Lubiana calling
Fu alla fine degli anni ’70, in una società jugoslava dove tutto era tranquillo e scontato, che in Slovenia nacque il Punk ed i giovani iniziarono a prendersi beffa della rivoluzione. Poi la morte di Tito, la crisi economica e il cammino verso l’indipendenza. Un nuovo contributo per il nostro dossier ”Il lungo ’89”
I punk, la leadership slovena che chiedeva il rispetto delle leggi, gli scrittori ossessionati dalla paura che si andasse perdendo l’identità nazionale, i movimenti "alternativi", la Lega della gioventù socialista che offrì un cappello istituzionale ai contestatori. Sono questi alcuni degli ingredienti del lungo ’89 sloveno.
La democratizzazione della repubblica fu un processo che durò almeno un decennio. Negli anni Settanta tutta la Jugoslavia era stata normalizzata. Si erano fatti i conti con i "liberali" ed il paese si stava preparando ad un evento inevitabile: la morte del padre padrone della federazione: il presidente Josip Broz -Tito.
In quel periodo era stata comprata la pace sociale indebitandosi all’estero e promuovendo utopici progetti di sviluppo. La federazione era diventata un cantiere. Si costruiva di tutto: grossi complessi industriali, case di cultura, scuole e persino una centrale nucleare.
Così, mentre il resto d’Europa era alle prese con l’austerità, i cittadini jugoslavi non avevano mai vissuto meglio. Molti si potevano togliere qualche sfizio: l’automobile di produzione straniera, viaggi all’estero, la costruzione di una piccola villetta o addirittura una seconda casa.
In quella società tutto era tranquillo e scontato. Persino i giovani sembravano molto simili ai loro genitori. Fu, però, proprio allora, alla fine degli anni Settanta, che in Slovenia nacque il Punk. Bastò un viaggio a Londra per fare incetta di dischi dei Sex Pistols, una bottiglia di Pelinkovec per scrivere, in una notte, i testi e poi un concerto organizzato in un ginnasio di Lubiana. Erano nati i Pankrti. Gli stessi membri della band erano convinti che dopo quel primo concerto non ce ne sarebbero stati altri. Invece non fu così.
Già il giorno successivo suonarono nel campus studentesco di Lubiana. Di loro cominciarono ad occuparsi i giornali della Lega della gioventù socialista ed una radio legata alle organizzazioni studentesche. In poco tempo nacque una vera e propria subcultura giovanile.
I punk poterono esprimersi in maniera indisturbata per qualche anno, poi cominciò la repressione. Oramai, però, avevano preso talmente piede che arginare il fenomeno era impossibile. Ad essere presi di mira non furono i gruppi, ma piuttosto i giovani che si richiamavano a tali modelli. La leadership comunista ben presto si accorse, con orrore, che quella generazione non credeva più nei loro stessi valori e che i musicisti si prendevano beffe dei valori della rivoluzione e della classe politica.
La situazione in Jugoslavia era repentinamente cambiata. Tito era morto. Con lui era sparito uno dei principali simboli d’integrazione del paese. La federazione, intanto, era precipitata in una tremenda crisi economica. Nel 1980 non c’erano più soldi per pagare le rate del debito contratto all’estero. I cittadini ne sentirono ben presto le conseguenze.
L’inflazione cominciò a galoppare. Venne contingentata la benzina. Dai negozi sparirono le merci che dovevano essere importate. Trovare del caffè diventò un’impresa titanica, mentre i bambini potevano apprendere l’esistenza delle banane solo dalle fotografie. In quel periodo era nato un nuovo sport nazionale: racimolare valuta straniera. Tutti erano coinvolti: dalle imprese, che cercavano di vendere all’estero i propri prodotti, ai semplici cittadini, che potevano così acquisire beni che altrimenti non avrebbero potuto comprare o mettere da parte qualche risparmio.
A molti sembrò che i politici non sapessero più che pesci pigliare. Quando i comunisti sloveni, nel 1982, si riunirono per il loro congresso un gruppo punk ironizzò sulle 700 valigette di pelle distribuite ai delegati. Questi ultimi – si diceva beffardamente nella canzone – sarebbero stati depositari di tutte le soluzioni necessarie per il paese.
Proprio durante quel congresso, però, emerse chiaramente una nuova passione tutta slovena per la legge. I delegati, infatti, persero molto tempo a discutere di questioni formali. Di fronte ai giornalisti perplessi, che provenivano dalle altre repubbliche della federazione, i maggiorenti del partito spiegarono che oramai in Jugoslavia erano sparite quelle figure che avrebbero potuto da sole tracciare la via da percorrere e pertanto si dovevano seguire le leggi ed i dettami costituzionali.
