Lo stesso destino: resistenza internazionale, civile e partigiana tra Val Tanaro e Jugoslavia

In vista del 25 aprile quest’analisi traccia un filo tra Italia ed ex Jugoslavia raccontando due fenomeni strettamente correlati: la solidarietà popolare verso i prigionieri fuggiaschi delle forze alleate e il carattere multietnico e internazionalista della resistenza partigiana

24/04/2020, Alfredo Sasso -

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(Articolo pubblicato in contemporanea da LaStoriaTutta.org )

“Insieme con noi, braccio sotto braccio, scapparono il comandante, ufficiali, sottufficiali e sentinelle, tutti uniti verso lo stesso destino. Eravamo veri fratelli, come se fossimo vissuti sempre insieme, e nessuno più pensava a quello che eravamo considerati sino al 10 settembre 1943. A questo punto comincia l’opera umana della popolazione di Garessio, che correva dappertutto per incontrarci, per offrirci quello di cui disponeva”.

Spasoje Radovanović, nato in Montenegro nel 1916, sottotenente dell’esercito del regno di Jugoslavia e in procinto di diventare partigiano in Italia, descrive così nel proprio diario i convulsi eventi attorno all’8 settembre 1943. Due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio di Badoglio, Radovanović e altri circa 400 connazionali prigionieri di guerra riuscirono finalmente a fuggire dal Campo 43 di Garessio, nell’alta valle Tanaro in basso Piemonte, cercando rifugio tra i boschi.

Quello che avvenne in seguito è la dimostrazione di due fenomeni tra loro strettamente correlati, molto comuni nell’Italia del 1943-45 e generalmente noti all’indagine storica, ma poco presenti nella narrazione pubblica. Il primo è la solidarietà popolare verso i prigionieri fuggiaschi delle forze alleate, il secondo è il carattere multietnico e internazionalista della resistenza partigiana.

Forme spontanee di solidarietà verso i militari stranieri alleati sono diffuse in tutto il “microcosmo contadino” italiano del post-8 settembre, come spiegano Marcello Flores e Mimmo Franzinelli nel recente volume Storia della Resistenza. Si tratta, spiegano gli autori, di “comportamenti istintivi e prepolitici” che si prolungano nel tempo e che, nella fase 1943-45, dimostrano la diffusa percezione delle forze nazifasciste come un corpo estraneo, anche quando questo non si traduce in un appoggio esplicito alla lotta armata partigiana. La protezione dei prigionieri evasi è un’espressione essenziale della resistenza civile in Europa – intesa, nella definizione classica di Jacques Sémelin, come un “processo spontaneo di lotta della società civile con mezzi non armati, sia attraverso la mobilitazione delle principali istituzioni, sia attraverso la mobilitazione della popolazione”.

L’elemento multietnico e internazionalista della resistenza è messo in luce da un gran numero di studi. Un articolo di Wu Ming 2 , che ha avuto ampia diffusione, del gennaio 2019 ha il merito di fornire un quadro complessivo di questi lavori, dedicati a specifici territori e nazionalità, nonché delle presenze di stranieri negli elenchi partigiani di tutta Italia. Sugli jugoslavi, il libro di Andrea Martocchia I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana offre un solido contributo, e nell’ambito del Piemonte il volume ISLAFRAN di Ezio Zubbini recupera la storia, sorprendente e rimossa, della brigata internazionale italo-slavo-francese operante nelle Langhe.

Tuttavia questo approccio fatica ancora ad emergere nella narrazione storica e nel dibattito pubblico in cui, come ammonisce Wu Ming 2, permangono i tentativi di ridurre la Resistenza italiana a un movimento esclusivamente “patriottico, bianco e nazionalista” (e, aggiungiamo, maschile). Tanti frammenti di memoria, come quello che lega l’area jugoslava e la val Tanaro, rimangono da recuperare.

Campo 43. Internamento, solidarietà, resistenza civile

Spasoje Radovanović e compagni si trovavano a Garessio dall’ottobre 1942, quando le autorità fasciste misero in funzione il Campo Prigionieri di Guerra 43, collocato presso un albergo abbandonato, il Miramonti. Furono trasferiti lì dal Campo 78 di Sulmona, e molti di loro provenivano dalla prigionia in Germania. Il Miramonti diventava così uno dei circa 60 campi di prigionia per militari in territorio italiano nei quali, nel marzo 1943, si trovavano internati circa 80.000 combattenti stranieri catturati dall’inizio della guerra (secondo i dati riportati da LavoroForzato.org  e CampiFascisti.it ).

