento che ti devi creare da solo. Le condizioni politiche che ci hanno spinto a emigrare non sono più le uniche a incidere sulle nostre scelte individuali. La casa ce la siamo costruita intorno, è una sfera che portiamo appresso dovunque andiamo”.
E’ questa la bellezza che resta a quanti si identificano con le loro radici.
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