Probabilmente senza rendersene conto i comunisti sloveni lanciarono un vero e proprio messaggio eversivo. In Jugoslavia la costituzione cambiava con una certa regolarità e non sembrava concepita per essere seguita alla lettera, ma era una specie di documento programmatico. Nel 1974 il numero due del regime, l’ideologo sloveno Edvard Kardelj, aveva fatto approvare il suo "capolavoro". Nel paese a tutti i livelli era stata introdotta l’autogestione. Al di là dei suoi farraginosi progetti di ingegneria politica, quel documento rappresentava anche la miglior garanzia per la Slovenia e per la sua classe politica di mantenere il grado di indipendenza raggiunta.
All’epoca la repubblica aveva una propria bandiera, un proprio presidente, un proprio parlamento e un proprio governo. Anche se faceva parte della federazione jugoslava aveva un’autonomia che mai aveva avuto in passato. Preservarla, per i politici sloveni divenne un imperativo.
Quando Lubiana si mise a chiedere a Belgrado il rispetto delle leggi, cominciò ad applicare questo principio anche in Slovenia. Ben presto si crearono spazi "democratici" impensabili fino a qualche anno prima. Critiche sempre più feroci iniziarono ad essere lanciate all’indirizzo del sistema.
Gli scrittori ed in genere gli intellettuali erano oramai ossessionati dalla paura che si andasse perdendo l’identità nazionale e che gli sloveni rischiassero di estinguersi. Non poca preoccupazione destò il censimento del 1981. In dieci anni gli sloveni erano passati dal 94% della popolazione a circa il 90%. L’affluenza di immigrati dalle altre parti della federazione, favorita dai progetti di sviluppo dell’industria slovena, cominciò a venir messa in discussione dagli stessi notabili di partito. Negli anni successivi, i tentativi di integrare maggiormente la Jugoslavia, anche uniformando i programmi scolastici, cozzarono contro il deciso no sloveno.
La specificità della lunga primavera slovena fu quella che l’opposizione trovò degli spazi istituzionali all’interno del sistema. Ciò non avvenne nelle altre repubbliche jugoslave. Ad offrirli fu soprattutto la Lega della gioventù socialista. Si trattava di un’organizzazione che univa i giovani e che, in origine, avrebbe dovuto fare da fucina ai futuri "quadri" del regime. L’organizzazione, inizialmente, cercò di frenare il fenomeno punk, ma quando capì che in tal modo si sarebbe messa contro gran parte dei giovani ne diventò il nume tutelare.
I movimenti artistici legati al punk divennero ben presto la piattaforma culturale della Lega della gioventù. Nel 1987, proprio questa collaborazione fece scoppiare uno scandalo di dimensioni colossali. Quell’anno sarebbe dovuto toccare alla Slovenia organizzare una manifestazione giovanile che coinvolgeva tutto il paese. L’elaborazione del manifesto venne affidata ad un collettivo di artisti che pensò bene di prendere a modello un poster nazista e di sostituire i simboli nazionalsocialisti con quelli jugoslavi. Sulle prime il lavoro piacque. Quando ci si accorse da dove arrivava l’ispirazione, la reazione fu rabbiosa e tutta la classe politica in Slovenia venne messa sotto accusa. Come in altri casi, comunque, Lubiana tenne duro e per gli autori del manifesto oltre che la classica lavata di capo non ci furono gravi conseguenze.
La Lega della gioventù del resto aveva accolto sotto il suo ombrello tutta una serie di movimenti "alternativi": verdi, gruppi religiosi, pacifisti. Nell’ambito delle organizzazioni legate alla gioventù e gli studenti nacquero anche le prime associazioni che lottavano per i diritti degli omosessuali.
Tutti questi processi che presero corpo nella prima metà degli anni ottanta contribuirono alla democratizzazione della società slovena. Lentamente, con l’inasprirsi della crisi economia e politica, in Jugoslavia cominciò a farsi strada anche l’idea dell’indipendenza.
Nella seconda metà degli anni Ottanta la federazione era sempre più in ebollizione. I politici e l’opinione pubblica in Slovenia erano, comunque, convinti che non si dovesse sacrificare la propria autonomia sull’altare della Jugoslavia ed ancor meno per soddisfare gli interessi dei serbi. Lo scontro tra la Slovenia e la Serbia si fece sempre più acceso. Lubiana agì come aveva sempre fatto in quegli anni e poggiò ogni sua azione sul rispetto della legislazione esistente.
Nel 1989 vennero varate una serie di modifiche costituzionali che davano alla repubblica maggiore autonomia e che aprivano le porte alle elezioni pluripartitiche. Nella federazione si tentò di opporsi, si minacciò perfino l’intervento dell’esercito, ma Lubiana tirò dritta per la sua strada.
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