I reclusi a Garessio (480 secondo la lista ufficiale, di cui circa 80 furono trasferiti o liberati prima dell’8 settembre) erano originari di diverse parti del regno jugoslavo: i più rappresentati erano serbi e sloveni (poco più di un centinaio ciascuno), poi montenegrini (circa ottanta) e alcune decine di croati, bosniaci e altri. Diversi di loro diventeranno in seguito figure pubbliche nella Jugoslavia socialista. In casi come quelli del compositore Pavel Šivic e dei pittori Marij Pregelj   e Ivan Miklavec tracce dell’esperienza di internamento saranno espresse nella produzione artistica. Già allora iniziarono i primi gesti di sostegno da parte della popolazione che, racconta Radovanović nel diario, li aiutava nel mantenere le corrispondenze con i familiari in Jugoslavia raccogliendo di nascosto i messaggi lanciati dal carcere.

Secondo le testimonianze di diversi prigionieri, nei giorni attorno all’8 settembre l’atteggiamento delle autorità del campo verso di loro oscillava tra prime manifestazioni di complicità e gesti di ostilità, in un clima di caos e indecisione. I reclusi si offrirono per organizzare subito una resistenza armata unita, ma vennero liberati quando le truppe naziste erano ormai in arrivo a pochi chilometri da Garessio e l’esercito italiano era ormai sfaldato. Non restava che la fuga per i boschi, sul versante rivolto verso la Liguria. A Valsorda, la prima borgata che si incontra su quel frangente, gli evasi furono assistiti dagli abitanti locali con viveri, indumenti e rifugi in cascine, capanne, seccatoi.

Nei mesi successivi gli ormai ex-prigionieri si sparsero nella val Tanaro e nelle vicine valli Mongia, Bormida, Casotto. Anche a Ormea, Lisio, Pamparato e altri paesi si diffuse la solidarietà spontanea degli abitanti, che avrebbero fornito a lungo – in alcuni casi fino alla fine della guerra – collaborazione sotto forma di alloggio e viveri, sostegno economico, guide per trasferimenti, cure e medicinali, esponendosi a gravissimi rischi se scoperti dai nazifascisti tedeschi e italiani. Nei documenti e nelle testimonianze affiorano decine di nomi e cognomi dall’estrazione diversa, tra famiglie contadine e operaie, impiegati e professionisti, montagna e urbanità valligiana, uomini e donne.

Gli aiuti delle signore Osvalda Ascheri, Emilia Bisio, Rosa Delfino e tante altre sono la prova di un contributo femminile alla resistenza civile tuttora poco riconosciuto, nella narrazione sull’Italia del 1943-45. Come ha scritto Anna Bravo , anche il “farsi carico di qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra” rientra nei vari comportamenti di resistenza civile, che nel periodo di sbandamento post-8 settembre assume i contorni di un “maternage di massa”. È un momento in cui, scrive Bravo, la donna emerge come figura forte e protettrice verso uomini in condizione di vulnerabilità, “rafforzata e mediata dalla carica simbolica connessa alla figura femminile”. Cruciale fu anche il ruolo dei parroci locali, che spesso si occuparono di coordinare aiuti e movimenti dei prigionieri. Alcuni mostrarono un atteggiamento caritatevole ed equidistante rispetto alla situazione di guerra, altri un coinvolgimento più attivo, che prefigurava un’aperta collaborazione con le forze partigiane.

L’edificio del “Miramonti” di Garessio, sede del Campo 43. Fonte: Vbs Studio – La Collina degli eventi

L’edificio del “Miramonti” di Garessio, sede del Campo 43. Fonte: Vbs Studio – La Collina degli eventi

Spiccano atti di autentico coraggio civile, come l’intuizione di Flora Corradi, la titolare dell’albergo Paradiso di Garessio in cui erano nascosti sette jugoslavi. Quando una squadra di SS irruppe nell’albergo in cerca degli evasi puntandole i fucili nella schiena, Corradi riuscì a inventarsi degli espedienti con cui li distraeva, permettendo agli evasi di scappare. C’è poi la vicenda tragica di Luigi Odda, il tipografo che stampava i documenti falsi con cui decine di ex-prigionieri jugoslavi ripararono in Svizzera: fu scoperto dai nazifascisti a causa di un delatore, incarcerato e poi deportato a Mauthausen, dove morì il 28 aprile 1945. È un’antologia di dignità umana che suscita molte riflessioni, in particolare se le si guarda con gli occhi del presente, in cui la solidarietà per soggetti vulnerabili e per chi attraversa le frontiere viene osteggiata, quando non criminalizzata.

