L’Orient Express di Dos Passos
Ai luoghi e ai popoli che incontra Dos Passos guarda sempre attraverso la sua lente di viaggiatore occidentale. Non gli è estranea una visione “orientalista”. Tuttavia il libro "Orient Express" offre un ritratto prezioso sia degli osservati che dell’osservatore attraverso l’abile penna di uno dei padri della narrativa statunitense. Una recensione
È il 1921, quando John Dos Passos, scrittore e giornalista americano, viaggiatore nel vero senso della parola, attraversa i territori dell’Europa orientale, del Caucaso e del Medio Oriente, appena sconvolti dai rovesciamenti della storia. Ne nasce il diario di viaggio pubblicato nel 1927 sotto il titolo di Orient Express, la cui edizione italiana è uscita quest’anno presso la casa editrice Donzelli.
Sebbene Dos Passos arrivi in nave dagli Stati Uniti, il suo viaggio verso Oriente prende simbolicamente il via da Venezia. La città si offre agli occhi dello scrittore americano in entrambi i suoi volti: quello di cartolina sfavillante, luna park – "la Coney Island delle Coney Island" – ma anche quello oscuro, dall’odore pesante di palude, nelle osterie dei vicoli, popolate da signorine dai capelli rossi e da marinai ubriachi.
Senza dare un giudizio in merito (sebbene abbia una sua ben determinata coscienza politica), Dos Passos lungo tutto il viaggio registrerà i segni esteriori dei rivolgimenti dell’epoca. A Venezia "giovani spavaldi a gruppi di quattro o cinque attraversano la folla cantando Giovinezza", "tutti i muri sono coperti dalle scritte w lenin e ʍ lenin".
Attraversando il Regno dei serbi, croati e sloveni, la Bulgaria e la Grecia, con il mitico treno "Express" Dos Passos approda a Istanbul (ancora da lui chiamata Costantinopoli), presentata come città degli intrighi, dietro ai quali si nascondono spesso brandelli di conflitti più ampi.
All’interno di un bar caratterizzato dal lusso dei tempi che furono giace un uomo con la testa rotta. È un diplomatico dell’Azerbaijan, ucciso forse da un armeno, forse da un bolscevico, forse da un assassino che avesse entrambe le caratteristiche. Sullo sfondo, la guerra tra Armenia e Azerbaijan, che infiamma la periferia del nascente impero bolscevico.
Ad assistere alla scena troviamo “gendarmi francesi, greci e italiani [che] si pavoneggiano e parlano tutti insieme ognuno nella sua lingua” – la Turchia, che finisce la prima guerra mondiale dalla parte sbagliata, si trova a subire nei primi anni il controllo straniero delle sue coste. L’unico ad essere disperato sembra essere il cameriere perché, approfittando del trambusto, i clienti se ne sono andati tutti senza pagare.
Giovani kemalisti, pope ortodossi, mercanti armeni, profughi russi piangono i propri morti (deceduti nella guerra civile russa o nella guerra greco-turca) e raccontano le proprie, inequivocabili ragioni. Come racconta all’autore un suo sostenitore, le forze fresche starebbero ad Ankara con Kemal, mentre nella vecchia capitale sarebbero rimaste solo rovine e vecchi mendicanti, vestigia dell’Impero scomparso.
Da Costantinopoli Dos Passos attraversa il Caucaso su treni sferraglianti. La guerra civile e la rivoluzione hanno portato un nuovo sistema ricco di contraddizioni, tra entusiasmi bolscevichi e terrore, un numero enorme di profughi e una miseria infinita.
L’autore fa parlare i suoi interlocutori, tra fedeltà al nuovo regime, tentazioni grandi-russe e passioni pan-islamiste. A Erevan la miseria si fa schiacciante e Dos Passos ci restituisce immagini agghiaccianti di donne, uomini e bambini che si accasciano per strada, vinti dalla fame e dalla malaria.
Rispetto alla drammaticità di quello che incontra in Caucaso, la Persia gli appare come “un balsamo lenitivo”, un mondo secolare che egli attraversa in compagnia di un iraniano ispirato della modernizzazione. Di caravanserraglio in caravanserraglio il viaggio prosegue verso Baghdad, dove Dos Passos sorseggia bevande ghiacciate insieme ad altri stranieri sulle rive del Tigri, gira per le strade polverose della città e per la ferrovia (nata a controllo tedesco, chiamata Bahn) incontra uno dei capi della resistenza anti-inglese. Il libro si conclude con il racconto, giorno per giorno, del lungo viaggio intrapreso dall’autore in carovana fino a Damasco.
Orient Express offre un affresco dei mondi che si aprono al di là dell’Adriatico nel 1921, un periodo di rottura in cui imperi e sistemazioni territoriali secolari sono crollati e i nuovi stati faticano ad affermarsi. In una dimensione pre-industriale rimasta sempre immobile si introducono lentamente – ma a volte con violenza – i simboli della modernità e le nuove idee.
Ai luoghi e ai popoli che incontra Dos Passos guarda sempre attraverso la sua lente di viaggiatore occidentale. Non è estranea a lui una visione “orientalista” che ritrova nella realtà circostante un Oriente molle, immobile, decadente, languido e incapace di tenere il passo con la modernità europea – caratteristiche delle quali sarebbe responsabile l’Islam, che secondo l’autore rappresenterebbe sottomissione e abnegazione. Tuttavia, una volta contestualizzato, il volume in questione ci offre un ritratto prezioso sia degli osservati che dell’osservatore attraverso l’abile penna di uno dei padri della narrativa statunitense.
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