Resistenza partigiana: la “legione straniera”

Ai prigionieri del Campo 43 in fuga si presentarono quattro possibilità: tentare la via del ritorno in Jugoslavia; riparare in Svizzera con i canali dei servizi di assistenza per prigionieri alleati; rimanere alla macchia; unirsi alla Resistenza locale. Incrociando l’elenco degli internati e le banche dati degli istituti della resistenza piemontese e ligure, risulta che circa quaranta abbiano fatto quest’ultima scelta: cinque in Liguria, principalmente con formazioni garibaldine, e gli altri in Piemonte, tutti nelle formazioni autonome della IV Divisione Alpi.

Le motivazioni e modalità della scelta appaiono, come sempre in questi casi, molto diverse. Ci fu chi, soprattutto tra i militari di carriera, seguì valutazioni razionali oltre che ideali. Nel suo diario il sottotenente Tamindžić annota, il 26 settembre 1943, che si prevedeva uno sbarco (poi però mai avvenuto) degli Alleati presso le vicine coste di Liguria e Costa Azzurra, circostanza che avrebbe offerto “l’occasione […] di partecipare onorevolmente alle lotte contro il nostro nemico” in un’area che avrebbe assunto grande importanza strategica.

Altri furono presumibilmente mossi da impulsi esistenziali e imperativi morali, soprattutto tra chi era già consapevole dei terribili crimini contro i civili compiuti dai nazifascisti nelle loro terre d’origine, e allo stesso tempo vedeva difficile un ritorno immediato in patria. C’era chi si muoveva in gruppo o in piccoli nuclei e chi, per la spinta degli eventi o forse per scelta, rimase da solo.

Nel novembre 1943 una dozzina di ex-prigionieri jugoslavi, capitanati dall’ufficiale Ilija Radović, si aggregò alla Brigata Valcasotto: lavoravano con le squadre di guastatori e logistici e nell’ambiente partigiano vennero presto denominati “legione straniera”. “Sono gentiluomini e godono, come i partigiani, della simpatia della popolazione”, scrisse nelle sue memorie don Emidio Ferraris, parroco di Pamparato. Della “legione straniera” si perdono poi le tracce nella documentazione, probabilmente a seguito dello sbandamento della brigata dopo la tragica battaglia della Valcasotto del marzo 1944. Il gruppo riappare però in scena nove mesi dopo, nel corso di un rastrellamento dei nazisti nella vicina Val Corsaglia.

Ma nelle valli di basso Piemonte e ponente ligure, i nomi di partigiani provenienti da oltre Adriatico e passati per Garessio affiorano un po’ ovunque, spesso a fianco di altri nomi francesi, polacchi, tedeschi, sovietici. Da ricordare in particolare i contributi di Spasoje Radovanović, nome di battaglia Jugos, di Podgorica – già membro della Divisione Langhe e poi del CLN di Savona, il 25 aprile 1945 partecipò alla liberazione della città con la Div. Fumagalli -, di Milan Milutinović “Mille” di Belgrado – che operò in diverse formazioni tra le valli Pennavaire e Bormida – e soprattutto di Krešimir Stojanović di Slavonski Brod, il leggendario partigiano Cresci.

Il partigiano Cresci

Nato nel 1924, Krešimir Stojanović era uno tra i più giovani reclusi del Campo 43, in cui si trovava insieme al papà, il capitano Aleksandar. Aveva tentato di evadere ancora prima di giungere al Miramonti, sul treno prigionieri che lo stava trasportando il 6 ottobre 1942, ma fu subito catturato. Dopo l’8 settembre gli Stojanović furono ospitati per alcuni mesi dalla famiglia Bernasconi, finché avvenne la decisione lacerante: il padre riparò per la Svizzera, Krešimir scelse di restare in Piemonte. I due non si vedranno mai più. Da qui inizia il peregrinare alpino e partigiano di Cresci.

Nell’aprile 1944 passò in val Pesio dove partecipò da capo tiratore alla Battaglia di Pasqua, con cui i partigiani sfuggirono all’accerchiamento della Wermacht. Poi tornò in val Tanaro, entrando nella squadra d’assalto della XIII Brigata, quella che conduceva le azioni di guerriglia più rischiose e improvvise. Dalla presa della caserma dei Forti di Nava, strappata ai repubblichini nel giugno 1944, alle innumerevoli imboscate contro contingenti, mezzi e basi operative dei reparti nazisti, alle manovre di retroguardia nel terribile inverno 1944-45 attraverso passi di oltre 2000 metri, ogni azione cruciale nella zona vide la squadra d’assalto e Cresci in prima linea, sempre insieme al suo inseparabile amico Eugenio Bologna, il comandante Genio.

In mezzo a tanta epica di guerra, e a fianco di un carattere che dalle testimonianze emerge intriso di fermezza e severità, Cresci è anche ricordato per un gesto genuinamente istintivo, goliardico, umano. La notte del 13 marzo 1945 lui, Genio e altri due partigiani operarono una clamorosa beffa ai danni del comandante tedesco della zona di Garessio, un uomo che era solito circolare per la valle in stato di ebbrezza su un calesse trainato da cavalli purosangue. Inorriditi da quel tronfio sfoggio di potere, i quattro si travestirono da nazisti, si introdussero nella scuderia e portarono via i cavalli, costringendo le pattuglie tedesche a compiere un’umiliante perlustrazione lungo tutta la valle. Fu un impulso genuino di ribellione contro gli oppressori, che alimentò il morale dei partigiani e della popolazione.

Cartello affisso durante l’incontro italo-jugoslavo del settembre 1970 a Garessio. Fonte: Archivio storico del comune di Garessio

Cartello affisso durante l’incontro italo-jugoslavo del settembre 1970 a Garessio. Fonte: Archivio storico del comune di Garessio

Memorie

Dopo la liberazione, queste vicende hanno rischiato di rimanere offuscate o perdute per tanti motivi. La questione di Trieste agitò a lungo le tensioni tra Italia e Jugoslavia, e in entrambi i paesi si consolidò una lettura della resistenza che prediligeva l’elemento patriottico e nazional-centrico rispetto a quello internazionalista. Da parte jugoslava, tra gli ex-membri dell’esercito del regno emerse la frattura tra chi era tornato nel paese, accettando e a volte sostenendo attivamente il socialismo, e chi invece aveva preso la via dell’emigrazione per motivi economici o per opposizione politica.

Tuttavia, c’è sempre chi ha operato per tenere viva la memoria e costruire legami nuovi. Tra questi va ricordato Renzo Amedeo, già partigiano della Brigata Val Tanaro e sindaco di Garessio in varie tornate nel dopoguerra. Amedeo è stato autore di una consistente mole di testi sulla resistenza locale, sempre attenti alle vicende attorno agli jugoslavi del Miramonti. È su sua iniziativa che il 6 settembre 1970 si tenne a Garessio un “incontro italo-jugoslavo”, evento commemorativo a cui parteciparono diverse decine di ex-prigionieri e partigiani del Campo 43 giunti dalla Jugoslavia e altre parti d’Europa, oltre a rappresentanti istituzionali dei due paesi.

In quell’occasione, quattro ex-prigionieri si assentarono per qualche istante dalle iniziative ufficiali. Si recarono nei boschi sopra Valsorda per raggiungere il seccatoio di proprietà della famiglia Ghiglia in cui avevano trovato rifugio ventisette anni prima. Sulla porta vi posero una piccola targa adesiva per ricordare quell’evento e la solidarietà della popolazione. È un monumento tutt’oggi presente, semplice e spontaneo, proprio come l’azione che celebra.

Anche al di là degli appuntamenti istituzionali, queste valli alpine e la sponda orientale dell’Adriatico hanno continuato a essere legate da una serie di contatti, corrispondenze, lettere aperte, visite reciproche, reti di amicizia mantenute a lungo dai loro protagonisti e dalle loro famiglie. Tutte queste tracce, piccole e intime ma profonde, hanno la stessa dignità di tanti archivi, libri e monumenti dedicati alla resistenza partigiana e civile. Anche queste sono prove di un’eredità viva, fonte continua di ispirazione ed esempio.

 

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